Da un lato c’è la poesia eterea di un segno grafico sottile e filiforme, che basta un nulla perché si spezzi al vento, per poi fluttuare nell’aria. Dall’altro, un tratto fuligginoso e vorticoso che ci trascina in un buco nero, anzi nel nero tout-court. Un’antitesi che ammalia. Una dialettica che è alla base di due opere chiave di Lorenzo Mattotti, appena ripubblicate, che permettono di cogliere al meglio il percorso artistico di un maestro dell’illustrazione e del fumetto, il mezzo d’espressione da cui ha cominciato la sua carriera e che ha rivoluzionato.
A distanza di anni L’uomo alla finestra (1992) e Stigmate (1999), da tempo non più rintracciabili nelle librerie italiane, si rivelano due libri ancora più forti di quando uscirono la prima volta. L’uomo alla finestra – pubblicato per Feltrinelli grazie a Goffredo Fofi, che scrisse anche la presentazione – è su testi della giornalista e traduttrice Lilia Ambrosi; Stigmate su testi dello scrittore Claudio Piersanti.
Sono più forti perché colgono con una precisione quasi chirurgica due stati del mondo di oggi che sembrano quasi giunti a un punto di non ritorno. Quello del senso di solitudine e alienazione, anche se non del tutto privo di speranza, di chi vive dominato dalle architetture delle grandi metropoli e il conseguente bisogno di amore che sfocia purtroppo nell’incomunicabilità. E quello della solitudine più dura vissuta da chi è marginale, reietto, come il senza dimora o l’immigrato che oggi più che mai viene allontanato se non picchiato, conseguenza del crescente imbarbarimento delle nostre società abbandonate a se stesse e svuotate dei valori di civiltà, tolleranza, comprensione e comune progresso tra esseri umani.
Due stati del mondo che a ben vedere in Mattotti sono sempre il riflesso di stati dell’anima, o del mondo interiore se si preferisce, qui in simbiosi con i suoi due coautori. Con grande forza poetica e originalità, sono due opere che esprimono prima di tutto un amore profondo verso gli esseri più fragili e, per estensione, verso ogni essere umano. Perché ci ricordano che in fondo siamo tutti fragili, come diceva il titolo di una celebre canzone di Sting.
Esplorazione del colore
Lorenzo Mattotti lavora da sempre sulla dialettica tra opposizioni formali dandogli una forte dimensione simbolica. Normalmente è con il colore che lavora su questi incontri/scontri. Le edizioni Logos – che stanno rieditando tutta la sua vasta produzione a fumetti, in volumi dall’elegante veste grafica, arricchiti da disegni preparatori, bozzetti, prefazioni e postfazioni – ripropongono in contemporanea questi due titoli, tra i meno conosciuti dell’autore e tra i pochi in bianco e nero, quantomeno tra quelli della parte più matura della sua carriera, che comincia indubbiamente con Il signor Spartaco (pubblicato nel 1982 dalla rivista di fumetti Alterlinus e successivamente in volume).
In quest’opera Mattotti dà il via alla sua esplorazione del colore, che si configura presto come una sorta di apoteosi, ma sempre pensata nel profondo e strutturata con il massimo rigore. Se nella storia del fumetto praticamente tutti i suoi maestri sono stati maestri del segno grafico, come osservava il critico e semiologo Daniele Barbieri – forse il critico di fumetti che da sempre segue con più attenzione il lavoro di Mattotti –, con Mattotti il colore diventa esso stesso segno.
Nella sua opera il colore delinea le forme di tutte le cose, la dimensione volumetrica dei personaggi, degli alberi, delle nuvole, di ogni elemento rappresentato, diversamente da altri esperimenti pittorici effettuati in quegli anni nel fumetto, pur validi, ma dove in genere l’inchiostro di china delineava i contorni delle figure e diversi dettagli importanti come le espressioni del volto. Sulla spinta delle sperimentazioni realizzate per Alterlinus dal suo maestro Renato Calligaro, Mattotti sistematizza questo approccio e opera nel fumetto una rivoluzione pittorica radicale che avrà una forte influenza su innumerevoli autori nei decenni a venire. È già molto, ma in realtà è molto più di questo.
