L’America assurda dei Protomartyr
Protomartyr, A private understanding
Joe Casey è un tipo strano. Con quella faccia un po’ sconvolta, la giacca da impiegato, la sigaretta in bocca. Sembra uno di quei personaggi che entrano nei bar della provincia statunitense, in posti simili a quelli descritti da Jim Jarmusch in Paterson, e ordinano due o tre birre di seguito, prima di mettersi a inveire contro il governo. L’apparenza inganna, perché in realtà Joe Casey è una rockstar, un poeta e un performer con il gusto dell’assurdo, che mette la sua voce al servizio della musica dei Protomartyr.
Il nuovo album del gruppo di Detroit, Relatives in descent, è a suo modo un disco politico. Donald Trump non viene mai citato esplicitamente, ma la sua presenza aleggia fin dal brano d’apertura A private understanding, nel quale Casey canta: “I don’t want to hear those vile trumpets anymore” (non voglio sentire più quelle trombe schifose). Riferimento biblico a parte, l’assonanza con il cognome del presidente non è un caso.
Relatives in descent è un disco pieno di pezzi ottimi, arricchiti dai colti riferimenti letterari dei testi di Casey e dalla furia sonora del gruppo: l’ironica e macabra Caitriona, che racconta le riflessioni di una donna dentro la sua tomba, e l’amara e meravigliosa The chuckler, un’ode al quotidiano che si chiude con cupi presagi sul futuro (“Lord i wish there was a better ending for this joke”).
La musica dei Protomartyr ricorda il post punk dei Pere Ubu e dei Wire, ma anche il cantautorato di Nick Cave. La band non ha paura di affrontare le grandi questioni: cosa vuol dire essere umani? Cos’è la verità? Cos’è il bene e cos’è il male? La musica buona non è quella che dà le risposte, ma quella che fa le domande giuste.
Liam Gallagher, I’ve all I need
Liam Gallagher, molti lo sapranno, è stato il frontman degli Oasis. Cantante, ma non autore dei brani (tranne in qualche caso isolato). Dopo lo scioglimento della band, in seguito all’ennesima lite con il fratello Noel, Liam ha fondato i Beady Eye con i superstiti del gruppo (Gem Archer, Andy Bell e Chris Sharrock). I Beady Eye hanno pubblicato due dischi non indimenticabili e poi si sono sciolti anche loro.
Dopo un periodo di pausa, adesso Liam è tornato alla carica con As you were, il suo primo disco solista, anticipato da alcuni singoli e da una campagna via Twitter condotta dallo stesso Liam, con un unico obiettivo: insultare Noel. La rivalità tra fratelli è una buona mossa pubblicitaria e ha fatto le fortune degli Oasis, ma il giochetto ormai non funziona bene come in passato. Dal punto di vista musicale, inoltre, Liam sembra stanco.
As you were è un disco molto bellicoso nelle intenzioni, se si leggono i titoli e i testi dei brani, ma troppo annacquato dal punto di vista sonoro. Liam ha scritto i pezzi insieme a Greg Kurstin (già al lavoro con Adele, Lily Allen e Foo Fighters). Il risultato è un deludente album di pop’n’roll nostalgico. I riferimenti sono i soliti (i Beatles e gli Stones vengono saccheggiati a più non posso, i Black Rebel Motorcycle Club vengono omaggiati in Greedy soul). Il problema è che Liam Gallagher, e a parte la faccia tosta e la voce (che ormai non è più quella di una volta), non sarà mai un autore di canzoni ai livelli del fratello, che nonostante gli alti e bassi conserva ancora un talento innato per la melodia.
In questo disco non c’è molto altro di cui parlare. Si salvano solo il pezzo d’apertura, Wall of glass, e soprattutto I’ve all I need, che sembra un pezzo dei Verve e azzecca un ritornello coi fiocchi. Un po’ poco per rilanciare una carriera in declino.
Moses Sumney, Lonely world
Che bell’esordio, quello di Moses Sumney. Il cantante soul di Los Angeles ha una voce fuori dal comune e il suo falsetto costruisce sfumature infinite. Il suo primo disco, Aromanticism, è una raccolta di canzoni soul minimaliste e dalle atmosfere cosmiche, dove le chitarre e gli archi giocano a nascondino.
Aromanticism si apre con Don’t bother calling, un pezzo che sembra uscito da Blonde di Frank Ocean. Plastic, sospesa tra Nina Simone e il mito di Icaro, è un saggio di classe. Quarrel, con i suoi ritmi jazz, smuove un po’ le acque, mentre l’oscura Lonely world, in cui Moses sembra quasi fare il verso a Jeff Buckley, è il pezzo più riuscito del disco, grazie a un trascinante crescendo finale. Nella seconda parte dell’album spicca invece l’ovattata Doomed.
Moses Sumney è bravo e lo sa, per questo questo a volte esagera un po’ con l’autocompiacimento. Se in futuro imparerà ad arrivare più dritto al punto, farà dei dischi ancora migliori di questo.
Andrea Poggio, Fantasma d’amore
Andrea Poggio è il cantante e autore dei brani della band lombardo piemontese Green like July. Il suo primo disco solista, intitolato Controluce, sarà pubblicato dalla Tempesta Dischi il 17 novembre ed è una raccolta di nove canzoni. L’album è stato registrato tra Milano e New York con il produttore Eli Crews e con Enrico Gabrielli dei Calibro 35.
Finora possiamo ascoltare solo il primo singolo, Fantasma d’amore, che comunque è molto interessante, con quei riferimenti a Franco Battiato, Ivan Graziani e, perché no, anche al Morgan dei bei tempi (quello di Canzoni dell’appartamento).
Kelela, LMK
Il disco d’esordio della cantante statunitense di origini etiopi Kelela, intitolato Take me apart, non fa certo gridare al miracolo ma è una raccolta di buone canzoni rnb, supportate dall’ottima voce e dalla sensuale presenza scenica di Kelela.
Rispetto agli ep pubblicati finora, è chiaro il tentativo della cantante di raggiungere un pubblico più ampio, pur senza perdere di vista i suoi punti di riferimento artistici, Erykah Badu su tutti. LMK, uscito ad agosto, è stato il singolo apripista ed è uno dei brani migliori del disco.