La sinistra statunitense sembra essere passata dal coma profondo a una salute di ferro nel giro di una notte. La sera dell’8 novembre – esattamente un anno dopo la disfatta delle elezioni del 2016, in cui Donald Trump ha sconfitto Hillary Clinton alle presidenziali e i repubblicani hanno preso il controllo della camera e del senato – i democratici hanno ottenuto una serie di vittorie alle elezioni locali che ridanno ossigeno e fanno crescere le loro speranze in vista delle elezioni di metà mandato che si terranno tra un anno.

Gli elementi più interessanti – e incoraggianti per la sinistra – arrivano dalle elezioni per il governatore della Virginia. Non che la vittoria del democratico Ralph Northam fosse del tutto inaspettata (lo stato era già governato da un democratico), ma i dati sulla composizione dei due elettorati dimostrano che i repubblicani hanno perso molti voti tra i bianchi benestanti con un buon livello di istruzione che vivono nei sobborghi ai margini delle grandi città. Sono le stesse persone che un anno fa, alle presidenziali, hanno votato in massa per Donald Trump in varie zone del paese, determinando la sua vittoria. Secondo gli exit poll diffusi dopo il voto, molti di questi elettori sono delusi da quello che Trump ha fatto in questi dieci mesi e hanno voluto dargli un avvertimento.

Queste vittorie sembrano aver colto di sorpresa gli stessi leader democratici

Un altro risultato importante riguarda il New Jersey: Chris Christie, il primo governatore repubblicano a sostenere Trump nel 2016 e oggi uno dei politici più impopolari del paese, sarà sostituito dal democratico Phil Murphy, ex banchiere della Goldman Sachs ed ex ambasciatore degli Stati Uniti in Germania.

Lo stesso giorno altre elezioni hanno dimostrato che gli elettori di sinistra (e non solo) sono pronti a mobilitarsi in vari stati del paese. Il Maine ha votato a favore della proposta di espandere il Medicaid, il programma del governo che aiuta le famiglie a basso reddito a sostenere i costi dell’assistenza sanitaria; una misura fondamentale per accedere ai vantaggi previsti dall’Obamacare, la riforma sanitaria voluta da Barack Obama, e che i repubblicani si erano sempre rifiutati di attuare. In Georgia, uno stato storicamente conservatore, i democratici sono riusciti a strappare ai repubblicani due seggi al parlamento locale. Vi Lyles sarà la prima sindaca afroamericana della storia di Charlotte, in North Carolina. In Virginia Danica Roem, una giornalista transessuale, è entrata in parlamento battendo un candidato repubblicano omofobo. Nello stesso stato i democratici hanno annullato il vantaggio di 32 seggi che i repubblicani avevano alla camera.

Queste vittorie sembrano aver colto di sorpresa gli stessi leader democratici. “Amici miei, il Partito democratico è tornato”, ha dichiarato Tom Perez, presidente del comitato elettorale democratico. L’ex presidente Obama ha scritto su Twitter: “Ecco cosa succede quando le persone vanno a votare”.

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L’euforia dei democratici è rafforzata da quello che succede in campo repubblicano, dove l’ideologo dell’estrema destra Steve Bannon, dopo essere stato cacciato dalla Casa Bianca, si sta dedicando a tempo pieno a coltivare una schiera di candidati locali estremisti e ideologici per fomentare una rivolta contro l’establishment conservatore. In questo modo sta creando una frattura che potrebbe creare problemi al partito in vista delle elezioni di metà mandato del 2018.

Ma per i democratici le buone notizie finiscono qui. I risultati dell’8 novembre non cancellano la crisi in cui si trova la sinistra americana. Il problema principale riguarda le divisioni interne. A quasi due anni dall’inizio delle primarie democratiche, in cui si sono scontrati Hillary Clinton, candidata dell’establishment, e Bernie Sanders, senatore socialista del Vermont, il partito è ancora spaccato in due. La fazione moderata e quella più radicale sono in disaccordo praticamente su tutto, in particolare sulla strategia con cui presentarsi alle elezioni di metà mandato, che si terranno a novembre del 2018 e in cui si rinnoveranno la camera e un terzo del senato, e alle presidenziali del 2020.

L’ala moderata è ancora convinta che si vinca tenendo insieme la coalizione elettorale che nel 2008 portò Obama al potere (dove è fondamentale il sostegno delle minoranze) e portando avanti ricette politiche ed economiche di centrosinistra, mentre l’ala radicale sostiene che il Partito democratico dovrebbe sforzarsi di recuperare gli elettori della classe operaia bianca che alle ultime elezioni hanno votato per Trump, e che per farlo bisogna puntare su un programma più coraggioso e veramente di sinistra, sul modello di quello portato avanti da Jeremy Corbyn alle ultime elezioni nel Regno Unito.

Le divergenze sono molte e riguardano vari argomenti, tra cui: il libero mercato (i moderati sostengono il Trattato di libero scambio nel Pacifico e quello con il Canada e il Messico, voluti dai presidenti democratici Barack Obama e Bill Clinton, mentre i radicali vogliono ridimensionare il peso del commercio internazionale sull’economia); il sistema sanitario (i primi vogliono limitarsi e migliorare gli aspetti più problematici dell’Obamacare, i secondi vogliono andare verso un modello di sanità universale simile a quello di alcuni paesi europei); i rapporti con le banche (con i secondi che continuano ad accusare i primi di essere troppo vicini a Wall street e propongono di superare le regolamentazioni morbide volute da Obama con provvedimenti drastici che riducano il potere del settore finanziario). Le due fazioni sono in disaccordo anche sulla possibilità di fare accordi con Trump su alcuni disegni di legge.

Le due anime del Partito democratico stanno ancora discutendo delle colpe della sconfitta del 2016

Queste divisioni condizionano le candidature e le campagne elettorali locali. A giugno gli attivisti più radicali si sono rifiutati di sostenere con forza Jon Osoff in Georgia nelle elezioni speciali per assegnare un seggio al congresso. Osoff era un candidato fedele all’establishment democratico e con un messaggio centrista. E questo, secondo l’ala radicale, ha dimostrato che i leader del partito non hanno ancora capito i motivi della sconfitta del 2016. Alla fine Osoff ha perso per soli novemila voti. Nei prossimi mesi vedremo altre situazioni simili: gli attivisti fedeli a Bernie Sanders si stanno dando da fare per trovare candidati che sfidino i democratici centristi nelle primarie che si terranno in vista delle elezioni del prossimo anno.

Il fatto che le due anime del partito stiano ancora discutendo delle colpe della sconfitta del 2016 – con l’ala radicale che accusa i dirigenti del partito di aver sabotato la candidatura di Sanders – non aiuta la causa della riconciliazione.

Gli elettori se ne rendono conto: secondo un sondaggio della Cnn, oggi solo il 37 per cento degli statunitensi ha un’opinione positiva del Partito democratico, il dato più basso dal 1992. Le opinioni raccolte dimostrano che il livello di apprezzamento diminuisce man mano che aumenta lo scontro tra le due fazioni del partito. È una situazione paradossale: al potere c’è il presidente repubblicano più impopolare, divisivo e impreparato della storia recente del paese e una parte importante dell’elettorato (come dimostrano le elezioni dell’8 novembre) non vede l’ora di andare a votare per dagli una lezione. Eppure il partito d’opposizione non sembra avere idea di quale sia la strategia migliore per approfittarne.

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