È con un’opera spartiacque come Fuochi (1984, sempre su Alterlinus) che Mattotti fonderà in un organismo unico e dalla notevole potenza onirica l’ottocento e il novecento grafico-pittorico, conducendo una riflessione unica sulla contemporaneità, dove l’incorporeo diventa corporeo, i luoghi della mente diventano luoghi fisici. L’isola di Sant’Agata tra i cui fiordi Fuochi comincia è proprio questo: “Quando la corazzata Anselmo II entrò nella baia, il mare era calmo e il verde già scuro”. Se la corazzata e i suoi marinai sono rappresentati con un’estetica che ricorda il costruttivismo sovietico, i misteriosi fuochi dell’isola rimandano invece al primitivismo più moderno.
A scontrarsi sono le estetiche pittoriche della modernità e, sul piano filosofico, razionalismo e irrazionalismo. In fondo si tratta della stessa cosa, perché le correnti pittoriche che hanno dominato tra la seconda metà dell’ottocento e gran parte del novecento sono il riflesso di questo scontro, il riflesso di un radicale sconvolgimento delle forme, basti pensare a Pablo Picasso. È come se questo scontro delle forme fosse stato colto da Mattotti nel suo momento primordiale, per poi essere modellato e solidificato in un nuovo organismo unitario, denso e leggero, fisico ed ectoplasmico. Ectoplasmico perché l’estetica del segno pittorico di Mattotti è avvicinabile alle entità fantomatiche, per definizione liquide e dense a seconda dei momenti, che dominano le narrazioni del fantastico.
I suoi stessi personaggi sono esempi di questa dialettica pittorica e filosofica. Citando La tempesta di Shakespeare, “sono fatti della stessa sostanza” della pittura che si è sviluppata tra la seconda metà dell’ottocento e il novecento, il liquido amniotico che li ha forgiati. Per esempio in Fuochi le rievocazioni vanno da Félix Vallotton a Edward Hopper, passando per Joan Mirò – e senza dimenticare Pierre Bonnard – ne fanno parte i “paesaggi di Monet e Cézanne, il simbolismo dei colori di Van Gogh, l’espressionismo tedesco, l’immaginario onirico del surrealismo e anche la pittura astratta di Kandinsky e Mark Rothko”, come ha scritto Eleonora Brandigi in L’archeologia del graphic novel.
Come sia riuscito a fondere tutto questo in modo unitario e insieme intenso, senza cadere nella paccottiglia della facile referenzialità, è quasi un mistero. Personaggi, ambienti e paesaggi sono l’emanazione di questo insieme. Perfetti, dunque, per delle narrazioni visive fatte di evocazioni emozionali come quelle di Mattotti, e tanto più veri per una storia profondamente sciamanica come Fuochi, realizzata dall’autore ascoltando sonorità primordiali o il rock dalle contaminazioni etniche di Peter Gabriel.
Una storia intrisa di figure seduttrici e inquietanti al pari di quelle del Kubrick di Shining o del Tarkovskij di Stalker, un regista e un film molto amati dall’autore. “Ti scrivo dall’estremità del mondo. Non ti mando parole, ma segni”, scrive a qualcuno o dice a se stesso il tenente Assenzio, gradualmente posseduto dai fuochi dell’isola, da forze ancestrali o essenze del mondo onirico. Assenzio vive dentro di sé gli scontri e sconvolgimenti, formali e filosofici, del novecento. Ne è il sismografo. Naturalmente è anche la registrazione, l’esplorazione di un viaggio interiore, del coraggio di vivere in maniera radicale i sentimenti, le sensazioni. Come scrive Daniele Barbieri nella prefazione a una recente riedizione di Fuochi:
Siamo destinati ad ascoltarci dentro, prima o poi, nella nostra vita, perché è ciò che da sempre vorremmo poter fare. Ma non è detto che, una volta arrivati a questa meta, ne potremo tornare indietro.
Perché mai luce fu così folgorante e mai fu così oscura come questi fuochi. In questo denso magma di colori, Mattotti opera un lavoro altrettanto importante sui testi: dialoghi interiori profondi e allo stesso tempo minimali, dalla ritmica precisa, in perfetta assonanza con i ritmi visivi che suscitano “sensazioni cromatiche”, perché non esiste in Fuochi, come sottolinea sempre Barbieri, “una parola soggettiva contrapposta a un’oggettiva visione: nello sguardo come nelle parole soggettività e oggettività si alternano e si giustappongono, ed è la soggettività a dominare”.
