A sette anni dalla rivoluzione la Tunisia soffre ancora
Sette anni fa, il 17 dicembre 2010, il giovane Mohamed Bouazizi, venditore ambulante di verdure, si immolava con il fuoco per protestare contro il suo arresto arbitrario eseguito da una poliziotta di Sidi Bouzid, nel centro della Tunisia. Morì il 4 gennaio 2011. Sette anni fa, da Sidi Bouzid, partiva l’onda rivoluzionaria che avrebbe investito l’intero mondo arabo. Tutti i popoli arabi sotto regimi autocratici chiedevano le stesse cose: pane, dignità, libertà. Sette anni dopo, un appello di 250 tunisini condanna “l’offensiva antidemocratica” in corso in Tunisia.
Secondo i 250 firmatari – esponenti della società civile tunisina, stimati giornalisti, ricercatori, universitari e intellettuali – la Tunisia sta tornando all’ancien régime dell’autoritario Ben Ali. Non solo. Le reti affariste e mafiose che tenevano le redini del paese, protette dall’autoritarismo presidenziale sarebbero addirittura cresciute:
Sette anni dopo lo scoppio della rivoluzione, sono i gruppi affaristi e mafiosi che appaiono come i principali beneficiari della caduta dell’ancien régime.
I firmatari si riferiscono principalmente ai membri del partito Nida Tounes dell’attuale presidente Béji Caid Essebsi, eletto nel 2014. Essebsi, 91 anni, è il più vecchio presidente della repubblica al mondo, e tra i capi di stato è preceduto solo dalla regina Elisabetta d’Inghilterra. Un elemento notevole per una rivoluzione essenzialmente fatta dai giovani e in un paese dove il 78 per cento della popolazione ha meno di quarant’anni.
Essebsi era stato ministro di Bourguiba e anche ministro degli esteri di Ben Ali dal 1981 al 1986. Se oggi “oltre la metà dei ministri del governo proviene dal partito del Rassemblement constitutionnel démocratique” – l’ex partito di Ben Ali – scrive la petizione, il potere ha chiaramente reintegrato i vecchi gerarchi del partito totalitario.
È anche in causa la proposta legislativa del 13 dicembre: gli eletti di Nida Tounes e del Movimento della rinascita (Ennahda), il partito islamista di Rached Ghannuchi, hanno votato la legge detta di riconciliazione amministrativa che concretamente blocca i procedimenti giudiziari per corruzione contro i responsabili dell’epoca di Ben Ali.
Una situazione economica disastrosa
In un articolo per la rivista Esprit, intitolato “La tentazione dell’assolutismo”, la ricercatrice tunisina Khadija Mohsen-Finan, anche lei firmataria, osserva che le riforme di facciata nascondono il blocco totale delle riforme economiche: “La lotta contro la corruzione è bloccata, così come la transizione democratica, e i diritti politici sono minacciati. I rari progressi non possono mascherare il fatto che non c’è nessun avanzamento sociale ed economico”. Facendo un bilancio, nessuna delle principali rivendicazioni della rivoluzione è stata presa in esame, a cominciare dal profondo divario in Tunisia tra il centro e la periferia, la Tunisia dell’interno – dove sono di fatto cominciate le proteste nel 2011 – e quella del litorale, molto più sviluppata: “Le zone rurali continuano a soffrire una forte disuguaglianza rispetto alle aree urbane. Inoltre, gli abitanti delle periferie delle grandi città rimangono fortemente marginalizzati”, prosegue la petizione.
Costituzione
L’altro punto saliente di questo periodo postrivoluzionario è la questione democratica nei suoi aspetti formali. Al livello legislativo, la nuova Tunisia ha fatto passi da gigante, pensando ai confronti e ai dialoghi democratici che si sono svolti nel primo parlamento eletto liberamente dopo la rivoluzione. La costituzione com’è stata promulgata, principale vittoria della rivoluzione, è a sua volta in pericolo:
Le conquiste costituzionali sono ora minacciate da Béji Caid Essebsi e Rached Ghannuchi, suo alleato principale per gli attacchi che preparano contro la Tunisia e la sua democrazia nascente
Anche se i due partiti sembrano agli antipodi, secondo la petizione si stanno in realtà accordando per dividersi il paese.
Il 19 dicembre, tre giorni dopo la pubblicazione della petizione, la rivista Jeune Afrique ha pubblicato un’inchiesta sul “peso delle lobby” nel paese: “Sollecitati dai partiti, la maggior parte dei dirigenti d’azienda ha voluto sfruttare l’occasione sostenendo sistematicamente i più forti. Certi, come Elloumi e Hachicha, figure chiave della classe padronale tunisina, hanno partecipato al lancio di Nida Tunes”.
Su Middle East Eye, l’economista Max Gallien considera che il governo tunisino sia “bloccato tra un’agenda economica ossessionata dall’austerità e le rivendicazioni interne che chiedono giustizia sociale” e questo oscura il problema economico centrale del paese, la gestione dell’economia informale. L’economia informale genera, infatti, un terzo del prodotto interno lordo tunisino ma è anche il principale datore di lavoro della gioventù tunisina e riguarda circa il 60 per cento della popolazione attiva e l’83 per cento delle donne sotto i quarant’anni.
Il paradosso per la maggioranza della popolazione tunisina è dunque che, non essendo registrati alla camera di commercio, i lavoratori informali pagano molte “tasse informali” e in particolare tangenti, ma “rimangono esclusi dalla sicurezza sociale e dalle infrastrutture offerte ai lavoratori dipendenti con un contratto di lavoro”. Così,
gli abusi degli agenti dello stato e delle forze di sicurezza sono frequenti, e ciò rinforza il sentimento di oppressione, di umiliazione e di sentimento di fare parte di una categoria di cittadini di seconda classe, temi centrali nel 2011, e delle manifestazioni più recenti.
Intanto in Tunisia le immolazioni con il fuoco avvengono sempre più spesso, afferma Fatma Charfi, presidente dell’associazione di lotta contro il suicidio intervistata dalla tv France24: “All’inizio di dicembre una madre di cinque figli si è immolata dopo aver perso ogni sussidio”. Suicidio e rivolta erano stati i temi centrali nei primi giorni della rivoluzione, come ricorda il bellissimo fumetto pubblicato online dal sito indipendente Inkyfada in occasione dell’anniversario.