Riesce a metà l’abbraccio tra Terrence Malick e la storia
Terrence Malick, con le quasi tre ore di A hidden life, recupera solo in parte rispetto agli ultimi titoli sfortunatamente deludenti, in particolare l’ultimo, Song to song, che quando uscì nelle sale avevamo recensito come se sfiorasse l’autoparodia. Storia vera del pastore e contadino austriaco Franz Jägerstätter che si oppose al regime nazista e soprattutto alla guerra (beatificato da Benedetto XVI nel 2007), in A hidden life si comincia purtroppo con grandi intenzioni evocative ma anche qui si fatica spesso a credere nell’illusione poetica e metafisica che Malick intende creare.
Le verdissime montagne dell’Alta Austria sono soggette a inquadrature e continue carrellate in avanti che ne vogliono restituire tutta la loro magnificenza e potenza al fine di avvolgere il lettore – una costante del cinema di Malick – e celebrare la grande comunione di ognuno di noi con il tutto, con il Creato dalla c maiuscola. In parte il cineasta riesce nell’intento e alcuni momenti lasciano a bocca aperta, ma in altri lo stile suona invece stanco, stucchevole.
La consueta girandola di movimenti di camera riproduce con brevi sketch sospesi e lirici i momenti di felicità familiare, rendendoli quasi grotteschi e dando l’impressione di assistere alla rappresentazione della famiglia ideale delle pubblicità con ambientazioni bucoliche, anche se ripresa e fotografata con una mano superiore.
E ancora, il momento in cui Jägerstätter viene chiuso in prigione e si trova a contatto con prigionieri italiani non convince e suona falso. L’astrazione consueta del regista non sembra trovare per intero il suo equilibrio con una vicenda storica e con il mondo concreto. Visto che l’ambientazione è rurale, dobbiamo dire che pare lontana la perfezione raggiunta ne I giorni del cielo (1978), anche se qui siamo in Europa e non negli Usa, tra alte montagne e non nella campagna del Texas dai campi di grano dorati. La vicenda e soprattutto le motivazioni del protagonista rimangono troppo astratte malgrado l’ambientazione precisa e i documenti storici esistenti. Anche se si indovina l’intenzione del regista di creare alla base della sua decisione una ragione essenziale, di purezza – “non riesco a fare una cosa in cui non credo”, dice –, il protagonista a momenti sembra quasi sciocco. L’uso dei materiali di repertorio è scolastico e quanto di più ovvio ci si potesse aspettare, a cominciare dai filmati di Leni Riefenstahl o quelli con Hitler tra le montagne della Baviera dove si trovava la sua residenza per le vacanze.
Se lo stile liturgico si è fatto in gran parte ridondante, di maniera e retorico, in questo film, però, i momenti forti ci sono e gli ultimi quaranta minuti esprimono una forza e una profondità reale che ne giustificano la visione. La lunga scena della ghigliottina di massa, dove non si vede quasi nulla grazie all’uso di sipari neri, è potente. Una sorta di teatro avvolto nel nero, metafora dell’Olocausto e della follia nazista. E l’incontro con la moglie in prigione prima dell’esecuzione è una lunga sequenza intensa e nell’insieme credibile. Quaranta minuti di grande cinema dove la sua metafisica ritrova finalmente la fusione con il mondo concreto dei suoi inizi. Magari non bastano per dire che Malick sia risorto– per usare un vocabolo pertinente al suo cinema – ma sono forse sufficienti per tornare a sperare che il regista di La rabbia giovane (1973) metta da parte la spiritualità da new age e torni, se non ai capolavori assoluti degli inizi, almeno ai livelli di opere come La sottile linea rossa (1999) e The new world (2005).
Se Frankie, il film dello statunitense Ira Sachs con Isabelle Huppert in trasferta in Portogallo, ci è sembrato piacevole ma piuttosto sterile, un vero gioiello ci è parso invece essere Atlantiques, il film della esordiente franco-senegalese Mati Diop.
