I migliori album del 2018
Che anno è stato il 2018 per la musica? Un anno interlocutorio, dal punto di vista qualitativo. Nel 2017 era stato pubblicato Damn di Kendrick Lamar, un anno prima Blackstar di David Bowie e Life of Pablo di Kanye West, nel 2015 To pimp a butterfly, sempre di Lamar. Nel 2018 non è uscito un album con lo stesso spessore, ma non è mancata musica di buon livello. Abbiamo ascoltato ottimi album come Double negative dei Low, il pop globale di Rosalía e il rap di Travis Scott. In Italia il 2018 ha consacrato Cosmo come il più brillante autore di canzoni pop in circolazione, e ha visto grandi ritorni di nomi storici dell’hip hop come Noyz Narcos e i Colle der Fomento.
Prima di arrivare al listone di fine anno, una piccola parentesi sui numeri, che sono sempre utili a capire come stanno le cose. I tre dischi più venduti negli Stati Uniti nel 2018 secondo la classifica di Billboard (i dati mettono insieme copie fisiche, download digitali e streaming) sono Reputation di Taylor Swift, Scorpion di Drake e Beerbongs & Bentleys di Post Malone. L’artista maschio più ascoltato su Spotify è Drake, seguito da XXXTentacion e Post Malone, l’artista donna più ascoltata è Ariana Grande, seguita da Dua Lipa e Cardi B. La canzone più ascoltata è God’s plan, del solito Drake, vero dominatore delle classifiche.
In Italia la canzone più ascoltata su Spotify è Tesla di Capo Plaza feat. Sfera Ebbasta e DrefGold, mentre il disco che ha raccolto più streaming è stato Rockstar di Sfera Ebbasta. In attesa dei dati definitivi della Fimi, le classifiche del primo semestre dell’anno confermano che Sfera Ebbasta, al secolo Gionata Boschetti, è stato il fenomeno musicale dell’anno: Rockstar è arrivato al primo posto, seguito da Fatti sentire di Laura Pausini e Plume di Irama.
Questi dati confermano l’ormai definitiva crisi commerciale della “musica con le chitarre” e la definitiva consacrazione del rap e dell’rnb come generi di riferimento, soprattutto oltreoceano. E sanciscono l’impatto sempre più forte dei servizi di streaming, che ormai rappresentano il 75 per cento dei ricavi per l’intera industria discografica. Insomma, le chitarre e i dischi ormai, piaccia o no, sono in minoranza.
Ma ora veniamo al mio listone. Gli album sono in ordine di preferenza e sono divisi tra stranieri e italiani, dieci nella prima categoria e cinque nella seconda. La classifica, lo ripeto, è mia e se volete scoprire le scelte della redazione di Internazionale dovete comprare Playlist. Dentro questo articolo ci sono due playlist di Spotify, una all’inizio con i quindici dischi della classifica finale (con due brani per ogni disco), e una alla fine che mette insieme tutti i brani che sono finiti nelle canzoni del weekend nel corso del 2018. Buon ascolto!
Gli stranieri
1. Low, Double negative
Ascoltando Double negative dei Low viene in mente La strada, il romanzo di Cormac McCarthy nel quale un padre e un figlio camminano in mezzo alle macerie di un’America colpita da una catastrofe non meglio specificata. Sono rimasti soli e portano “il fuoco”, metafora dell’ultimo residuo di umanità.
In Double negative le voci di Alan Sparhawk e Mimi Parker, marito e moglie di fede mormona da Duluth, Minnesota, portano il fuoco, per riprendere l’immagine evocata da McCarthy. E si muovono in mezzo a un paesaggio sonoro frantumato con sapienza dal produttore BJ Burton (Bon Iver, James Blake e altri). Burton ha usato l’elettronica per decomporre il rock tetro della band statunitense, com’era successo nel precedente Ones and sixes. Ma in quel disco l’elettronica era un contorno, qui è il mezzo espressivo principale.