Sia nelle opere a colori sia in quelle in bianco e nero, Mattotti ha creato nel tempo anche dei leitmotiv grafici che equivalgono a leitmotiv poetici, o per meglio dire a “segni” grafici di poesia. Il segno, il tratto, inteso come pura poesia. Questi motivi grafici ricorrenti trovano un loro equivalente in quelli di Hugo Pratt con i suoi gabbiani magistrali e inconfondibili. Fondamentalmente impressionistici, ma con quel tanto di realismo da essere credibili all’interno di un registro narrativo realistico. Quest’equilibrio perfetto nasconde in realtà l’astrazione poetica. La stessa cosa vale per le farfalle di Pratt, anche se meno frequenti dei gabbiani, veri e propri filamenti delicati, svolazzanti nell’etere. Non è strano se si pensa che per Pratt il mezzo d’espressione supremo fosse la poesia, come ha ricordato di recente lo storico Michel Pierre, curatore dell’esposizione sul creatore di Corto Maltese al museo antropologico di Lione. Con Mattotti, diventano leitmotiv i personaggi stessi, dei quasi burattini bidimensionali che corrono dietro alle nuvole o ne sono inseguiti.
Le stesse nuvole sono un leitmotiv fondamentale. Non è casuale. Perché Mattotti ha portato nel fumetto l’idea di romanzare elementi della vita minimali, ma in realtà fondamentali, appartenenti all’interiorità, “cose che con il fumetto sono difficili da raccontare, cose che forse appartengono ad altri territori espressivi. Ad esempio la contemplazione… il cambiamento delle nuvole, l’aria, il colore”, per usare le sue stesse parole.
Nel bianco e nero etereo di L’uomo alla finestra questi personaggi-burattini, dall’espressione sempre spaurita, diventano esili, filiformi, come fuscelli perennemente storditi dal vento. Sono linee fragili, per citare il titolo di un libro di disegni a penna di Mattotti, che sancì l’inizio di questa sua ricerca sul tratto delicato, fragile ed etereo.
Anche le parole diventano leitmotiv poetici. Come nel caso di L’uomo alla finestra: la scrittura testuale e il disegno-scrittura sono una cosa sola. I segni di Mattotti e i testi di Ambrosi, entrambi delicatissimi e impressionistici, sono in simbiosi. Il protagonista del graphic novel nel viaggio inquieto dentro di sé cerca di cogliere i piccoli grandi segni di poesia e di quiete, di calma, del mondo esteriore. Cerca di cogliere, di afferrare prima che voli via, la poesia del mondo. Le parole stesse diventano tratti di poesia (grafica), che si librano nell’aria. Si pensi al grande amore di Mattotti per lo scrittore, poeta e pittore surrealista Henri Michaux, in particolare al suo personaggio Plume (letteralmente “piuma”), il cui nome rimanda alla leggerezza, all’esile capacità di resistenza di chi è sempre in balia degli eventi.
L’amore, le relazioni sentimentali, le “piccole lacerazioni dei sentimenti”, così essenziali e così instabili, sono ovviamente le questioni fondamentali. L’uomo alla finestra cerca la “polvere del mondo” e immagina “altre luci, tiepide quotidianità lontane”. Intorno a lui, scali ferroviari, gigantesche torri, camion, treni. Molti treni. Un altro motivo poetico ricorrente. Vettori orizzontali e verticali definiti da linee essenziali ed eteree. Ambienti in dismissione, dove vecchie fabbriche vengono abbattute per costruire un centro direzionale.
L’uomo alla finestra è anche una riflessione sulla creazione artistica che nasce dal caos
Il mondo esteriore, riflesso di quello interiore e soggetto a improvvisi mutamenti climatici, è rappresentato dalla finestra del titolo, sinonimo anche di uno sguardo contemplativo, protetto, che guarda da lontano. Qui è sempre questione di vento, soprattutto di aria, che sia “immobile” o di “ghiaccio”. Cogliere l’aria, la sua bellezza, la sua impalpabilità, e fissare i movimenti e i sommovimenti interni è la stessa cosa. Perché i due mondi sono perfettamente simbiotici. Non è sempre cosa facile, anzi.
