La nuova vita dei Fleet Foxes
A un certo punto sembrava quasi che i Fleet Foxes non sarebbero tornati. Nel 2014 il leader della band, Robin Pecknold, si trasferì da Seattle a New York per studiare alla Columbia, prendendosi una pausa dalla musica. Erano passati tre anni da Helplessness blues, un disco apprezzato dalla critica e dal pubblico e candidato ai Grammy, e la decisione di Pecknold di allontanarsi dal resto del gruppo proprio in un momento così importante poteva sembrare l’anticamera dello scioglimento, o magari dell’inizio di una sua carriera solista.
Invece lo scorso giugno, dopo cinque anni di silenzio, i Fleet Foxes sono tornati con il loro terzo album, Crack-up, un disco che allarga i loro orizzonti sonori e sembra aprire una nuova fase nella storia della band. Crack-up gioca a decostruire le melodie dei brani, che hanno strutture quasi prog. Tra le canzoni migliori spiccano Naiads, Cassadies, un pezzo dalle atmosfere cinematografiche, e il singolo Third of May / Ōdaigahara, che nella seconda parte ricorda i Grizzly Bear di Veckatimest.
Crack-up è un lavoro riflessivo, che sembra anche il racconto di una crisi personale, forse nata durante il periodo di pausa newyorchese di Pecknold. Non è un caso che il titolo dell’album sia ispirato a Il crollo, un saggio di F. Scott Fitzgerald in cui l’autore statunitense scriveva: “Il banco di prova di un’intelligenza di prim’ordine è la capacità di tenere due idee opposte in mente nello stesso tempo e, insieme, di conservare la capacità di funzionare”. È proprio questa sensazione di frattura costante che aggiunge fascino al disco, come se il dubbio e l’incertezza fossero stati il motore della creatività dei Fleet Foxes.
Da alcuni mesi i Fleet Foxes stanno portando Crack-up in tour. Dopo la data a Ferrara l’estate scorsa, la band statunitense tornerà in Italia il 10 novembre per un concerto al Fabrique di Milano. In un momento di pausa dal tour, Robin Pecknold ha raccontato al telefono le sue sensazioni sul nuovo corso della band.
Come nasce il titolo del disco? Perché quella citazione di Fitzgerald?
Ci sono due tipi di musica: quella emozionale e quella intellettuale. In questo disco ho cercato di farle coesistere, anche a costo di farle entrare in collisione. Ho scritto pezzi con strutture non banali, che sfidassero un po’ l’ascoltatore. Ho rimuginato molto sul disco, prima di registrarlo. C’è voluto del tempo per mettere insieme le idee e penso che questo si rifletta sul suono: ci sono cambi improvvisi di ritmo e di atmosfera, i brani hanno delle strutture diverse dal passato. Ma non penso che il prossimo disco sarà come questo, credo che sarà più fluido e armonioso.
In Crack-up si sentono influenze diverse, da Ennio Morricone al krautrock. Sei d’accordo?
Sì. Sono stato sempre affascinato dalle colonne sonore e dalla musica tedesca. Mentre facevamo il disco e ascoltavo i primi mix delle canzoni, mi veniva naturale fare una specie di associazione visuale per ogni pezzo. Era come se avessi disegnato un paesaggio senza le immagini.
Nell’album c’è anche un pezzo politico, Cassius, ispirato alle proteste per la morte di due cittadini afroamericani, Alton Sterling e Philando Castile, uccisi dalla polizia statunitense. Com’è nato?
Un giorno stavo camminando per le strade di New York e mi sono imbattuto nelle manifestazioni. Di solito non scrivo canzoni di protesta, ma quell’esperienza per me è stata molto forte. Allora ho deciso di scrivere una canzone che fosse influenzata da quei fatti senza citarli troppo esplicitamente. Per questo ho scelto il titolo Cassius, che fa riferimento al Cassio che ha cospirato contro Cesare ma soprattutto al pugile Cassius Clay, che è morto un mese prima dell’omicidio di Sterling. Clay, o Muhammad Ali se vogliamo chiamarlo in quel modo, era un leader culturale e un eroe. Quando ho composto questa canzone, sentivo che qualcosa nel mio paese stava andando storto. Le cose dovevano cambiare.
Sono cambiate nel frattempo?
Sì, ma in peggio. Da quando è stato eletto Trump gli Stati Uniti sono ancora più divisi e arrabbiati di com’erano prima. La situazione ci sta sfuggendo di mano.
Vi siete sentiti di recente con Josh Tillman, il vostro ex batterista che adesso pubblica dischi con il nome Father John Misty? Si dice che non siate rimasti in buoni rapporti.
In realtà non ci sentiamo molto. Ma non è perché abbiamo litigato o cose simili, abbiamo semplicemente preso strade diverse e ognuno cura il suo progetto artistico.
Avete pubblicato i vostri primi due dischi tra il 2008 e il 2011, in un periodo in cui Spotify non era diffuso come oggi. Che impressione ti ha fatto tornare sulle scene in un mondo dominato dalla musica in streaming?
In realtà Spotify è una cosa positiva, soprattutto per chi ascolta i dischi, c’è grande scelta. E al tempo stesso è uno stimolo per i musicisti. Se negli anni del download il fatto di poter comprare singole canzoni spingeva tutti a comporre potenziali singoli, con lo streaming, e soprattutto con il ritorno del vinile, siamo tornati a dare più importanza agli album.