Spesso a sproposito si cita l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) – l’agenzia dell’Onu che si occupa di tutelare i diritti dei profughi – per affermare che i centri di detenzione libici non sono poi così disumani.
Il ministro dell’interno italiano Matteo Salvini nel giugno 2018 aveva detto che quella delle torture in Libia è solo “una retorica” e aveva assicurato di aver visitato un centro di accoglienza “all’avanguardia” monitorato dall’Onu. Ma in questi giorni l’Unhcr ha ribadito di avere un accesso limitato ai centri di detenzione libici e in un nuovo rapporto “Viaggi disperati” ha inoltre spiegato che riportare indietro i migranti significa di fatto accettare che finiscano di nuovo nelle mani dei loro aguzzini.
I migranti riportati in Libia, dopo lo sbarco sono trasferiti nei centri governativi dove hanno accesso limitato ad acqua, cibo e servizi igienici. In queste strutture spesso si ammalano e muoiono anche per semplici infezioni e il rischio di epidemie è molto alto, dichiara l’Onu. Ma non solo, dopo qualche mese passato nei centri gestiti dal governo i migranti tornano nelle mani dei trafficanti di esseri umani, in una specie di gioco dell’oca che sembra infinito. Mentre in passato i trafficanti guadagnavano grazie alle partenze dei migranti, ora guadagnano grazie alla loro detenzione attraverso le estorsioni alle famiglie e la loro compravendita.
Partenze ininterrotte
Nonostante gli accordi tra Roma e Tripoli firmati dal governo Gentiloni nel febbraio del 2017 abbiano determinato una netta diminuzione degli arrivi di migranti sulle coste italiane, le partenze di imbarcazioni dalle coste libiche non si sono fermate. Anche le politiche di deterrenza totale praticate dall’attuale governo con la chiusura dei porti a partire dalla seconda metà del 2018, non hanno interrotto le partenze.
Quello che si è modificato in maniera allarmante è il tasso di mortalità: da quando i porti sono chiusi (le navi delle ong sono state allontanate e l’attività di ricerca e soccorso si è ridotta) il tasso di mortalità lungo la rotta del Mediterraneo centrale è raddoppiato. Ogni giorno nel Mediterraneo muoiono sei persone, e se nel 2017 ha perso la vita una persona ogni 38, nel 2018 è morta una persona ogni 14. Contro ogni convenzione internazionale che impone di portare i migranti soccorsi in mare nel porto sicuro più vicino, l’85 per cento delle persone che sono partite dalla Libia è stato riportato nel paese nordafricano che non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 e che dal 2011 è nel caos, diviso da almeno due governi e decine di bande armate che se ne contendono il controllo.
La proclamazione di una zona di ricerca e soccorso libica (Sar libica) nel giugno del 2018 ha causato ulteriore confusione: le autorità marittime internazionali (Imo) hanno affidato alla guardia costiera libica il coordinamento dei soccorsi in mare in una vasta area di acque internazionali davanti alle coste libiche. Ma la Libia a tutti gli effetti non è considerata un porto sicuro in cui far sbarcare le persone che sono state soccorse, quindi anche se è la guardia costiera libica che coordina i soccorsi in quel tratto di mare qualunque imbarcazione segua l’indicazione di riportare i migranti indietro compie una violazione dei trattati internazionali. È recentemente successo nel caso del cargo Lady Sham coinvolto in un soccorso a largo di Misurata il 21 gennaio.
In quell’occasione il ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli è stato smentito proprio dalla portavoce dell’Unhcr, Carlotta Sami, che su Twitter ha chiarito: “Non esiste alcun centro di raccolta gestito dall’Unhcr. Chi viene riportato in Libia va nei centri di detenzione cui abbiamo accesso limitato. Il ritorno di persone da acque internazionali verso la Libia è contro il diritto internazionale. Non c’è alcun porto sicuro in Libia a oggi”.
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