Quella di Mattotti e Ambrosi non è la poesia retorica delle margheritine in fiore. “Si è alzato il vento… e anche tu hai addosso questo strano odore di aria”, dice una donna che pare vestita con abiti rinascimentali, chiusa nella sua serra piena di piante e fiori strani, chiusa nella sua isola per proteggere la propria interiorità e la propria fragilità. “Il vento stanca, Miriade”, è la risposta dell’uomo alla finestra. Perché il protagonista, pur così presente, è un personaggio senza nome, come il nonno è un personaggio senza volto. Pura astrazione. “Non lo sapevi? A noi spetta solo il volto con cui veniamo ricordati”, dice il nonno al nipote.
È una storia di fantasmi dalla pallida parvenza di viventi o di viventi eterei quasi come fantasmi. I luoghi – che i fantasmi amano abitare – sono fondamentali, sono come certi bei ricordi d’infanzia uterini e protettivi dai quali non si vuole uscire, ricordi come “la casa gialla dei nonni…”. Qui il trauma della perdita equivale a una stigmate dell’anima, che resta dentro, nell’interiorità, mentre in Stigmate le piaghe diventano esplicite e coinvolgono la carne.
Il mondo esterno è sinonimo di vento che smuove le cose e mina tranquillità e stabilità. Per questo stanca e fa paura, “perché non sappiamo assecondarlo. Siamo talmente impauriti che ci viene in mente soltanto di resistergli”. Perché siamo tutti bambini impauriti. “Mi sei sempre sembrato un po’ ingenuo, con quegli occhi morbidi e quegli sguardi stupiti”, dice a un certo punto Irene, amore passato, ma ancora un po’ presente, dell’uomo alla finestra.
Le figure longilinee e le linee lunghe, ampie, si confondono in una cosa sola, lasciando il posto a un’esplosione temporanea di ghirigori, vortici e linee frastagliate. È il caos interiore, l’angoscia, che non sempre si riesce a dominare. Ma in fondo è anche il mondo esterno, oggi più che mai reso caotico dagli esseri umani. Un mondo che è diventato il riflesso del nostro scompiglio. Il caos, soprattutto se primordiale, è sinonimo di creazione. E L’uomo alla finestra è anche una riflessione sulla creazione artistica che nasce dal caos, reso attraverso i grovigli dei segni grafici.
L’utilità inutile dell’arte
Tra le più belle sequenze del libro c’è quella con l’anziano ai margini di tutto, chiuso nel suo limbo: un deposito di macchine arrugginite, vestigia della modernità. “Contemplare una carcassa d’automobile che si decompone nella ruggine. E muti, umili…”, dice il vecchio. Apparentemente, tra il protagonista e l’anziano si delinea un dialogo contro l’arte, ma in realtà si va oltre e fiorisce una discussione sull’utilità dell’inutilità. E quindi, alla fine, sulla sua importanza: perché l’arte è inutile, non avendo, com’è noto, alcuna utilità pratica.
Ma c’è una rabbia, un fermento distruttivo e creativo insieme. Come quando il vecchio dice di aver squartato uno schermo cinematografico. Il segno incide come un coltello il biancore dello schermo, la tela del pittore, la carta del disegnatore. O l’anima del lettore, o il suo sguardo, il suo sentire. Generando così “squarci d’immagine che sembravano cristallo puro…”. Ovviamente siamo nell’ambito dell’arte contemporanea.
“Un colpo perfetto… lo schermo si è aperto come un fruscio!”, dice ancora il vecchio. Difficile non pensare ai segni che vanno oltre il segno di Lucio Fontana, ai suoi tagli perfetti, zen, alla ricerca di luce e spazio. Si distrugge e si (ri)crea. L’uomo alla finestra, in quanto artista che osserva, scomporrà ordinatamente il suo alfabeto, come afferma verso la fine. Ovviamente è Mattotti che in qualche modo si confessa: con Fuochi e con questi due titoli – al tempo stesso complemento e cesura nella sua opera – ha scomposto ancora una volta il suo alfabeto rispetto agli esordi, al “suo” caos creativo delle origini.
