Tre giorni di musica al Primavera sound
Per un appassionato di musica il Primavera sound di Barcellona è come il luna park per un bambino: ha talmente tante cose tra cui scegliere che non sa da che parte cominciare. La fatica maggiore, al di là del respirare la polvere alzata da migliaia di persone per sette ore ogni giorno, dello stare in mezzo alla calca, tra i ventenni, e di avere pochissimo tempo per mangiare o andare in bagno, è quella di decidere quali concerti vedere e organizzare gli spostamenti da un palco all’altro.
La forza del festival catalano è quella di accontentare diversi tipi di pubblico. E di non essere un festival, ma tanti festival contemporaneamente. Non è solo una questione di quantità, di eventi con line up chilometriche ce ne sono tantissimi in tutto il mondo, ma di qualità. Non è un caso che gli organizzatori si ispirino allo storico South by southwest di Austin.
Se penso alle tre cose che mi sono piaciute di più quest’anno, mi vengono in mente tre nomi che apparentemente non hanno niente a che fare l’uno con l’altro: Björk, Tyler The Creator e gli Slowdive. E, per dire, non ho neanche visto i concerti di Nick Cave e degli Arctic Monkeys. Non perché questi artisti non mi piacciano (li ho già visti diverse volte in passato) ma perché in quel momento il mio Primavera era un altro.
Con Björk dentro la foresta
Avere la pretesa di raccontare il Primavera sound del 2018 quindi sarebbe presuntuoso: posso raccontare il mio Primavera sound, che è cominciato il 31 maggio. E per farlo devo partire proprio da Björk, che si è esibita il 31 maggio su uno dei due palchi principali, il Seat (al Parc del Fòrum, la zona sul lungomare fuori dal centro di Barcellona dove si tiene l’evento, ce n’erano in tutto quattordici).
Il concerto della cantante islandese si è aperto con un appello ambientalista e femminista, scritto su un cartello mostrato sui megaschermi. Poi Björk è salita sul palco con un vestito a forma di vulva, accompagnata da sette flautiste mascherate e immersa in una scenografia in stile giungla futurista. Dal vivo i brani del nuovo disco Utopia, che sono il cuore della scaletta, funzionano molto bene e le (come al solito) poche concessioni al repertorio passato (ottime Human behaviour e Wanderlust) sono ben inserite nel contesto dello show. Ma il risultato finale è stato davvero emozionante. Quando la cantante islandese è in serata, dimostra di essere ancora una fuoriclasse.
Lo spettacolo di Tyler The Creator invece, come quello di Vince Staples, per me è stato il simbolo del peso crescente del rap nel programma del festival. I musicisti hip hop ovviamente c’erano anche negli anni passati, ma non ricordo edizioni in cui avessero a disposizione i palchi grandi come quest’anno.
Lo statunitense Tyler The Creator, senza band e senza particolari orpelli, ha tenuto in pugno una folla da stadio con una grande performance, costruita su un flow impressionante e su una presenza scenica ipnotica. Il pubblico, ovviamente, non era lo stesso di quello di Björk: l’età media si aggirava intorno ai vent’anni. E ho visto un’interazione molto più forte tra chi stava sul palco e chi stava sotto.
Ma, come detto, bastava cambiare palco per cambiare prospettiva: gli Slowdive, band di culto dello shoegaze anni novanta, il 2 giugno hanno dato una lezione di rock: la band ha dimostrato una compattezza e una qualità sonora impressionante.
Tra gli altri live da segnalare, non si può non citare Father John Misty, davvero impeccabile il 1 giugno, Fever Ray, che ha fatto un concerto brillante, con un suono aggressivo e un’ironia tagliente sugli stereotipi sessuali e le Warpaint, band rock femminile statunitense che ha suonato al tramonto il 31 maggio. Oumou Sangaré, storica cantante maliana, il 1 giugno ha incantato sul palco Ray-Ban. Tra quelli da segnalare in negativo purtroppo vanno messe le Breeders di Kim Deal, apparse un po’ bolse, e soprattutto i National, che non hanno più il sacro fuoco degli anni passati: la loro esibizione è stata solida, ma priva di quei picchi emotivi ai quali mi avevano abituato.
Occhio alla concorrenza
A voler fare i difficili a tutti i costi, qualche ombra c’è stata. Dopo Frank Ocean nel 2017, anche quest’anno il festival ha perso all’ultimo uno dei suoi nomi principali: i Migos, i campioni della trap statunitense, hanno dato buca dopo aver perso il volo dagli Stati Uniti. La sostituzione con il britannico Skepta (che si è esibito il 2 giugno) è stata una buona idea, ma attorno alla band statunitense c’era tanta curiosità, non solo tra i fan del genere. La mancanza dell’Auditori Rockdelux (che dall’anno prossima tornerà a disposizione) nelle due giornate conclusive ha pesato, perché quello era uno dei posti migliori dove ascoltare i concerti.
C’è un’altra questione da non sottovalutare: tenere alta la qualità del Primavera sound diventa ogni anno più difficile. Perché la manifestazione catalana, partita nel 2001 come un piccolo festival di musica elettronica, è arrivata a numeri importanti (quest’anno c’erano 210mila spettatori, in media 60mila al giorno, provenienti da 126 paesi) ma non può e non vuole più crescere, come hanno ammesso gli organizzatori alla conferenza stampa finale. È una scelta saggia. Diventando ancora più grande, il festival rischierebbe di snaturarsi, ma al tempo stesso conviene tenere d’occhio la concorrenza: il Sonar, che si terrà dal 14 al 16 giugno sempre a Barcellona, per il 25° anno ha tirato fuori una lineup d’eccezione che non guarda solo alla musica elettronica. E a luglio ci sarà il Mad Cool Festival a Madrid, che vede il coinvolgimento diretto della Live Nation, che nei prossimi anni rischia di portare via qualche nome al Primavera, ammesso che non l’abbia fatto già quest’anno.
L’ultimo concerto
Come farà il festival di Barcellona a non perdere terreno? La strada presa quest’anno, aumentando lo spazio dato all’hip hop e all’elettronica, è quella giusta. E la stima che circonda il Primavera, non solo tra gli addetti ai lavori, gli dà un credito ampio. Lo prova il fatto che diversi musicisti si sono esposti con lodi sperticate. Dal palco, il cantante dei National Matt Berninger ha detto: “Questo è il festival migliore del mondo, non ne trovate altri del genere in giro”, gli War On Drugs hanno detto “benvenuti al festival migliore del mondo”. Forse sono frasi di circostanza tipo “siete un pubblico fantastico”, però fanno lo stesso un certo effetto.
La forza del Primavera, lo ripetiamo ogni anno, sta tutta lì: nella line up, come si dice in gergo. La manifestazione offre una quantità e una qualità difficile da replicare, arriva spesso prima della concorrenza su artisti che poi diventano “grossi” e trova sempre il giusto compromesso tra grandi nomi e musicisti indipendenti. In un momento storico in cui altri festival, come il Coachella, soffrono un po’ di gigantismo.
Ed è per tutti questi motivi che il 2 giugno alle tre e mezzo di notte, mentre stavo andando via dopo tre giorni di musica, mi sono fermato un attimo a sentire i francesi The Blaze. Non li conoscevo, ma un amico me li aveva segnalati il giorno prima. In quel momento dovevo andare via, perché avevo l’aereo ed ero molto stanco, ma mi sono fermato ad ascoltare un paio di pezzi. Mi piacevano, sarei rimasto volentieri lì. Anzi, quasi quasi avrei ricominciato tutto da capo.
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