Le influenze che vengono in mente ascoltando questo disco sono tante, i Boards of Canada, Brian Eno (The son, the sun sembra uscita dalla serie Ambient music), ma anche Aphex Twin e i Radiohead, maestri nel costruire ponti tra rock ed elettronica. L’unico brano dominato dalle chitarre è Dancing and fire, mentre la melodia più azzeccata si trova in Always trying to work it out, che sembra un brano di Ok computer.
Double negative dà un sacco di spunti, non solo musicali. È il miglior album dei Low, a più di vent’anni dal loro esordio I could live in hope. Ed è la colonna sonora ideale per i tempi incerti che stiamo vivendo perché, nonostante le nubi, lascia una fiammella di speranza. E di umanità.
2. Rosalía, El mal querer
Una delle cose buone che ha fatto internet è aver scardinato almeno in parte il dominio dell’estetica occidentale/statunitense sui gusti dell’ascoltatore medio di musica pop. Oggi è più facile che un disco colombiano, giapponese o, come in questo caso, spagnolo possa imporsi anche al di fuori dei confini nazionali. Infatti la catalana Rosalía con il secondo album El mal querer ha raccolto recensioni entusiaste dalla stampa di mezzo mondo. La ragazza prende un genere tipicamente spagnolo come il flamenco e lo modernizza con gusto pop.
In El mal querer, prodotto dalla stessa Rosalía insieme a Pablo “El Guincho” Díaz-Reixa (già collaboratore di Björk), si alternano momenti di flamenco quasi tradizionale (Que no salga la luna) ad altri più rnb come Pienso en tu mirá e Bagdad (dove la voce della cantante è satura di autotune). Questa non è musica fatta solo per fare record su YouTube in stile Despacito. El mal querer è un concept album ispirato alla trama della Flamenca, un romanzo anonimo del duecento, e ogni canzone racconta una parte della storia. Anche l’estetica dei video di Rosalía, che giocano con l’iconografia spagnola un po’ come i video di Liberato giocano con quella napoletana.
El mal querer è un piccolo saggio di cos’è oggi il pop globale di qualità. A tratti è sicuramente paraculo e s’intuisce che è stato supportato da un discreto investimento a livello promozionale. Ma funziona, eccome se funziona.
3. Earl Sweatshirt, Some rap songs
Ascoltando il terzo disco del rapper di Los Angeles Earl Sweatshirt, al secolo Thebe Neruda Kgositsile, sembra di sentire una radio alla ricerca costante delle frequenze giuste. Alcuni brani del disco superano appena il minuto di durata, sono brevi e frammentari flussi di coscienza incastrati l’uno sull’altro. L’album comincia con un campionamento della voce di James Baldwin (lo scrittore e attivista nero a cui è dedicato lo splendido documentario I am not your negro), ma più che un disco politico Some rap songs è un disco introverso, quasi dimesso. Al centro delle canzoni c’è la salute mentale, un tema comune nella produzione del musicista statunitense, che da anni combatte contro ansia e depressione.
Some rap songs non ha una produzione sfavillante e non ha una lunga lista di ospiti da esibire. Ma non ne ha bisogno, perché la forza emotiva di queste canzoni è notevole di per sé, senza bisogno di orpelli. Earl Sweatshirt, membro del collettivo Odd Future (lo stesso di Tyler, The Creator e Frank Ocean), mette a nudo il suo disagio, piange la morte del padre (e usa la sua voce, oltre a quella della madre e della zia), ma ci offre al tempo stesso un racconto liberatorio e catartico.
Il disco gioca con i campionamenti in modo magistrale (i rintocchi di piano di The mint sono una finezza, Shattered dreams pesca dal soul degli Endeavors) ed esalta le capacità narrative di Earl Sweatshirt. È uscito a fine novembre, giusto in tempo per diventare il disco rap dell’anno.