Un nuovo percorso
Una carriera cominciata, non va dimenticato, con il bianco e nero: un gran groviglio di segni, forse non sempre perfetti, ma con una forza già impetuosa e portatrice dell’urgenza di chi vuole dire un’infinità di cose, come nelle sue prime storie lunghe, tra cui il notevole Incidenti (1981). Questo caos primordiale degli esordi, appunto quasi sempre in bianco e nero a parte Alice Brum Brum – Nella riserva metropolitana del 1977 (da poco riedito con il titolo La realtà è strabica) è quello che nutre il secondo Mattotti. E che anticipa in qualche modo anche un terzo Mattotti, che sta emergendo negli ultimi anni.
Quello di Hansel e Gretel (Orecchio acerbo), dove la foresta primordiale e la forma visiva si uniscono in una vera e propria foresta del segno. Quello del fondamentale Chimera (Coconino press, di prossima riedizione per Logos), dove una prima parte eterea lascia poi spazio a una sorta di vulcano, a un’esplosione dalle viscere della terra del segno grafico che diventa groviglio, nube oscura, forza nera ancora una volta generatrice di un bosco inconoscibile. Quello del voluminoso Oltremai Logos), un capolavoro fatto di lunghe sequenze di inchiostro di china, dove tutte le influenze e tutti gli archetipi sono ormai fusi in una dimensione liquida, come un magma reso paradossalmente leggero, che nasce dalla memoria dell’arte e che da quella inconscia dà vita a forme e visioni nuove, completamente emancipate dal citazionismo postmoderno. Quello, infine, della recente raccolta di disegni di Blind (Logos), dove si passa dal grande buio alla luce, “dalla cecità alla speranza”, e del graphic novel Ghirlanda (Logos, vincitore del premio graphic novel dell’anno a Lucca comics nel 2017), ritorno all’etereo per una rivisitazione, tra fiaba e mito, dei poetici Mumin della svedese Tove Jansson, pubblicati per anni da Linus.
In Ghirlanda si ritrovano cesure continue, continuamente reversibili, che forse anticipano il prossimo percorso di Mattotti nel fumetto e nell’illustrazione, una volta concluso l’ormai imminente adattamento per il cinema d’animazione di La famosa invasione degli orsi in Sicilia, di Dino Buzzati, come lo stesso Mattotti ha adombrato nell’intervista che gli abbiamo fatto un anno fa.
Con la partecipazione convinta ed essenziale di Claudio Piersanti, in Stigmate l’artista comincia a esplorare il magma caotico e primordiale, partendo però dal massimo della concretezza, della realtà: “Una riflessione sul mistero della santità, ma anche una riflessione sul Mistero tout court. A pensarci adesso mi verrebbe da dire che la santità è sempre l’irruzione del Misterioso in un corpo impuro”, dice lo stesso Piersanti. È una santità sporca, circense, marginale, che mette al centro la fisicità del corpo sofferente per giungere alla metafisica e anelare alla dimensione spirituale.
“Incontrarlo è dolce e terribile, anche se ti chiama con la voce di un bambino…Vieni, mi diceva, non importa se la strada è finita”. Questo è l’incipit di Stigmate, romanzo a fumetti pasoliniano, intensamente grafico e letterario, che fa un uso continuo ma raffinato di immagini simboliche, per esempio nel ricorrere delle forme ovoidali, dai volti dei personaggi ai buchi neri. C’è di nuovo un bambino, più esattamente un bambino che nasce. Una forza primigenia dunque, ma anche un futuro bambino spaurito. Oppure disadattato, arrabbiato, sofferente.
Nelle sequenze oniriche comincia a manifestarsi l’amore di Mattotti per le simbologie pagane
Il protagonista di Stigmate è un disadattato respinto da tutti – “madonna quanto puzzi” – ma al tempo stesso ricercato da tutti quando compie miracoli e guarigioni. Nessun medico riesce a spiegarsi il perché di quelle ferite spontanee, di quelle stigmate. Alienato, in difficoltà nel cercare o mantenere il lavoro, senza nome come l’uomo alla finestra, vaga (s)perduto come un piccolo reietto di una fiaba nera, un brutto anatroccolo diventato adulto, che mantiene un cuore da bambino, una forma di purezza malgrado l’apparente crudezza. Vagando, cade ben presto vittima di crudeli atti d’intolleranza, di quelli che sono sempre esistiti, ma che ora sono più attuali che mai. Dei teppisti, forse quanto di peggio prodotto dalla frustrazione sociale, malmenano dei senza dimora e compiono anche un atto estremo: “A nessuno venne in mente di soccorrere quello che bruciava”. Un uomo che precipita nel nero, nella fuliggine del segno che diventa via via come un buco nero. Come uscirne?
