Francesco Vezzoli guarda la Rai degli anni settanta
Mentre alla Rai, tra le polemiche sui compensi dei presentatori, si confondono i confini tra artisti e giornalisti, la mostra di Francesco Vezzoli alla Fondazione Prada di Milano confonde (ulteriormente) quelli tra artisti e curatori. Se Bruno Vespa, in una lettera aperta all’azienda, si definisce contrattualmente un artista più che un giornalista, Francesco Vezzoli è più che mai curatore nell’ideare un percorso espositivo in cui, tra opere di diversi artisti, lacerti di video e altri reperti, si ricostruisce l’immaginario collettivo della sua generazione, quella cresciuta in quel decennio magmatico che furono gli anni settanta in Italia.
Ed è divertente anche che, in una specie di gioco di specchi, in una sezione della mostra l’artista-curatore Francesco Vezzoli faccia comparire anche l’artista-giornalista Bruno Vespa, nel suo primo avatar di icona del telegiornalismo democristiano durante gli anni di piombo.
Tv 70: Francesco Vezzoli guarda la Rai è la mostra più tecnicamente ambiziosa mai allestita nei grandi spazi (che sono ancora in espansione) della sede milanese della Fondazione Prada. Vezzoli ha costruito sei percorsi tematici diversi. Si comincia dalla galleria nord con un grande lavoro di Mario Schifano, Paesaggio tv (1970), una sorta di portale dipinto, ma fluorescente e sfarfallante come un video, nell’immaginario televisivo. L’opera di Schifano, che per altro era stata esposta anche alla mostra sugli anni settanta allestita alla Triennale di Milano dieci anni fa, è profetica: nel 1970 l’artista immaginava già una tv sempre accesa che eroga immagini e suoni a getto continuo.
Paesaggio tv è l’estetica di Mtv quattordici anni prima che Mtv esistesse e prefigura il passaggio della tv da elettrodomestico che si accende “quando fanno qualcosa” al suo essere paesaggio interiore e dimensione parallela dell’immaginario. Schifano ci introduce alla sezione della mostra in cui diverse opere di artisti italiani attivi negli anni settanta dialogano con quello che la tv diceva di loro. Renato Guttuso e Alberto Burri, Emilio Vedova e Giorgio de Chirico offrono un’idea di quanto fosse variegata la produzione artistica di quegli anni e di come il servizio pubblico, ancora cosciente della sua funzione pedagogica, si sforzasse di raccontarla.
Sembra di entrare nella cameretta di un bambino iperattivo che sparpaglia i suoi giocattoli ovunque
La galleria però è sovraffollata: quando partono, tutte insieme, le proiezioni video l’effetto è spiazzante. È sicuramente tutto voluto, perché il passaggio brusco dall’osservazione dell’opera d’arte statica al bombardamento audio e video è un cambio di registro su cui Vezzoli vuole farci riflettere. L’arte vera è lì: la tigre-Marzotto della Visita della sera (1980) di Guttuso e il Cellotex grande B (1975) di Burri occupano il loro spazio e sono indubbiamente lì, con la loro “aura” di unicità in bella mostra. Quando esplodono i video, però, la nostra attenzione diventa come una pallina impazzita dentro a un flipper.
Non aiuta l’allestimento-scenografia troppo invasivo dello studio M/M (Paris). Lo spazio ampio della galleria nord è reso talmente angusto da una grande quantità di cubi, spigoli e solidi più o meno colorati, che si deve fare quasi attenzione a dove si cammina. In certi momenti sembra di entrare nella cameretta di un bambino iperattivo che sparpaglia i suoi giocattoli ovunque.
