I disastrosi risultati elettorali del 4 marzo qualche effetto benefico l’hanno avuto. Ci hanno consegnato un principio di realtà. Una realtà angosciante e disperante, ma comunque preferibile a una bolla di misconoscenza.
I tre governi di centrosinistra appoggiati dal centrodestra – quelli di Enrico Letta, di Matteo Renzi e di Paolo Gentiloni – sono stati bocciati dalla maggioranza degli italiani: il Partito democratico (Pd) si riduce a una formazione che s’interroga (o almeno dovrebbe farlo) perfino sulla sua ragion d’essere, Forza Italia raccatta gli ultimi nostalgici, i partiti centristi di fatto spariscono e Liberi e uguali paga la partecipazione laterale alle decisioni di questo governo. Eppure, dicono coloro che hanno avuto la maggioranza finora, hanno fatto cose buone: crescita economica, posti di lavoro in più, diritti civili.
Chi non li ha votati evidentemente non la pensa allo stesso modo. Ed è forzato, se non stupido, sostenere che chi non li ha votati non li ha capiti, che ha votato con la pancia e non con la ragione, che è un ignorante e odia la scienza. Il 18,7 per cento dei voti dati al Pd (erano il 40,7 per cento alle elezioni europee del 2014) sono un’espressione di chiarezza: non ci siete piaciuti, è inutile che insistiate.
Gli errori di Renzi
C’è anche un elemento di antipatia personale verso Renzi in questa stangata: l’aver personalizzato il referendum sulla riforma costituzionale, essere stato sconfitto e non averlo riconosciuto, hanno accelerato il processo di disaffezione.
Ma c’è dell’altro. Molti suoi atteggiamenti rivelano la distorsione della realtà che ha contribuito a produrre il voto alle ultime politiche. Gli esempi sono tanti:
annunciare le dimissioni da segretario del Pd e affermare al tempo stesso di voler accompagnare – ancora! – questa fase; dopo una sconfitta inappellabile, vantarsi del suo successo nel collegio di Firenze; accusare gli elettori di aver votato candidati mediocri di altri partiti invece di apprezzare esponenti della classe dirigente del Pd, come Marco Minniti, arrivato terzo nell’uninominale a Pesaro.
E ancora, accennare alla “sconfitta netta” ma poi, senza nemmeno togliersi da sotto le macerie, proclamare: “Siamo orgogliosi del nostro passato, orgogliosi dei nostri risultati, ma anche desiderosi di dire ‘ragazzi il futuro tocca a noi, tornerà il futuro a sorriderci, e la possibilità per noi di dare un contributo più forte’”.
Tutto questo fa somigliare il renzismo alla cultura politica che diceva di rottamare: la riproduzione di un ceto dirigente incapace di autocritica. Sembra che Renzi abbia imparato dai vecchi ex comunisti solo che la guida del partito non si molla.
Le ambizioni di Liberi e uguali
Purtroppo un discorso speculare va fatto per Liberi e uguali (Leu). Non si sono resi conto che fondere tre formazioni politiche neonate (Movimento democratico e progressista, Possibile e Sinistra italiana), e scegliere come leader Pietro Grasso (un uomo proveniente dal Pd, abbastanza estraneo alla cultura della sinistra, che non ha praticamente mai fatto politica attiva), significava tagliare il ramo su cui ci si voleva sedere.
Il risultato di poco superiore al 3 per cento fa piazza pulita di due ambizioni politiche: l’idea strategica di fuoriusciti del Pd come Massimo D’Alema e Pier Lugi Bersani di ottenere un consenso tale da poter lanciare una specie di offerta pubblica di acquisto sul loro ex partito, e la speranza legittima di poter costruire una formazione di sinistra allargata che non fosse solo un cartello elettorale.
E invece, l’unione ha fatto la fossa: Leu è morta il 5 marzo, se non il 4 marzo pomeriggio. Auguriamoci solo che nessuno si accanisca a prolungare un’agonia.
Ci sono alternative a sinistra?
L’1,1 per cento di Potere al popolo (Pap) è un risultato dignitoso, ma non entusiasmante. Considerando che ha fatto una campagna elettorale con pochissimi soldi e quasi nessuna possibilità di farsi conoscere dagli elettori, Pap è l’unica formazione di sinistra ad aver raccolto un po’ di più di quello che ci si aspettava.
Ma cos’è oggi? È un buon punto di partenza per poter innescare quella partecipazione allargata di tutti coloro che avevano voglia di una proposta di sinistra chiara, che esprimesse anche nella scelta dei rappresentanti la cultura femminista, il desiderio di rivolta contro politiche che hanno reso più precaria e senza prospettive la vita dei più giovani, una nuova questione meridionale.
Del resto, senza ombra di dubbio, è il sud ad avere deciso l’esito di queste elezioni. Luigi Di Maio potrebbe essere il primo ministro meridionale dai tempi di Ciriaco De Mita. In tutta la storia repubblicana sono stati cinque su 28: Mario Scelba, Giovanni Leone, Emilio Colombo, Aldo Moro e De Mita appunto.
Alla luce del disastro, c’è un dato interessante che arriva dalla vittoria di Nicola Zingaretti
Alla luce del disastro, c’è un dato interessante che arriva dalla vittoria di Nicola Zingaretti alla regione Lazio. L’idea di un ponte tra il Partito democratico e la sinistra, di una forza in grado di raccoglie i delusi del Pd che probabilmente alle politiche hanno votato M5s, Pap o non hanno votato, rappresenta meglio le idee degli elettori. Zingaretti è in questo momento l’unico leader credibile del Partito democratico.
C’è un’ultima questione su cui ragionare, ed è quella della cultura politica. In questi dieci anni il disastro più grande a sinistra è stato quello culturale: il Pd, dopo essersi sbarazzato delle ideologie (quella socialista, quella comunista) non è riuscito a trovare una cultura politica di riferimento.
Oggi chi dice che l’antifascismo è in crisi, o si lamenta della vittoria dell’antipolitica, dovrebbe riascoltare il discorso fondativo del Pd, pronunciato da Walter Veltroni nel 2007 al Lingotto di Torino, o rileggersi il suo testo inaugurale, La nuova stagione. C’era già tutto, ovvero niente: dall’eredità dei partiti novecenteschi vista come una zavorra al mito della governabilità e della vocazione maggioritaria.
Al modello di Tony Blair oggi possiamo dare la corresponsabilità di aver gettato i semi della crisi della socialdemocrazia a cui assistiamo in Europa. Ma non possiamo non riconoscere che almeno era riuscito a sviluppare una cultura politica: la terza via non era solo uno slogan, tipo la rottamazione. E accanto a sé Blair aveva intellettuali come Anthony Giddens o Timothy Garton Ash.
Il Pd nemmeno quello. Non c’è un intellettuale, una rivista di riferimento, un libro, un’associazione, che sia stata importante nella costruzione della sua identità. Chi aveva sperato in un grande partito capace di elaborare strumenti per interpretare la contemporaneità per poi cambiarla, rimane inappellabilmente deluso.
La sconfitta più clamorosa per la sinistra è stata quella subita sul piano dell’egemonia culturale. Forse la prossima volta, invece di preparare le slide, si può dare un’occhiata ai Quaderni del carcere di Antonio Gramsci.
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