Non solo Riace, il sistema di accoglienza italiano è sotto attacco
“Il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati in Italia è all’avanguardia rispetto a quello di altri paesi europei come la Francia, la Spagna o la Grecia”, afferma senza incertezze l’inviato speciale dell’Onu per il Mediterraneo Vincent Cochetel dopo aver visitato alcuni appartamenti che ospitano richiedenti asilo a Bologna, case gestite dal comune nell’ambito di un progetto del Servizio per la protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati (Sprar).
Da qualche mese Bologna ha convertito tutti i progetti di accoglienza in Sprar, cioè in progetti di accoglienza ordinaria, gestiti direttamente dal comune, che non forniscono solo vitto e alloggio, ma accompagnano il richiedente asilo in un percorso d’inclusione, fatto di apprendimento della lingua italiana e formazione professionale.
Per Cochetel sicuramente c’è ancora molto da fare, ma l’Italia in questi anni ha fatto passi da gigante per adeguare il suo sistema di accoglienza agli standard e alle norme europee e per uscire da un modello di gestione solo emergenziale del fenomeno migratorio. In tutto il territorio nazionale i progetti Sprar sono 877 e coinvolgono 1.200 comuni italiani, che ricevono fondi dal ministero dell’interno per occuparsi direttamente dell’accoglienza. Nel 2009 gli Sprar ospitavano tremila persone, mentre nel 2018 sono arrivati a ospitarne 35.881. L’idea fondamentale che ha ispirato questo sistema è stata quella di rendere diffusa l’accoglienza, secondo un principio di solidarietà e condivisione delle responsabilità.
Dal 2014 il ministero aveva deciso d’investire sul sistema Sprar, finanziando tirocini, borse lavoro, corsi di lingua
Negli ultimi anni, in particolare dal 2014, si è investito molto nell’obiettivo di rendere il sistema ordinario di accoglienza preponderante rispetto a quello straordinario e tuttavia in Italia ancora il 70 per cento dei richiedenti asilo è ospitato nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas), cioè in alberghi, capannoni ed ex caserme (in tutto 136.978 posti), spesso lontani dai centri abitati, e nei Centri per richiedenti asilo (Cara), strutture in cui si rimane per mesi (anche se la legge prevede una permanenza massima di 35 giorni). I Cas sono gestiti dai prefetti che in via straordinaria assegnano dei fondi a privati.
Le differenze fondamentali tra gli Sprar e i Cas sono due: il tipo di servizi offerti a fronte della spesa che è identica (i famosi 35 euro a persona al giorno) e le regole che i due sistemi seguono. Il sistema Sprar è sottoposto a una rendicontazione più rigida, standard di qualità più alti, offre servizi più articolati ed è gestito dagli enti locali che sono obbligati a spendere tutti i fondi ricevuti nel progetto, senza poter fare profitti.
I Cas invece sono centri gestiti da privati, che ricevono i finanziamenti direttamente dal ministero dell’interno, di solito concentrano i richiedenti asilo in grandi strutture, con bassi standard di accoglienza e senza alcun obbligo di rendicontazione delle spese. “Dal 2014 il ministero ha deciso d’investire sul sistema Sprar, perché si è capito che era importante finanziare l’integrazione e cioè i tirocini, le borse lavoro, i corsi di lingua e poi perché nel sistema Sprar c’è un sistema di controllo e coordinamento nazionale che evita le anomalie e la penetrazione della criminalità”, spiega Daniela Di Capua, direttrice del Servizio centrale.
Come afferma uno degli ideatori dello Sprar, Gianfranco Schiavone dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), nel corso del tempo sono stati proprio i Cas a essere più infiltrati dalle organizzazioni criminali, perché il sistema straordinario non prevede alcun “controllo della spesa”. Nonostante questo, con l’approvazione del decreto immigrazione e sicurezza il 24 settembre, il governo ha deciso d’invertire la rotta e d’investire proprio sul sistema dei centri straordinari. La norma, infatti, prevede il ridimensionamento del sistema Sprar, che ospiterà solo coloro a cui è già stata riconosciuta la protezione internazionale e i minori stranieri non accompagnati.
Il caso Riace
Si è tornati a parlare del sistema Sprar dopo il caso Riace, perché il comune calabrese, già toccato dall’arresto del sindaco Domenico Lucano, il 9 ottobre ha ricevuto una circolare con la quale il ministero dell’interno ha deciso di chiudere il progetto, uno dei primi in Italia, attivo dalla nascita del Piano nazionale asilo (Pna) e poi dello Sprar nel 2002.
“Il progetto di accoglienza di Riace è stato capofila nei progetti Sprar italiani, si può dire che il modello Riace sia il progetto Sprar. Le linee guida prevedono proprio quello che Riace aveva già attuato: l’accoglienza in appartamenti, piccoli numeri di persone, il radicamento sul territorio”, spiega Di Capua. Il comune calabrese ha sviluppato buone pratiche, successivamente riprese da tutto il sistema nazionale e diventate un modello anche all’estero.
Ma dall’inizio del 2016 Riace è finita sotto la lente d’ingrandimento del Servizio centrale e della prefettura di Reggio Calabria. “Il fatto che il comune fosse più famoso in quanto simbolo, il fatto che avesse più visibilità rispetto ad altri progetti ha comportato che ci si concentrasse sul suo funzionamento, infatti ci sono state cinque ispezioni nel giro di due anni”, ammette Di Capua. “Siamo andati di persona a Riace, anche per spiegare quali erano i problemi”, continua.