4. Travis Scott, Astroworld
Ispirato a un vecchio parco giochi di Houston, in Texas, il terzo album di Travis Scott è una specie di stato dell’arte della trap statunitense. Dentro ci sono un sacco di ospiti e produttori diversi. Per questo il risultato finale non è tutta farina del sacco di Scott, che non è un rapper eccezionale ma sa scegliersi bene i collaboratori. Paradossalmente, questo a volte nell’hip hop contemporaneo non conta, perché quando puoi permetterti di chiamare Frank Ocean a cantare un paio di versi (Carousel) e Drake a fare un paio di barre (Sicko mode) è difficile che l’ascoltatore si annoi.
Nonostante i lustrini e la produzione da colossal, Astroworld non è un disco senz’anima. È un album malinconico e psichedelico che, come spesso capita con la musica di Scott, segue la scia tracciata in questi anni da Kanye West. I testi, se li paragoniamo a quelli di Lamar e altri contemporanei, non sono all’altezza e forse l’album è un po’ troppo lungo. Ma Astroworld ha un pregio: suona benissimo. Ed è la prova che nella musica popolare a volte i produttori contano più dei cantanti (il caso Playboi Carti è emblematico). In un anno in cui tante star del rap hanno deluso (i Migos, lo stesso Drake) Scott è riuscito a reggere l’urto dell’hype, come si dice in gergo.
5. Pusha T, Daytona
Il 2018 verrà ricordato anche come l’anno in cui Kanye West ha perso definitivamente la testa. L’elenco delle sue stranezze è lungo, dalle dichiarazioni insensate sulla schiavitù alla surreale conferenza stampa nello Studio ovale con Donald Trump. Non è ancora chiaro come e quanto la pazzia dell’uomo potrebbe rovinare la carriera del musicista.
Per il momento, tutto sommato, West tiene botta e quest’anno ha pubblicato addirittura due dischi, Ye e Kids see ghosts (con Kid Kudi), in attesa di Yandhi, in arrivo (in teoria) all’inizio del 2019. Ma la cosa migliore l’ha fatta nelle vesti di produttore e coautore al fianco di Pusha T.
Daytona è un disco compatto, fatto di sette canzoni per una durata di 21 minuti. Quando West si mette a campionare vecchi pezzi funk e rnb, mescolando il suo genio con il talento di Pusha T, vengono fuori cose notevoli. Il rapper di New York, che ci tiene sempre a ribadire da dove viene (dalla strada, ovviamente) del resto è dotatissimo dal punto di vista tecnico. E questo, per contraddire quanto scritto poco sopra, a volte nella musica conta parecchio.
6. Against All Logic, 2012–2017
Diavolo d’un Nicolas Jaar. All’inizio del 2018, quasi in sordina, il musicista cileno statunitense ha pubblicato un album con lo pseudonimo A.A.L (Against All Logic), che raccoglie diversi brani registrati tra il 2012 e il 2017. Ed è una delle cose migliori che ha fatto nella sua carriera.
Anche se i brani di 2012-2017 sono stati registrati in anni diversi suonano compatti e coerenti. Questo è il disco house che Jaar non aveva fatto finora, se si escludono i primissimi brani della sua carriera pubblicati da piccole etichette. Ci sono dentro campionamenti presi da vecchi brani soul, funk ma anche gospel (Some kind of game pesca dal mitico pastore e musicista gospel T. L. Barrett). Tra gli altri campionamenti interessanti ci sono quello del produttore e dj J.Dilla in Never dream e quello di Kanye West in Such a bad way.
Il brano iniziale del disco, This old house is all I have, cita The warning talk (part II), un brano del 1970 del compositore statunitense David Axelrod, ed è il pezzo perfetto per far cominciare qualsiasi dj set.
7. Noname, Room 25
Un disco rap femminista, con basi soul e testi intelligenti. Se dovessimo riassumere Room 25 di Noname con poche parole chiave probabilmente useremmo queste. Mentre nel corso del 2018 tutti hanno parlato delle risse tra Cardi B e Nicki Minaj, è uscito un ottimo album di una rapper giovane e impegnata, musicalmente un po’ più raffinato rispetto a quelli delle due reginette litigiose dell’hip hop statunitense.
