Tanti film e nomi di richiamo per la settantesima edizione del festival, proprio come fu, dieci anni fa, per la sessantesima. Ma soprattutto, almeno sulla carta, una miscellanea riuscita, come l’anno scorso dopo, di nomi forti e di nomi magari meno noti da noi ma ormai significativi del cinema d’autore contemporaneo. Haneke, Ozon o Sofia Coppola e firme significative del cinema d’autore d’estremo oriente come Hong Sang-soo, Naomi Kawase (di cui in Italia abbiamo visto solo Le ricette della signora Toku). Oppure ancora il ritorno di un mostro sacro della nouvelle vague come Jacques Doillon, il sudcoreano Bong Joon-ho, che è in concorso con una delle due produzioni “maledette”, cioè quelle di Netflix.

Sempre in concorso troviamo autori affermati delle nuove tendenze, come il greco Yorgos Lanthimos (autore di The lobster) e i geniali fratelli Safdie (anche molto simpatici e buffi, diciamolo), che escono da festival innovativi come Locarno e segnano la rinascita di un vero cinema indipendente statunitense dopo la formattazione dei decenni scorsi. Infine degli ufo che fanno sperare o preoccupare molti a seconda dei casi: Le redoutable di Michel Hazanavicius, biografia alla vigilia di Jean-Luc Godard.

Il discorso generale è valido anche per Un certain regard, dopo le ultime fiacche edizioni, che accosta registi argentini dell’ultima generazione come Santiago Mitre (qualcuno ricorderà forse El estudiante presentato al festival di Internazionale a Ferrara), grossi nomi come Laurent Cantet (protagonista di una curiosa retrocessione dopo la Palma d’oro del 2007 con La classe) il notevole Kiyoshi Kurosawa o il nostro Sergio Castellitto, venuto a presentare il suo sesto lungometraggio. E poi ancora la Quinzaine, con il nuovo film di Philippe Garrel, o la settimana della Critica che, guidata dell’ex direttore dei Cahiers du cinéma, Charles Tesson, sembra aver ricevuto un nuovo forte impulso, che si è aperta con il secondo film della coppia Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, Sicilian ghost story.

Entriamo in sala
E veniamo ai primi due film del Concorso e al film d’apertura (Fuori Concorso). Quest’ultimo, Les fantômes d’Ismaël del francese Arnaud Desplechin con Mathieu Amalric, Marion Cotillard, Louis Garrel e Charlotte Gainsbourg, è piuttosto bello nella prima parte sentimentale, a tratti molto, malgrado l’accumulo di citazioni a volte stucchevole dal museo della nouvelle vague, mentre nella seconda parte scivola in una storia fatua e un po’ imbarazzante di terroristi afgani, indigesta, mal calibrata, poco credibile e non particolarmente interessante nella costruzione dei personaggi. Ben più interessante Nelyubov, quinto titolo del russo Andrey Zvyagintsev (Leone d’oro a Venezia nel 2003 con Il ritorno) interessante dramma familiare nella Russia di oggi, anche se forse un po’ troppo programmatico nella sua costruzione.

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Vale la pena di soffermarsi sul nuovo lungometraggio di Todd Haynes, Wonderstruck, tratto da un romanzo dello statunitense Brian Selznick (l’autore di Hugo Cabret). Anche qui si parla delle origini del cinema come illusione della meraviglia artigianale e non industriale. In Hugo Cabret era il cinematografo come gioco di prestigio moderno da baraccone alla George Meliès, qui i Diorama e i modellini in miniatura. Anche il film di Haynes soffre di uno squilibrio tra prima e seconda parte. Narra le storie parallele di due bambini alla ricerca della loro infanzia rubata (altro tema che ha segnato la storia del cinema, in particolare francese, da Jean Vigo ai Quattrocento colpi di Truffaut): una femmina e un maschio, una alla fine dell’era del muto, l’altro negli anni settanta della psichedelia e del funky, una in bianco e nero, l’altro a colori.

Troppa meccanicità e, anche qui, troppa intenzione programmatica che sembra togliere ispirazione e trasmissione della magia, dell’incanto. Ma non è soltanto questo di cui soffre il film. Il tempo fermato, se non congelato caratterizza il (meta)cinema dell’autore di Lontano dal paradiso e Carol, che qui però non riesce a trasmettere pathos. Haynes, che è impregnato di anni cinquanta, sessanta e soprattutto settanta, che trasfigura e insieme rievoca con grande sensibilità, non è così a suo agio con l’estetica del cinema muto, che resta fredda, accademica. Il punto è che per “dare a vedere” il silenzio del muto (i due bambini sono affetti da sordità) ci sarebbe voluto un poeta, maestro della stilizzazione e magari delle immagini fantasma che il muto celava, penso a uno come Philippe Garrel. E perciò la prima parte, quasi senza parlato, zoppica. Ma Haynes sembra aver realizzato il film sostanzialmente per la seconda parte, ambientata negli anni settanta: intensa e sorprendente, con il momento più alto nel finale nel museo di storia naturale. Todd Haynes qui incanta e meraviglia, torna bambino e ci fa tornare bambini, con una sequenza memorabile di messa in scena che crediamo resterà nella storia del cinema. Alla fine anche solo questa scena rende imperdibile quest’opera sui fili invisibili che si congiungono seguendo percorsi altrettanto invisibili di predestinazione.

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