La mostra prosegue al primo piano del podium e il registro cambia. M/M (Paris) e Vezzoli hanno creato un lungo corridoio buio, una galleria degli orrori da luna park, per raccontare gli anni di piombo. Nel buio spiccano strutture nere dalle linee vagamente déco (un po’ la Batcaverna delle serie tv di Batman degli anni sessanta) che ospitano dei piccoli monitor. In ogni schermo un telegiornale dell’epoca: piazza Fontana, la morte di Giangiacomo Feltrinelli, il rogo di Primavalle, il rapimento Sossi, piazza della Loggia, l’Italicus e poi Tobagi, Moro e Bachelet. Stragi, morti ammazzati per la strada, i segni bianchi di gessetto della polizia sull’asfalto: gli anni della lotta armata sono raccontati da un allestimento che ti impedisce di soffermarti sul singolo fatto ma ti avvolge come un rumore bianco mentre attraversi un tunnel che sembra non finire mai.
Un trauma virtuale
Francesco Vezzoli è nato nel 1971 e come tutti i bambini che crescevano in quegli anni aveva coscienza, una coscienza infantile ma non meno traumatica, di tutte quelle cose. I bambini convivevano con i telegiornali sempre accesi e anche senza conoscerne il significato, sentivano tutti i giorni termini come lotta armata o processo proletario. In molte case italiane si usavano quei termini anche in famiglia, quando i grandi “parlavano di politica”, cosa che avveniva molto più spesso di quanto accada oggi. I telegiornali e i giornaliradio mandavano in onda i comunicati delle Brigate Rosse: da piccoli sentivamo le loro voci a colazione. Vezzoli è riuscito a ricostruire in modo efficace un trauma che per la maggior parte di noi è stato virtuale perché succedeva nell’altrove della tv, ma che indubbiamente ci ha segnati.
Quando si esce dal tunnel degli anni di piombo si è abbagliati dalla luce naturale e ci si rende conto, dopo un po’ di smarrimento, che c’è un altro monitor da guardare. È un piccolo video in bianco e nero intitolato Le mani (1973) di Ketty La Rocca. È un montaggio ipnotico di mani che si toccano, che si accarezzano, di dita che si intrecciano. Uscendo dalla galleria del terrorismo, Vezzoli ci ricorda che comunque c’era una Rai in quegli anni che produceva anche cose come questa: una piccola, raffinata opera di videoarte andata in onda su Programma nazionale nel giugno del 1973.
Uno dei nodi di Tv 70 è quello di raccontare una Rai in bilico tra servizio pubblico, e quindi ancora fatta in parte da intellettuali, artisti e maestri, e competizione con le tv commerciali che dalla seconda metà degli anni settanta cominciavano a rafforzarsi. Vezzoli, nei momenti più riusciti di questa mostra, è capace di fotografare la Rai in un momento di passaggio, subito prima della cosiddetta lottizzazione, in cui riusciva a essere in perfetto ma precario equilibrio tra alto e basso, tra informazione e intrattenimento, tra Democrazia Cristiana e spinte rivoluzionarie ed eversive.
Al livello inferiore del podium,Tv 70 esplora un altro tema della Rai degli anni settanta: le donne e in particolare le femministe che, con trasmissioni come Si dice donna (1977-1981) e il fondamentale Processo per stupro (1979), hanno fatto sentire la loro voce attraverso il servizio pubblico. Gli spezzoni video, selezionati da Cristiana Perrella, vengono proiettati su un sipario teatrale che delimita un’immensa sala ricoperta di moquette rossa che ricorda un po’ il foyer di un vecchio cinema o la loggia nera di Twin Peaks. È commovente sentire una ragazza intervistata all’indomani del referendum sull’aborto dire: “Sì è una vittoria, ma dobbiamo avere ben chiaro che la vera lotta comincia ora: ed è quella contro l’obiezione di coscienza”. Era il 1978.
È notevole la quantità di donne diverse a cui la Rai dava voce in quelle trasmissioni: c’erano le femministe, le gruppettare, le lesbiche, le separatiste, ma anche le operaie, le casalinghe, le studenti, ciascuna con la sua opinione, con la sua storia e con il suo vissuto. È una diversità a cui non siamo più abituati e soprattutto non siamo più abituati a sentire donne che parlano di sé e del proprio mondo in tv senza il filtro di un reality, di un talent o di una messa in scena di un qualche tipo.
