Era la fine di febbraio del 2016, mancavano otto mesi alle elezioni presidenziali. Donald Trump aveva appena vinto i caucus del Nevada nelle primarie repubblicane e stava tenendo il discorso della vittoria a Las Vegas, davanti a una folla di persone entusiaste. A un certo punto, parlando dei gruppi demografici che avevano votato per lui, disse: “Adoro le persone poco istruite”. Quella frase fece indignare buona parte dei commentatori e dei politici, soprattutto quelli repubblicani, convinti che nel terzo millennio nessun politico potesse andare al potere in un paese avanzato rifiutando platealmente il valore dell’istruzione.
Con il senno di poi, invece, si può dire che quelle poche parole sono la sintesi efficace degli ultimi due anni di politica statunitense: da un lato rivelano la capacità di Trump di risvegliare un elettorato che si considerava dimenticato, e che alla fine lo ha portato alla Casa Bianca; dall’altro offrono una chiave per capire molte delle cose fatte dal presidente nel primo anno di mandato.
Fin dall’inizio il trumpismo è stato un movimento culturale più che un progetto politico, nel senso che mentre le sue proposte politiche sono sempre state confuse e in contraddizione tra loro, il rifiuto dei valori dominanti – quelli identificati genericamente con il cosiddetto establishment – è stato una costante e ha dato a Trump un’arma che per i suoi avversari era molto difficile contrastare.
Trump ha trasformato l’ostilità verso la conoscenza in disprezzo per chiunque possa essere considerato un intellettuale
In Fire and fury, il libro di Michael Wolff che svela i retroscena della Casa Bianca (in uscita in Italia per Rizzoli), si racconta che quando frequentava l’università della Pennsylvania, Trump odiava la parola “professore”, e ancora oggi si vanta del fatto che non ha mai comprato un libro di testo, non andava quasi mai a lezione e quando ci andava non prendeva appunti, e nonostante questo era uno dei migliori studenti del corso. Una volta diventato un personaggio pubblico e poi un politico Trump ha trasformato l’ostilità verso la conoscenza teorica in disprezzo per chiunque possa essere considerato un intellettuale.
Naturalmente non è un elemento nuovo nella società statunitense (nel 1963 lo storico Richard Hofstadter scrisse un libro sull’anti-intellettualismo nella società statunitense che viene citato ancora oggi), ma con Trump questo approccio è entrato nello studio ovale.
Un articolo di Newsweek racconta che subito dopo essersi insediato ha voluto che dietro la sua scrivania fosse appeso un ritratto di Andrew Jackson, presidente dal 1829 al 1837. Jackson è stato uno dei nove presidenti statunitensi che non hanno frequentato l’università; oltre a simpatizzare con gli imprenditori schiavisti del sud, era un politico che non si faceva problemi a mostrare la sua ostilità verso le élite politiche ed economiche del nord, che ricambiavano appassionatamente. Trump in un certo senso ha preso spunto da lui, e lo dimostra il tipo di amministrazione che si è costruito intorno. Nella maggior parte dei casi sono persone che non solo non hanno esperienza politica ma non hanno neanche frequentato le università che negli Stati Uniti sono spesso la porta d’accesso al potere.
Università sotto tiro
Era inevitabile che questo approccio si traducesse in politiche pensate per colpire le università. Newsweek spiega che Betsy DeVos, una fondamentalista cristiana scelta da Trump come segretaria all’istruzione, si è impegnata subito a smantellare i provvedimenti voluti da Barack Obama per facilitare l’accesso alle università e soprattutto per limitare le discriminazioni nei campus. Durante la precedente amministrazione il dipartimento dell’istruzione ha aperto più di 140 inchieste per presunti casi di abusi sessuali e discriminazioni contro le minoranze, e non è un caso se è proprio in quegli anni che la destra ha cominciato ad attaccare pesantemente i presidi e i docenti dei college, soprattutto di quelli pubblici, accusati di aver instaurato un regime culturale in cui le idee conservatrici sono osteggiate, il principio della libertà d’espressione è calpestato e gli studenti raramente si trovano a confrontarsi con idee che non condividono.
DeVos sta trasformando quegli attacchi in politiche concrete, come dimostra il fatto che ha nominato Candice Jackson, un’avvocata contraria alle teorie femministe e ai provvedimenti di discriminazione positiva, a capo dell’ufficio per i diritti civili del dipartimento. A questo si aggiungono le norme approvate in stati governati dai repubblicani per tagliare i fondi alle università pubbliche.
“È il caso, per esempio, di Scott Walker, che dopo essere entrato in carica come governatore del Wisconsin ha tagliato di 250 milioni di dollari il budget, causando il licenziamento di decine di funzionari e la cancellazione di programmi accademici. In Louisiana i repubblicani hanno ridotto la spesa pubblica per i college statali di 700 milioni negli ultimi dieci anni, mentre in Kansas i tagli sono stati di 30 milioni solo nel 2016”.
In poche parole oggi le università sono il terreno finale dello scontro politico tra destra e sinistra. In palio c’è l’orientamento delle future classi dirigenti. E qui, come spiega Newsweek, entra in gioco la questione demografica: “La base elettorale di Trump – formata soprattutto da uomini e bianchi – è sempre meno rappresentata nelle università statunitensi: nel 1976 i bianchi formavano l’86 per cento del corpo studentesco, mentre nel 2014 erano il 58 per cento e nel giro di pochi anni potrebbero scendere sotto la metà. Inoltre nei campus ci sono sempre più donne (il 55 per cento nel 2014) e sempre più studenti stranieri (dall’1,7 per cento del 1970 al 4,8 per cento del 2014)”.
Con un presidente che non perde occasione per attaccare gli “esperti” e il pensiero scientifico in generale, e una sinistra sempre più asserragliata intorno alle questioni identitarie, tutto fa pensare che il conflitto culturale intorno alle università sia destinato a crescere. E i primi a farne le spese potrebbero essere proprio gli studenti, che sempre più spesso si ritroveranno a pagare – e a indebitarsi – per un’istruzione più ideologica e meno universale.
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