Nella circolare in cui comunica la chiusura del progetto, il ministero dell’interno contesta a Riace di aver accumulato 34 punti di penalità nella scheda di valutazione (la revoca totale del contributo può essere disposta in presenza di una decurtazione di punteggio compresa tra 14 e 20 punti) per irregolarità nella rendicontazione e standard troppo bassi rispetto a quelli previsti dalle linee guida dello Sprar; nella circolare si accusa il progetto di Riace di aver prolungato la permanenza dei richiedenti asilo oltre il termine previsto e infine di aver usato al posto dei soldi dei buoni che non erano conformi alle leggi dello stato.
“Nel corso del tempo sono cambiate le norme non solo per lo Sprar, ma anche le leggi amministrative nazionali e nessuno nel comune ha mai dato il segnale di voler sistemare quelle criticità”, afferma Di Capua. Per questo Riace ha ricevuto prima dei richiami, poi la decurtazione dei fondi e infine la notifica di chiusura del progetto.
“Non si tratta del primo progetto Sprar chiuso per questo motivo, altri dodici progetti hanno ricevuto penalità molto gravi e alla fine hanno chiuso o per revoca o per rinuncia. Ma c’è da dire che il ministero dell’interno avrebbe potuto non chiudere Riace. La decisione della revoca è discrezionale. Nel decreto si afferma che il ministero può, e non deve, chiudere il progetto”, aggiunge Di Capua. “Forse avrebbe potuto restringere il progetto, facendo una revoca parziale. Avrebbe potuto chiedere di ridurre i numeri degli accolti per dare il tempo all’amministrazione di risolvere i problemi”, conclude.
Leggi troppo rigide
Per Schiavone, consulente legale del comune nel contenzioso con il ministero dell’interno, è incredibile quello che è successo a Riace, “perché la storia del paese si è sovrapposta a quella dello Sprar”. La storia di Riace è lunga: “Il progetto è stato uno dei primi nel 2002 finanziato dallo Sprar e in sedici anni non ha mai ricevuto valutazioni negative, ora improvvisamente non va più bene”.
Riace, per l’esperto, è stata all’avanguardia nella sperimentazione di molte pratiche come i buoni spesa, le borse lavoro nell’artigianato e nel turismo solidale, ma soprattutto nel rilancio dell’economia locale di una zona depressa e a rischio spopolamento. “Certo la sperimentazione ha spesso coinciso con una leggerezza nel rispetto della burocrazia. Ma per molto tempo questo non ha rappresentato un problema: da un certo punto in avanti la correttezza della forma è diventata più importante della sostanza”, afferma.
Negli ultimi tre anni in generale le regole di rendicontazione e la burocrazia nello Sprar si sono molto appesantite e questo ha sfavorito soprattutto i paesi più piccoli. “Il comune di Riace avrebbe dovuto fare meglio, ma la responsabilità non è al cinquanta per cento: il Servizio centrale avrebbe dovuto andare incontro al comune, il sistema nazionale ha la responsabilità più grossa”, afferma Schiavone. “La penalità massima e la conseguente chiusura del progetto si sarebbe dovuta applicare solo se i soldi pubblici non fossero stati usati per assistere le persone e per erogare servizi”.
Nel territorio calabrese il modello Sprar si imposto: la Calabria è la terza regione d’Italia per il numero degli Sprar. “Grazie a Domenico Lucano molti sindaci hanno capito che aprire degli Sprar poteva convenire. Anche sindaci di centrodestra hanno visto che l’accoglienza poteva aiutare a ripopolare i borghi”, spiega Giovanni Maiolo, operatore sociale e direttore di Recosol, la rete dei comuni solidali. “In un territorio come quello calabrese, dove c’è una forte presenza della criminalità organizzata, il sistema Sprar ha evitato che in alcuni contesti si dirottassero i fondi per l’accoglienza”.
Maiolo ammette che negli ultimi anni il sistema Sprar si sia molto burocratizzato: “Domenico Lucano poi è sempre stato allergico alla burocrazia, ma se ha fatto degli illeciti lo deciderà il processo, quando si svolgerà. Si dovrebbe però cercare un giusto equilibrio tra i controlli e la sostenibilità del sistema in generale. Questo vale per tutti”, afferma Maiolo che definisce “macelleria sociale” l’attacco in corso contro lo Sprar. “In Italia si perderanno 15mila posti di lavoro”, sottolinea.
Daniela Di Capua ammette che “il sistema di rendicontazione negli ultimi anni è in effetti diventato più rigido perché si è dovuto adeguare a una serie di leggi nazionali, come le misure anticorruzione”. L’unica misura approvata per aiutare i comuni più piccoli nella rendicontazione è stata l’istituzione di un revisore indipendente, pagato dallo stesso Sprar.
“Ma è una misura troppo recente e molti comuni in effetti hanno ancora problemi”, conclude Di Capua. Il quadro generale è comunque quello del decreto Salvini che prevede la restrizione del sistema ordinario: “I nuovi arrivi si sono ridotti, quindi nel giro di poco tempo avremmo raggiunto l’obiettivo di coprire tutti i posti necessari in accoglienza attraverso lo Sprar. Ma invece si è deciso di ridurre i posti nell’accoglienza ordinaria a favore dei Cas”.
L’Anci ha proposto degli emendamenti al decreto, che è stato approvato a fine settembre e che ora è in fase di discussione parlamentare. Per Schiavone questo attacco allo Sprar sembra tutt’altro che casuale da parte del governo: “Al momento abbiamo un numero inferiore di richiedenti asilo rispetto agli anni passati e in un certo senso l’obiettivo della legge del 2015 di fare dello Sprar il sistema unico si stava realizzando e invece si è deciso di restringere il sistema: “Viene da pensare che proprio perché questo obiettivo si stava realizzando, questo governo ha bloccato la realizzazione dell’unico sistema che funziona e che crea integrazione”.
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