A Roma i rifugiati eritrei finiscono per strada
“Siamo rifugiati, non siamo terroristi”, avevano scritto i rifugiati eritrei su uno striscione appeso sulla facciata del grande palazzo in stile razionalista di piazza Indipendenza, a pochi metri dalla stazione Termini di Roma. Una risposta alla minaccia di sgombero che incombeva da tempo sulle loro vite.
Era almeno dall’epoca del piano sicurezza per il giubileo straordinario del commissario Francesco Paolo Tronca che le 250 famiglie che abitavano nell’ex sede dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) temevano di essere cacciate dall’immobile di proprietà del fondo immobiliare Omega.
Lo sgombero alla fine è arrivato nella settimana di ferragosto, con le strade vuote e la città silenziosa. Uno degli sgomberi più grandi degli ultimi anni nella capitale, il terzo nel giro di poche settimane dopo quello di un edificio occupato in via di Vannina e un altro a via Quintavalle, a Cinecittà. Alle prime luci dell’alba del 19 agosto cinquecento agenti della polizia hanno bloccato tutte le vie di accesso all’edificio e hanno fatto irruzione nel palazzo.
Arrivo all’alba
“Non ci avevano avvisati: i poliziotti sono arrivati alle sei di mattina, sono entrati e hanno detto al portiere che erano venuti per controllare i documenti dei residenti com’era già successo in passato”, racconta Simon, un uomo eritreo di quarant’anni, che viveva nel palazzo occupato dal 2013 e ha passato le ultime due notti sulle aiuole di piazza Indipendenza insieme a un paio di valigie e a un centinaio di suoi connazionali, tra cui una cinquantina di donne.
“I poliziotti sono saliti all’ultimo piano e hanno fatto uscire tutti fuori, e poi lentamente sono scesi ai piani inferiori. Hanno detto a ognuno di prendere le proprie cose, ci hanno caricato su degli autobus e ci hanno portato in questura per il controllo dei documenti e dei permessi di soggiorno”, continua Simon.
Lo sgombero è andato avanti per ore, ma dopo il passaggio in questura gli occupanti sono stati tutti rilasciati perché avevano i documenti in regola: la maggior parte di loro è titolare dello status di rifugiato o di qualche forma di protezione internazionale. “Ci hanno lasciato andare e ci hanno detto solo che non potevamo più entrare nel palazzo, dove però si trovano ancora tutte le nostre cose. Solo alle famiglie con i bambini è stato permesso di dormire nell’edificio, al primo piano”, continua Simon, che è arrivato in Italia nel 2008, su un’imbarcazione, attraverso la rotta del Mediterraneo centrale fino a Lampedusa.
Dall’amministrazione comunale e dal prefetto non è stata offerta nessuna alternativa alle famiglie di rifugiati eritrei
“Quando sono arrivato in Italia ho provato ad andare nel Regno Unito dove si trova una parte della mia famiglia, ma mi hanno rimandato indietro, a causa del regolamento di Dublino e dall’Italia non mi sono più potuto muovere”, spiega. Simon lavora saltuariamente e non riesce a pagarsi una casa in affitto, per questo nel 2013 insieme ad altri connazionali aveva occupato il palazzo abbandonato di piazza Indipendenza. Ora ha perso tutto.
Dall’amministrazione comunale e dal prefetto non è stata offerta nessuna alternativa alle famiglie di rifugiati eritrei di piazza Indipendenza che per il momento sono costrette a dormire per strada: tra loro ci sono anziani, persone con disabilità e molte donne incinte. “Ci sono persone malate e alcuni anziani che stanno per strada, con il caldo di questi giorni, senza acqua e servizi igienici. Non sappiamo cosa fare e nessuno del comune si sta facendo vivo”, conclude Simon.
Un sistema fallimentare
Questa situazione è frutto del fallimento del sistema di accoglienza italiano, spiega don Mussie Zerai, sacerdote eritreo punto di riferimento della comunità eritrea italiana: “Il sistema nazionale di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati (Sprar) che in teoria dovrebbe aiutare queste persone a diventare autonome non è sufficiente per garantire a tutti una reale integrazione. Per questo molti finiscono in sacche di marginalità e sono costretti a occupare palazzi fatiscenti o in disuso”.
Prima del palazzo di piazza Indipendenza a Roma sono state occupate delle palazzine in via Collatina nel 2004 e a ponte Mammolo. Proprio lo sgombero del borghetto di ponte Mammolo nel 2015 portò a una situazione di emergenza senza precedenti nella capitale, con centinaia di persone che dormivano per strada nei pressi del centro Baobab a via Cupa e della stazione ferroviaria Tiburtina.
“Gli sgomberi senza soluzioni alternative creano delle situazioni di insicurezza e di emergenza ancora peggiori”, continua Zerai. “Queste persone hanno bisogno di protezione da parte dello stato. Sulla carta lo stato e la costituzione italiana gli garantiscono una protezione, ma poi di fatto le lasciano nell’insicurezza e nella precarietà. Questo non succede in altri paesi europei, perché avviene solo in Italia? Perché non c’è un progetto reale di integrazione per i rifugiati?”.
In Italia molte persone che hanno ottenuto la protezione internazionale vivono in una situazione di emergenza abitativa perché possono chiedere di entrare in un centro di accoglienza Sprar solo per sei mesi, ma per loro non è prevista nessuna misura di welfare a lungo termine.
Il presidente della commissione diritti umani del senato Luigi Manconi ha chiesto alle autorità di risolvere rapidamente la situazione: “Sarebbe importante e urgente che le autorità comunicassero dove pensano di alloggiare persone che non hanno commesso alcun crimine e verso le quali l’Italia ha un dovere di tutela sancito dalla costituzione”.