Nipote del grande regista senegalese Djibril Diop Mambéty, scomparso nel 1998, attrice, Mati Diop riesce a costruire un film sottile, fine e intenso trattando una questione grave, descrivendo una realtà sociale con un impianto che passa con scioltezza dal realismo all’onirico. Tutto qui è rovesciato. Le sequenze diurne che crediamo reali si rivelano sogni, le sequenze notturne dalla forte connotazione onirica sono invece reali: insomma i confini tra realtà e sogno sono labili e più o meno tutto pare reversibile. E ancora chi parte su una piroga per tentare la fortuna in Europa si rivela un essere fedele all’amore nella sua dimensione più romantica e pura, viceversa l’uomo che sposa per imposizione familiare la giovane protagonista si rivela invece insensibile.
Il film descrive il dramma della migrazione e delle pericolose traversate dell’oceano Atlantico su piroghe restando fermo sul luogo di partenza, il Senegal, e mettendo fuori campo il viaggio per meglio farne cogliere il dramma. In campo c’è chi resta, e la solitudine doppia della giovane protagonista offre un ritratto preciso della condizione femminile, prostituzione compresa, e delle speranze continuamente uccise nella generazione più giovane. Diop costruisce con sapienza semplici inquadrature facendone dei micro-climax all’interno delle sequenze: una finestra che nella notte vede il tessuto che la ricopre fremere per il vento; una passeggiata notturna della protagonista nella periferia di Dakar dove vive; oppure ancora una casa con balcone circondata dalle palme inquadrata dal basso nella notte, che richiama certe abitazioni di Haiti, la patria, nel nostro immaginario, degli zombie.
Presenze soprannaturali
Non lo diciamo per caso, perché tutti gli esempi citati di inquadrature sembrano alludere a qualcosa di inquietante, quasi soprannaturale, a presenze che stanno per manifestarsi. L’amato che è partito è quasi un fantasma. Oppure uno zombie. Gli zombie – una costante di questo festival, come ha notato anche Le Monde – poi arrivano, anche se forse non lo sono realmente, o magari sì. Ma che abbiano una forma di concretezza o meno, sono comunque emanazioni della cattiva coscienza, sia senegalese sia europea. Mati Diop usa la sua capacità nel costruire splendide suggestioni o immagini di grande atmosfera per sfociare nella poesia e, inversamente, usa la poesia come strumento politico. Senza essere un capolavoro, ecco un film che davvero sorprende, originale e facilmente fruibile dallo spettatore: speriamo che venga distribuito in Italia.
Notevolissime anche le atmosfere del noir cinese The wild goose lake di Diao Ynan, strumento di un’altrettanto implacabile denuncia sociale. Regista di splendidi film, tra cui Black coal, vincitore dell’Orso d’oro a Berlino nel 2014, racconta un mondo che scompare – quello di una malavita frutto di un disagio sociale e di un malessere esistenziale – ambientandolo in un’enclave-dedalo di viuzze e vicoli che resiste all’invasiva edificazione della nuova Cina.
Diao Ynan crea una perfetta rappresentazione della meccanica sociale come strumento di alienazione e oppressione e dalla quale, però, esce vittoriosa inaspettatamente la donna, forse portatrice – sembra dirci il film – di una nuova visione.
Uomini messi invece di fronte alla loro sensibilità femminile sono invece quelli al centro del nuovo film di Pedro Almodovar, Dolor y gloria, già arrivato nelle sale italiane. Se a molti è parso un capolavoro noi ci siamo spesso un po’ annoiati nella prima parte, come se il regista madrileno facesse un cattivo Almodovar o inconsapevolmente il verso a se stesso.
Un esempio è quello della sequenza tra il protagonista, un regista interpretato da Antonio Banderas, e il suo ex attore. Una sequenza molto sopra le righe ma dalla quale nessuna profondità e intensità traspare. Con l’incontro tra i due ex amanti di gioventù è però il contrario, così come le sequenze in flashback con la madre. Film della memoria intima, raggiunge poi un grande momento di cinema con Banderas nell’apparecchio per la risonanza magnetica durante la visita medica: il movimento dell’apparecchio, quasi simbolo di morte od oblio, si fonde con quello della macchina da presa che ci porta nel cuore dei ricordi dell’infanzia. È infatti nei momenti chiave dell’infanzia che, come ha insegnato magistralmente Orson Welles in Quarto potere, la vita di un essere umano prende una direzione radicale.