A qualche giorno dalla fine della Mostra del cinema vale la pena di approfondire alcune riflessioni sul futuro del festival. Perché, malgrado il lavoro di Barbera e Baratta sia tutt’altro che privo di meriti, abbiamo notato qualcosa che assomiglia a una sorta di schizofrenia crescente. Cominciamo dalla selezione dei titoli, in primo luogo dal cinema italiano.

Lasciano perplessi i titoli selezionati per il concorso, almeno volendo considerare quello di Venezia un festival del cinema d’autore, il più antico di tutti, che tra l’altro si chiama Mostra internazionale d’arte cinematografica. Molto più interessanti e meno legati all’intrattenimento i film italiani visti a Cannes, come Sicilian Ghost Story di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, Cuori puri dell’esordiente Roberto De Paolis oppure lo straordinario A Ciambra di Jonas Carpignano che proprio grazie alla presentazione a Cannes ha trovato un distributore italiano (Accademy Two).

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Autori realmente nuovi il nostro cinema sta cominciando a sfornarli, da Pietro Marcello a Michelangelo Frammartino. I film presentati invece a Venezia, sono mediocri, a parte Hannah di Andrea Pallaoro e soprattutto Nico di Susanna Nicchiarelli. Non c’è nulla di male nel rileggere la commedia statunitense, fa parte della nostra tradizione cinematografica, ma l’impressione è che The leisure seeker di Paolo Virzì sia un’occasione mancata, intanto perché il regista toscano è capace di fare meglio. E poi il film non ha ritmo, la regia è davvero media, la fotografia solo a momenti sembra fare la differenza, come nella bellissima inquadratura finale, realmente empatica.

In Una famiglia Stefano Risso adotta movimenti di macchina interessanti che potrebbero sorreggere e forse svelare una narrazione più fine, di qualità. Ma fin quando ci saranno sceneggiature di maniera e addirittura scolastiche, come in questo caso, allora il confronto con il cinema d’autore degli altri paesi resterà impietoso.

Ammore e malavita, il film dei Manetti Bros, si lascia vedere, anche se la prima parte non è poi molto coinvolgente. È più interessante l’idea di base – un film popolare che ci parla della follia camorristica con modalità un po’ musical e un po’ film d’azione, giocando insomma sulla contaminazione – piuttosto che il risultato finale, dove il pop scivola subito nel trash, nel tarantinismo mal digerito. Forse si voleva fare proprio del pop-trash. Ma anche così non regge più di tanto il confronto con equivalenti di questo tipo, presenti soprattutto nel cinema popolare asiatico.

Più o meno la stessa cosa si potrebbe dire di Brutti e cattivi di Cosimo Gomes (presentato in Orizzonti), che vorrebbe essere un nuovo Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, esempio piuttosto riuscito di cinema d’autore per tutti, ma con esiti sostanzialmente infelici.

Dialoghi a distanza
Quindi i nuovi registi che fanno cinema d’autore li aiuta Cannes e non la Mostra d’arte cinematografica espressione della Biennale d’arte di Venezia. Perché? Perché per decenni i Leoni d’oro alla carriera sono andati ai registi e ora quasi solo ad attori? Perché tanti presidenti di giuria statunitensi nelle ultime edizioni? A che serve aver portato tanto cinema statunitense o britannico, superando in questo abilmente Cannes, se non come cavallo di Troia per supportare anche gli esempi più innovativi di cinema d’autore? È un’inversione di tendenza definitiva? Ci auguriamo invece che sia un incidente di percorso.

Anche la sezione Orizzonti è una sorta di selezione parallela a quella del Concorso (con tanto di premio al miglior attore e alla miglior attrice). Per fortuna la Settimana della critica ha presentato alcuni titoli davvero interessanti come il turco The Gulf, il tedesco Drift, il francese Sarah joue un loup garou. Questo, però, certo non basta.

La costruzione del programma del concorso è stata attenta. Questo è un merito, forse poco notato, dell’équipe diretta da Barbera. Per esempio, solo nei primi due giorni sono stati tanti i film che hanno in qualche modo dialogato tra loro. Downsizing, il film d’apertura di Alexander Payne – troppo lungo ma con alla base l’idea geniale delle persone miniaturizzate per sopperire alla questione dell’esaurimento delle risorse del pianeta – ha espresso un senso di impotenza di fronte all’apocalisse che favorisce una pericolosa religiosità da setta. In questo si collegava perfettamente al secondo film del concorso, First reformed di Paul Schrader, dove un prete in buona fede si confronta con le medesime questioni: religioni che diventano sette (qui affaristiche) e sentimenti di apocalisse inesorabile, come se il cambiamento climatico fosse lasciato avanzare volontariamente dai poteri forti.

La Mostra si può anche chiudere in una nuova, triste e incomprensibile autarchia. Ma gli altri festival e la critica internazionale vanno avanti.

Dialogo ripreso in qualche modo dallo stupefacente documentario di William Friedkin, dove il regista dell’Esorcista riprende da solo con camera a mano un esorcismo reale e poi intervista importanti neurologi. E ancora, nei giorni successivi, Three Billboards outside Ebbing, Missouri, dove si parla di violenze sessuali e razziali, discorso ripreso dal documentario presentato in Orizzonti The Rape of Recy Taylor. Oppure Mother! di Darren Aronofsky, dove si concentrano la questione del cambiamento climatico, del terrorismo, dei rifugiati e dell’immigrazione incontrollata, della conseguente politica della sicurezza. Insomma molti film si rispondevano, si contraddicevano, si completavano tra loro. Una selezione e la sua articolazione nella programmazione, al di là del giudizio sui singoli film, degna della gravità del momento, senza precedenti. Ma questo ottimo lavoro non ha avuto alcun riflesso nelle scelte della giuria presieduta da Annette Bening.

L’idea di Barbera e Baratta di dedicare una nuova sezione ai film in realtà virtuale è un altro colpo di genio. Anche perché crea un nesso diretto con la Biennale d’arte. Ma come bisogna interpretarla se non è messa in relazione con le tendenze più avanzate del cinema d’autore internazionale? La selezione della Mostra si può anche chiudere in un nuovo, triste e incomprensibile provincialismo autarchico, ma poi gli altri festival e la critica internazionale vanno avanti.

Infine, non c’è futuro senza memoria. Quanta avanguardia è presente nei 48 minuti di Daïnah la métisse di Jean Grémillon, rarità del 1932, presentato a Venezia restaurato. Della sezione Venezia classici, giunta alla sua sesta edizione, Barbera e il curatore Stefano Francia di Celle possono andare fieri. Peccato che, finita la Mostra, sia piuttosto difficile vedere quei classici in sala.

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