In tv le donne hanno cambiato l’immaginario non solo erotico ma anche sociopolitico del grande pubblico italiano
Nel grande salone rosso, nella cui moquette spessa e decisamente anni settanta i piedi affondano un po’, sono in mostra anche diverse opere di Carla Accardi. Mentre le donne nelle proiezioni video, giovani o vecchie, colte o poco scolarizzate, esprimono le loro idee, le pitture astratte di Accardi su sicofoil fanno esattamente lo stesso. Accardi aveva fondato, insieme a Carla Lonzi ed Elvira Banotti, il collettivo di Rivolta femminile, uno spazio fondamentale di elaborazione e di maturazione del movimento femminista. L’astrattismo segnico di Accardi di quel periodo, a cominciare dalla ricerca di un supporto evanescente e trasparente come il sicofoil, era proprio il tentativo di elaborare un linguaggio nuovo, di creare quasi un alfabeto da zero per raccontare un’individualità femminile da secoli repressa e oggi riscoperta.
Le donne sono protagoniste anche nella galleria nord, dedicata al varietà e allo spettacolo. Sono le dive di Milleluci (Mina, Raffaella Carrà e le sorelle Kessler), le icone alternative di Stryx (Patty Pravo, Amanda Lear e Grace Jones) e le pornodive pop (la Cicciolina Cenerentola di C’era due volte). Erano donne che, ciascuna a suo modo, hanno cambiato dall’interno l’immaginario non solo erotico ma anche sociopolitico del grande pubblico italiano. In una tv di stato ancora marcatamente democristiana era possibile vedere Mina, Carrà e le Kessler ironizzare sulla loro stessa oggettificazione da parte del pubblico maschile.
Ognuna di loro rappresenta una fantasia diversa e una parte del corpo: Mina le mani, gli occhi e la bocca, Raffaella Carrà l’ombelico che mai si era visto prima in tv e le Kessler le gambe, lunghissime, che nell’immaginario maschile italiano erano ancora appannaggio delle più atletiche e liberate donne del nordeuropa. Quel frammento di Milleluci è un trattato sul feticismo mascherato da intrattenimento per famiglie. Nel servizio di stato, ma in seconda serata, era possibile anche vedere una Amanda Lear aguzzina fantasy, una Grace Jones praticamente nuda sotto la doccia che canta Anema e core e una Patty Pravo postumana e intersessuale.
A corredo delle proiezioni video sono in mostra una serie di opere che parlano di punti di vista diversi sulla sessualità e sul genere. Ci sono le straordinarie fotografie di travestiti di Lisetta Carmi (1965-1971) o il calco in resina di un monte di Venere, Mount of Venus and beyond (1971) di Suzanne Santoro.
Questo trionfo del camp e dell’identità sessuale glamour e mutante è la parte più Vezzoli di tutta la mostra. Eppure si nota la salda sospensione di qualunque tipo di ironia o di presa di distanza camp dell’artista-curatore dai reperti che mette in mostra. Vezzoli non si mette su un piedistallo a indicarci i vari livelli di lettura della favola di Cenerentola inscenata da Cicciolina, ma è immerso con genuina adesione, quasi con innocenza, in quella materia visiva.
Tv 70 si conclude nella sala cinema della fondazione con un blob dei temi della mostra montato dallo stesso Vezzoli e con l’installazione Applausi (1968) di Gianni Pettena, una chiusura di sipario sull’intera operazione che, ironicamente stavolta, invita il pubblico all’applauso a comando.
Tv 70: Francesco Vezzoli guarda la Rai è una mostra ipertrofica, ipercinetica e sovraffollata che non sempre riesce a mettere a fuoco i tanti temi che vorrebbe trattare. Ci riesce molto meglio il catalogo-libro edito dalla fondazione che, con un ricchissimo apparato di saggi e di interviste (memorabile quella di Hans Ulrich Obrist a Giosetta Fioroni), permette con calma di ricostruire e ripercorrere alcuni degli snodi più importanti di questa storia.