Tanto Drake, forse troppo
Drake, Nonstop
Altro che morte dell’album. Una delle conseguenze del dominio dello streaming sul mercato discografico mondiale è che i dischi si stanno allungando. Di recente tante star dell’hip hop e dell’rnb statunitense, dai Migos a Chris Brown, hanno pubblicato album più lunghi di 80 minuti, come ha fatto notare l’edizione statunitense di Rolling Stone. Il motivo è semplice: più canzoni significano più streaming, posti più alti nelle classifiche di Spotify e quindi più soldi. Questo spiega in parte perché Scorpion, il nuovo lavoro di Drake, ha 25 (!) canzoni. Tra l’altro, come se non bastasse, nei tre giorni successivi all’uscita, l’immagine del rapper canadese era onnipresente su Spotify, perfino nelle playlist degli altri musicisti.
Del resto, quando si parla di artisti del genere, i numeri non si possono separare dalla musica. Ma a volte è proprio la musica a passare in secondo piano. Scorpion infatti soffre dello stesso problema che aveva Culture II dei Migos: c’è troppa roba. I fan saranno contenti di riascoltarsi fino alla nausea queste canzoni, ma per gli ascoltatori normali come noi la mole è francamente troppa.
Non che in Scorpion non ci siano ottimi pezzi: il singolo God’s plan, già in giro da mesi, è un classico brano di Drake e funziona alla grande. Nonstop, con i suoi bassi trap, ha un gran tiro, come Mob ties, che campiona il Nas di Affirmative action (stendiamo un velo pietoso sul testo invece, nel quale Drake cerca di darsi una credibilità da “strada” rivendicando presunti legami con la mafia). Ma ci sono troppi riempitivi in questo disco. Soprattutto nella seconda parte, quella più rnb, dove i pezzi da saltare sono almeno cinque o sei: alcuni brani, come Ratchet happy birthday, sono così brutti che sembrano uno scherzo.
In Don’t matter to me spunta addirittura la voce di Michael Jackson, presa da una registrazione fatta dal re del pop nel 1983 insieme a Paul Anka. Ma il risultato non è niente di epico. Insomma, Scorpion è un mezzo flop. È un disco malato di autoreferenzialità (anche l’ultimo di Kanye West lo era, ma aveva cose più interessanti da dire) al quale qualche taglio avrebbe giovato. Drake, come altri giganti del rap statunitense, è comprensibilmente molto attento alle cifre. Oltre che occupare militarmente Spotify però dovrebbe pensare anche a fare grandi dischi, se non vuole scendere presto dal trono.
Gorillaz, Hollywood
Nell’elenco dei dischi deludenti usciti nelle ultime settimane, purtroppo, dobbiamo mettere anche The now now dei Gorillaz. Damon Albarn aveva in testa di fare un album compatto, molto diverso dal pasticciato Humanz (dove i troppi ospiti toglievano valore all’insieme più che aggiungerne). Infatti ha chiamato “solo” Snoop Dogg, Jamie Principle e George Benson, affidando il resto del disco al suo alter ego animato 2D.
Il problema, come succede quasi sempre quando un disco non funziona, è che stavolta Albarn non aveva in mano le canzoni giuste. Molti di questi brani sembrano più dei tappeti sonori da mettere in sottofondo che da ascoltare con attenzione. I rimandi all’house e all’hip hop sono telefonati e il disco suona stranamente poco ambizioso. The now now non è un brutto disco (è quasi impossibile che Albarn faccia un disco brutto) ma (forse è quasi peggio) è un disco inutile. Il concerto a Lucca invece pare che sia stato fantastico. Io non c’ero, e rosico.
Achille Lauro feat. Cosmo, Angelo blu
Uno dei dischi italiani più interessanti usciti negli ultimi mesi è sicuramente Pour l’amour di Achille Lauro, una figura un po’ atipica nella scena trap italiana. Insieme al produttore Boss Doms, Achille Lauro sta sperimentando molto e sta allargando i confini del rap italiano, aprendolo all’afrotrap francese, alla musica latina e al pop.
Il primo brano del disco, di cui in questi giorni è uscito anche il video, è Angelo blu, frutto di una fortunata collaborazione con Cosmo. Quei suoni un po’ anni novanta (non a caso viene omaggiato Gigi D’Agostino, che sarà pure tamarro ma chi è cresciuto negli anni novanta le sue canzoni se le ricorda eccome) sono perfetti per la voce di Achille Lauro.
Chancha Vía Circuito, Ilaló
Pochi giorni fa è passato a trovarci in redazione il musicista argentino Pedro Canale, in arte Chancha Vía Circuito. Prossimamente lo vedrete in una nuova puntata di Anatomia di una canzone. Con lui abbiamo parlato del brano Ilaló, che ha composto insieme al cantante ecuadoriano Mateo Kingman.
La musica di Chancha Vía Circuito pesca a piene mani dalla tradizione latinoamericana: il linguaggio di base è quello della cumbia colombiana, dentro il quale si innestano rap, reggaeton e folk delle ande. I brani del musicista argentino sono meditativi, mistici e nascono da un rapporto quasi panico con la natura. Sono contemporanei e antichi al tempo stesso. Dopo aver conquistato la colonna sonora di Breaking bad con il precedente album Amansará, nel nuovo Bienaventuranza, uscito da poco per la Wonderwheel recordings, Chancha Vía Circuito ha confermato tutte le sue qualità.
Lagartijeando, Camino en Llamas
Della stessa casa discografica appena citata, la Wonderwheel, qualche mese fa è uscito anche l’album di un altro musicista argentino, Mati Zundel, in arte Lagartijeando. È una raccolta di remix di pezzi di El gran poder, un disco del 2017 che è piaciuto molto alla critica latinoamericana. Uno dei pezzi migliori è questa Camino en Llamas, remixata da Steffen Kirchhoff.
P.S. Playlist aggiornata. Buon ascolto!