Non è semplice. Quando il dramma giunge all’apice, ricorrono immagini di sguardi fissi e inanimati di paperelle, scimmiette, ma anche sguardi di persone. Sono occhi di bambino che si scontrano in una sequenza ipnotica e drammatica, vorticosa e apocalittica, con la realtà cruda. Interrogazione sulla mistica – in un paese attraversato tanto da simboli potenti quanto da una retorica a volte obnubilante – Stigmate è anche un’analisi dei comportamenti umani in un contesto sociale che li (pre)determina almeno in buona parte e dal quale si cerca confusamente di fuggire.
Quello del protagonista è un caso psichiatrico oppure no? Va ricordato che Piersanti, autore di innumerevoli romanzi tradotti anche all’estero, ha un passato di giornalista scientifico, specializzato in neurobiologia. L’intero romanzo racconta anche il dominio della cultura cattolica e l’ossessione per il peccato. Stigmate interroga laicamente il senso del peccato, la presa di coscienza verso la sofferenza altrui che provochiamo con i cattivi comportamenti, e insieme rilegge il peccato all’insegna della tradizione, mantenendo un equilibrio sottile. Per le preghiere del protagonista, per ammissione dello stesso Mattotti, Piersanti “aveva attinto alle fonti migliori: il Canto del servo sofferente (Isaia, IV canto), il Dialogo di Caterina da Siena e gli scritti di santa Teresa di Lisieux”.
Una figura religiosa positiva c’è, ed è una donna, una suora. “Anche se non risponde c’è una luce nei suoi occhi, non è spento come gli altri”, dice, ma “è lontano, questo sì, molto lontano da noi”. Da quel momento, con delicatezza e finezza psicologica cerca di riportare il protagonista al mondo, di farlo uscire dalla bolla protettiva in cui si è chiuso, nella sua isola, nella sua serra come Miriade in L’uomo alla finestra. Fiorisce in lui la pietà verso l’altro. La suora percepisce la sua forza, ma dove va a finire, si chiede? Perché quel groviglio di segni, quel buco nero, è la forza potenziale che si annida in lui per una nuova genesi. Nelle lunghe sequenze oniriche comincia a manifestarsi, esprimendosi al meglio, anche l’amore di Mattotti per le simbologie pagane, animiste e della religione cristiana, come l’albero della vita, che vengono fuse in un magma primigenio.
Stigmate può sembrare cupo, ma è un viaggio nel nero per uscirne ripuliti. Il messaggio è alto e malgrado tutto positivo, anche se l’oblio è possibile. Perché essere al mondo, nascere, è un’esperienza molto forte, un trauma. “È strano, da un po’ di tempo quando sfioro un mare mi tremano le mani e sopra le montagne le sento bruciare”, dice Miriade accarezzando le sue fantasiose mappe del mondo ben protetta nella sua serra. Miriade, e quasi tutti i personaggi di Mattotti, corrono spauriti nel vuoto, nell’inconoscibile, perché il mondo fa paura, forse per colpa degli esseri umani che non sanno essere abbastanza umani, perché terribilmente privi di una sufficiente consapevolezza.
Quelli di Mattotti, come già detto, sono personaggi sismografi. O meglio, personaggi “epicentrici”, per riprendere il geniale sottotitolo di Il signor Spartaco. Sono come tanti personaggi del più autentico fumetto per bambini, dei Signor Bonaventura, dei Sor Pampurio spauriti, tutti fragili burattini di carta, precipitati dal loro mondo incantato in quello reale. Per questo scappano, inseguendo le nuvole, il vento e rischiando l’oblio “perché ogni essere vivente, messo di fronte a ciò che lo spaventa muta la sua forma fino a rendersi invisibile”, dice il professore de L’uomo alla finestra. Per poi aggiungere: “Solo le piante sono fedeli alla loro sostanza”. Un’immobilità, quella delle piante e della natura, che nelle storie di Mattotti è sempre piegata, quasi spinta via dal vento, ma che resiste.
Leggi anche
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Abbonati per ricevere Internazionale
ogni settimana a casa tua.