Chi comanda alla Casa Bianca?
Da quando Donald Trump si è insediato come presidente degli Stati Uniti, sette mesi fa, questa domanda ha tenuto occupati tutti quelli che provavano a guardare oltre il caos quotidiano – le gaffe, gli attacchi ai giornalisti, lo scandalo sui rapporti con la Russia – per capire quali politiche aspettarsi da un’amministrazione fatta da persone con idee e provenienze molto diverse.
C’era la fazione populista e nazionalista guidata da Stephen Bannon, l’ex direttore del sito di estrema destra Breitbart, che aveva avuto un ruolo fondamentale nel costruire il messaggio populista che in campagna elettorale aveva permesso a Trump di mobilitare l’elettorato conservatore e tanti delusi intorno all’idea dell’America first, e dopo le elezioni era entrato alla Casa Bianca in pompa magna come consigliere strategico di Trump.
C’era la fazione globalista e vicina al mondo della finanza – rappresentata da Jared Kushner, genero del presidente, e da Steven Mnuchin, segretario al tesoro ed ex banchiere di Goldman Sachs – che fin dall’inizio ha spinto per normalizzare Trump e farlo concentrare sulle questioni che generalmente stanno a cuore ai presidenti repubblicani: la crescita economica, la deregolamentazione finanziaria, gli aiuti alle aziende. Dal punto di vista politico questa fazione era anche quella che faceva da anello di congiunzione tra Trump e il Partito repubblicano, che con il passare dei mesi si sono allontanati sempre di più, come conferma la cacciata di Reince Preibus come capo di gabinetto.
Infine c’era l’ala militare, preoccupata che l’inesperienza e i cattivi consiglieri – Bannon e il suo braccio destro Stephen Miller – potessero portare Trump su territori inesplorati e pericolosi in politica estera, come un’alleanza con la Russa a scapito dei rapporti con l’Europa e una guerra commerciale contro la Cina.
Equilibri spostati
Ci si chiedeva come Trump potesse riuscire a conciliare ideologie e posizioni così diverse tra loro. La risposta, naturalmente, era che la conciliazione era impossibile, anche perché il presidente non aveva la voglia né la capacità di provarci. La direzione politica dell’amministrazione sarebbe venuta fuori dalla guerra senza quartiere in corso tra queste fazioni. Lo scontro è andato avanti per sei mesi, e apparentemente si è concluso con l’uscita di scena di Steve Bannon, il 18 agosto.
In realtà la svolta c’era stata circa tre settimane prima, al termine di un periodo di caos imbarazzante per tutta l’amministrazione: Trump aveva scelto l’ex banchiere Anthony Scaramucci come capo della comunicazione, e questo aveva portato alle dimissioni del portavoce Sean Spicer e all’uscita di scena di Priebus.
A quel punto il presidente ha capito di aver bisogno di un uomo forte che facesse un po’ d’ordine, e come spesso fa quando è in difficoltà si è affidato a un generale, spostando gli equilibri dell’amministrazione ulteriormente verso l’ala militare.
Il 31 luglio John Kelly, in quel momento segretario alla sicurezza nazionale, è diventato capo di gabinetto. In poco tempo ha convinto Trump che era arrivato il momento di liberarsi di Bannon (non deve essere stato difficile visto che l’ex direttore di Breitbart aveva detto di tutto per farsi odiare dai funzionari dell’amministrazione ed era rimasto senza alleati).
Il nodo afgano
Ora il generale sta cercando di fare un po’ di ordine nell’amministrazione, ristabilendo la gerarchia e soprattutto cercando di controllare l’accesso al presidente. Kelly ha costruito un patto di ferro con gli altri due generali di spicco dell’amministrazione – il segretario alla difesa James Mattis e il segretario per la sicurezza nazionale H.R. McMaster – e la prima decisione importante di Trump in politica estera dopo la cacciata di Bannon fa pensare che la loro influenza sul presidente stia aumentando.
Il 21 agosto Trump ha annunciato una nuova strategia di Washington in Afghanistan, che prevede l’invio di altri militari, probabilmente quattromila, in aggiunta agli 8.400 già schierati. Ha anche detto che farà più pressioni sul Pakistan perché s’impegni contro i terroristi pachistani attivi in Afghanistan.
L’uscita di scena di Bannon non vuol dire che Trump metterà da parte il suo lato populista
Una posizione diversa da quella che Trump ha sempre avuto sull’Afghanistan (in passato ha criticato Barack Obama chiedendogli di ritirare tutte le truppe dal paese) e molto vicina all’approccio che gli Stati Uniti hanno seguito sotto le precedenti amministrazioni, riassunto nell’idea che lasciare l’Afghanistan significhi far aumentare ulteriormente l’instabilità nel paese e quindi rafforzare i jihadisti in una zona del mondo già particolarmente problematica (Bannon, convinto che gli Stati Uniti debbano smarcarsi dai conflitti costosi e fuori dalle loro zone d’interesse, proponeva di sostituire i militari statunitensi con soldati privati).
Come ha spiegato il New York Times, la novità della strategia di Trump è l’enfasi sulla “lotta” e la rinuncia agli obiettivi politici della missione militare. A differenza di quello che succedeva sotto Obama, la costruzione di uno stato democratico non è più l’obiettivo dell’intervento statunitense. La Reuters ha invece rivelato che Trump sta valutando l’idea di usare le risorse minerarie dell’Afghanistan – il paese ha notevoli quantità di uranio, zinco, tantalio, bauxite, carbone, gas naturale e rame – per ripagare le spese militari sostenute dal governo statunitense.
Tornando alla questione di chi comanda a Washington, sarebbe però sbagliato pensare che Trump sia destinato a trasformarsi in un “normale” presidente repubblicano. L’uscita di scena di Bannon non vuol dire che Trump metterà da parte il lato populista che ha mostrato in questi mesi.
Al contrario, in un momento in cui molte aziende stanno prendendo le distanze da Trump perché non ha criticato il raduno neonazista di Charlottesville, in Virginia, e mentre i rapporti del presidente con i leader repubblicani continuano a peggiorare, è molto probabile che il presidente si appoggerà sempre di più alla stampella della retorica identitaria e nazionalista.
Soprattutto quando le inchieste sulle interferenze russe in campagna elettorale e sui rapporti tra il governo russo e alcuni funzionari dell’amministrazione entreranno nel vivo e chiameranno in causa persone vicine al presidente o il presidente stesso.
Una delle poche cose sicure su Trump è che quando è in difficoltà va all’attacco, e in quel caso non c’è generale, genero o banchiere di Goldman Sachs che possa metterlo in riga o quantomeno farlo ragionare. La sua reazione automatica è tornare in campagna elettorale, e questo significa inevitabilmente cercare il conforto della base nazionalista e indignata che lo ha portato alla Casa Bianca.
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