Anche l’Unhcr e la Comunità di sant’Egidio hanno espresso preoccupazione. “Questa situazione si aggiunge a un quadro già problematico”, ha scritto l’Unhcr in un comunicato, lamentando la mancanza di un piano di accoglienza dei profughi, dei richiedenti asilo e dei rifugiati nella capitale. “Sono centinaia le persone in transito nella città di Roma attualmente costrette a dormire per strada in assenza di strutture di accoglienza adeguate”.
La Comunità di sant’Egidio in una nota ha ricordato che le persone sgomberate non sono irregolari e molti hanno un lavoro che sarà difficile mantenere se perdono l’alloggio: “Si trovino quindi soluzioni appropriate nel rispetto delle persone e per il bene della capitale, che non ha bisogno di situazioni conflittuali”.
Mussie Zerai, intanto, ha chiesto d’incontrare le autorità capitoline e ha ricevuto un appuntamento per il 21 agosto dall’assessora ai servizi sociali del comune di Roma Laura Baldassarre, ma non ha ottenuto risposta dal prefetto Paola Basilone.
Quella zona di Roma è legata al passato coloniale italiano, un passato che tendiamo troppo spesso a dimenticare e rimuovere
La storia dell’occupazione del palazzo di piazza Indipendenza è legata al naufragio del 3 ottobre 2013 a Lampedusa, in cui persero la vita 366 persone, quasi tutte di origine eritrea. “Ormai il dramma del 3 ottobre 2013 a Lampedusa non lo ricorda più nessuno”, spiega Cristiano Armati, attivista dei movimenti per il diritto alla casa di Roma e autore del libro La scintilla. Una storia antagonista della lotta per la casa (Fandango 2015).
“È uno dei tanti naufragi che sono avvenuti da allora e che hanno attirato l’attenzione dei mezzi d’informazione, ma provocò un trauma forte nell’opinione pubblica italiana”, ricorda. Dopo la strage di Lampedusa, l’Italia si accorse che in quel momento gli eritrei formavano uno dei gruppi più numerosi tra i migranti che ogni anno attraversavano il Mediterraneo per arrivare in Europa. Un vero e proprio esodo dall’ex colonia, governata dal 1993 dal dittatore e leader dell’indipendenza Isaias Afewerki, accusato di gravi e diffuse violazioni dei diritti umani.
“All’indomani del naufragio del 3 ottobre, nacque l’occupazione di piazza Indipendenza nell’ambito del cosiddetto tsunami tour, una campagna dei movimenti romani per il diritto alla casa”, spiega Armati che ripercorre le tappe dell’arrivo degli eritrei nel palazzo. L’allora sindaco di Roma Ignazio Marino offrì ospitalità ai 155 superstiti che avrebbero dovuto trovare un alloggio nel centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto. Ma il centro all’epoca era allagato, così in molti si stabilirono nell’edificio abbandonato di nove piani, in un quartiere che dagli anni settanta ospita esercizi commerciali, ristoranti e attività della comunità etiope, eritrea e somala di Roma.
“Quella zona di Roma è legata al passato coloniale italiano, un passato che tendiamo troppo spesso a dimenticare e rimuovere”, ricorda la scrittrice italosomala Igiaba Scego, autrice, insieme al fotografo Rino Bianchi, del libro Roma negata (Ediesse 2014).
La memoria rimossa
Roma è una città che fin dagli anni settanta ha ospitato la diaspora eritrea e se è vero – come ha scritto lo storico Angelo del Boca – che “l’Africa è stata una parte importante della vita degli italiani”, è tanto più grave l’ignoranza che circonda ogni questione che riguarda cittadini stranieri che provengono dalle ex colonie italiane. “Mi ha sempre molto colpito che le strade intorno a piazza dei Cinquecento a Roma fossero un luogo di ritrovo per i migranti del corno d’Africa”, continua Scego. “Infatti pochi sanno o ricordano che piazza dei Cinquecento è dedicata ai caduti della battaglia di Dogali, in Eritrea, una delle battaglie della guerra coloniale alla fine dell’ottocento”.
“Mentre vedevo le immagini dello sgombero del palazzo di piazza Indipendenza pensavo a quanto poco sappiamo degli eritrei che insieme alle loro valigie portavano per strada i quadri di san Michele Arcangelo, uno dei santi più venerati dalla chiesa copta eritrea. Non sappiamo niente di queste persone, della storia del loro paese e di quanto siano parte della storia dell’Italia fin dall’ottocento”, continua Scego. “Preferiamo trattarli come se fossero degli estranei appena arrivati”.
“Secondo alcune inchieste i rifugiati in emergenza abitativa a Roma sono 2.500, settemila i richiedenti asilo che vivono nelle stesse condizioni. Nel totale disprezzo della convenzione di Ginevra”, spiega Cristiano Armati, che sottolinea come i rifugiati avrebbero il diritto a partecipare ai bandi per l’assegnazione di una casa popolare.
Con una delibera regionale del gennaio del 2014 si provò a regolarizzare la condizione abitativa dei rifugiati di piazza Indipendenza, insieme a quella degli altri occupanti di case a Roma, racconta sempre Armati. La delibera prevedeva il recupero del patrimonio immobiliare pubblico per l’assegnazione di case popolari, l’acquisto calmierato d’immobili privati inutilizzati, sempre con lo stesso scopo, e lo stanziamento di fondi per la costruzione di nuove abitazioni destinate all’edilizia popolare pubblica. Ma la norma è rimasta inapplicata e dal 2015 è cominciata una nuova stagione di sgomberi nella capitale che ha portato a un aumento consistente delle persone che vivono per strada.