Todos lo saben apre Cannes ma gira a vuoto
Uno sguardo anche veloce su questa 71a edizione del festival del cinema di Cannes promette bene, dal Concorso alle proiezioni parallele. Peccato che sia deludente il film d’apertura, in concorso, Todos los saben, nuovo lungometraggio dell’iraniano Asghar Farhadi ambientato però nella Spagna di oggi e con protagonisti attori come Penelope Cruz e Javier Bardem. Quindi una coproduzione internazionale a effetto, con un regista ormai acclamato e due attori di richiamo.
Purtroppo l’ottavo lungometraggio di Farhadi sembra aver messo a dura prova anche chi più ama i suoi film, come l’indimenticabile Una separazione (primo film iraniano a vincere l’Orso d’oro a Berlino, nel 2011, e vincitore dell’Oscar come miglior film straniero nel 2012 ).
In più di due ore di proiezione, hanno largamente dominato una sensazione di noia e anche a tratti una certa irritazione per la rappresentazione di un ritratto familiare composito e polifonico: tanti personaggi, tanti caratteri e tante microsituazioni che gradualmente s’intersecano, si sovrappongono. Ma la lunga prima parte di fatto gira a vuoto. Il continuo andirivieni di personaggi e poi la lunga festa, nelle intenzioni vorrebbero mettere in scena la vivacità simpaticamente chiassosa di tipologie umane mediterranee, ma la coralità di una famiglia presa nel movimento della vita è senza intensità, paradossalmente fredda, superficiale.
È difficile dare densità e carattere ai personaggi nella leggerezza. E per questo la prima parte non riesce a essere efficace contrappunto alla seconda, più drammatica e in teoria più introspettiva, dedicata all’emersione dei segreti domestici. Senza voler rivelare troppo, il fulcro è il rapimento della figlia adolescente, un evento che progressivamente destruttura la famiglia e svela le nature umane.
Il pericolo didascalisco
Gli altri film di Farhadi già denotavano una certa inclinazione a essere didascalici e illustrativi, così come ad aderire a una certa tendenza del cinema contemporaneo che fa troppo sentire il dispositivo cinematografico invece di lasciarlo invisibile e leggero (se fatto bene può essere anche molto bello, ma se fatto male può essere molto pesante). Tuttavia non gli mancavano momenti di genio narrativo, un’intensità e profondità reali nel costruire personaggi, situazioni e, attraverso di loro, il ritratto di una società e dei suoi problemi. Qui, spiace moltissimo dirlo, ci si avvicina all’autocaricatura – quasi a una sorta di telenovela.
Certamente non si può ignorare la difficile situazione in cui operano i registi contemporanei. E spiace constatare che probabilmente Farhadi deve cercare di girare all’estero accettando produzioni più commerciali per poi avere i soldi che gli permettano di realizzare i film che lo interessano davvero.
Già un maestro come Abbas Kiarostami negli ultimi anni era dovuto andare in trasferta all’estero per realizzare nuovi film. Il cinema d’autore iraniano, dalla produzione vasta e coraggiosa, attraversa non poche difficoltà di censura nella libertà d’espressione, come nel caso di Jafar Panahi, presente anche lui in concorso con il film Se Rokh.
Panahi non può spostarsi liberamente, e anche se la sua condanna è stata ridotta, resta comunque pesante. Speriamo che Se Rokh arrivi in sala come era accaduto, con discreto successo, al precedente Taxi Teheran, esempio di cinema sociologico e insieme leggero, ironico, in cui un regista che si improvvisa attore-autista di taxi invece di comunicare la tragicità indubbia della sua condizione trasmette al pubblico una sorta di allegro amore per la vita.
Come ha messo in rilievo il quotidiano Libération con un ampio dossier d’apertura, non sono pochi in questo festival i film di registi che sfidano la censura, come, per esempio, il russo Kirill Serebrennikov (in concorso con Leto), che non potrà essere presente perché è stato arrestato con motivazioni dubbie, o la kenyana Wanuri Kahiu, molto attesa con il suo secondo lungometragio Rafiki (Un certain regard), primo film del Kenya a essere selezionato a Cannes, incentrato su un amore lesbico e sostenuto dalle associazioni lgbt kenyane.
Fucina di scoperte
La Quinzaine des réalisateurs, nata dopo il 1968 come contraltare alla selezione ufficiale e vera fucina di scoperte (Ken Loach, Pedro Almodóvar, Claire Denis, Xavier Dolan e tantissimi altri), apre con un film intrigante, Pãjaros de verano (Birds of passage, il titolo internazionale), del colombiano Ciro Guerra, una delle rivelazioni della Quinzaine degli ultimi tempi con El abrazo de la serpiente (che aveva come protagonista uno sciamano), questa volta in coppia con la sua produttrice, Cristina Gallego.
In attesa di vedere i film dell’agguerrita sezione Acid, indipendente e ultra-alternativa, si resta nella Quinzaine con un film d’animazione giapponese, Mirai, di Mamoru Hosoda, Amin di Philippe Faucon, incentrato su un lavoratore senegalese in terra di Francia, gli italiani Troppa grazia di Gianni Zanasi (film di chiusura) e Samouni road di Stefano Savona, autore di molti documentari alla prima fiction, un film d’animazione con i disegni del celebre illustratore Simone Massi, una storia della memoria ambientata nella periferia di Gaza.
Un Certain regard, oltre al già citato film kenyano, presenta tra le altre cose il giovane regista cinese Bi Gan con Long day’s journey into night, una delle rivelazioni del festival di Locarno nel 2015 con Kaili blues.
Molti più del solito sono anche i film realizzati da registe, tanti i film d’esordio che concorrono alla Caméra d’Or, un premio (con una sua giuria) assegnato al miglior film scelto trasversalmente tra tutte le sezioni del festival. Soprattutto emerge, è giusto notarlo, la volontà del festival di mettere in primo piano nomi nuovi, in particolare nel concorso.