Noname, al secolo Fatimah Nyeema Warner, è nata a Chicago. È una poeta, oltre che una musicista, e Room 25 è il suo disco d’esordio dopo il mixtape Telefone. L’album è ispirato al suo trasferimento da Chicago a Los Angeles e, soprattutto, alla perdita della verginità a 25 anni. Parla molto di sesso, in modo divertente e sboccato, ma riflette anche sulla società statunitense in modo più ampio (anche su Trump, ovviamente). Un bel segnale da oltreoceano, nell’anno del #metoo.
8. Senyawa, Sujud
I Senyawa, gruppo indonesiano di Yogyakarta, una città sull’isola di Giava, sono veramente difficili da etichettare. Non è la solita frase fatta, ve lo assicuro, i loro brani sono veramente difficili da etichettare. La musica del duo formato da Rully Shabara e Wukir Suryadi unisce universi lontani e apparentemente inconciliabili: il doom metal e il folk tradizionale indonesiano. Ha un che di demoniaco, ma è talmente ipnotica da risultare quasi rilassante. Suona spiazzante per le nostre ben educate orecchie occidentali. Guardare il video di una loro esibizione dal vivo forse aiuta a capire meglio quello che fanno i Senyawa.
Sujud, il settimo disco della band, dura solo 38 minuti ed è composto da sette brani, tutti affidati alla voce gutturale di Shabara, che a tratti sfiora il growl, mentre Suryadi suona strumenti che si costruisce da solo, creando suoni che starebbero bene nella colonna sonora di un film horror. A tratti, al tempo stesso, sembra di sentire certi dischi di krautrock tedesco, come nella splendida Sujud (Prostration).
Il caleidoscopio sonoro che esce fuori da questo disco è intenso e straniante: è come entrare a carponi dentro un tunnel che va verso il centro della terra. Al buio, ovviamente. I brani di Sujud potrebbero essere stati scritti ieri come migliaia di anni fa. Una delle sorprese musicali più belle del 2018.
9. Arctic Monkeys, Tranquillity base hotel & casino
Alex Turner ormai è britannico solo sulla carta. Si è perso da qualche parte a Los Angeles. Lo si capisce ascoltando le sue canzoni, non più cavalcate surf rock con il cuore a Sheffield ma canzoni da ascensore un po’ fumose e vintage da colonna sonora di una serie Netflix.
Il sesto album degli Arctic Monkeys è un’amara riflessione sulla celebrità, ambientata in un mondo retrofuturista, dove il protagonista (alter ego di Turner) vaga tra hotel, casinò e paesaggi lunari (Tranquillity base è il nome dato dall’astronauta Neil Armstrong al luogo dell’allunaggio dell’Apollo 11). A tratti è spaventato dalla realtà che lo circonda (l’America di Trump è appena evocata, ma è onnipresente nell’ombra) e a volte riflette sul rapporto tra esseri umani e tecnologia (diverse canzoni fanno riferimenti ai social network). A guidarlo in questo viaggio c’è la nuova veste sonora degli Arctic Monkeys, a metà strada tra il David Bowie di Space oddity, John Lennon, Nick Cave e la musica ambient. Le chitarre sono poche, e di contorno.
I testi di Alex Turner, che è sempre stato bravo a scrivere, qui toccano vette alte. Per esempio in Star treatment, il pezzo che apre l’album (memorabile l’attacco “I just wanted to be one of The Strokes, now look at the mess you made me make”). Quando Turner non suona troppo compiaciuto, e questo a tratti succede, Tranquillity base hotel & casino è davvero un bel disco.
10. Yves Tumor, Safe in the hands of love
Yves Tumor è cresciuto nel Tennessee e ha usato la musica come antidoto all’omofobia e al razzismo. Da nero queer, del resto, ha dovuto combatterle entrambe. Safe in the hands of love è il disco più accessibile della sua carriera, anche se non si sposta dai territori sperimentali ai quali ci ha abituato la sua elettronica.
Come sempre, Tumor gioca con i contrasti, mescolando parti vocali melodiche a suoni quasi disturbanti. E in questo a tratti ricorda il venezuelano Arca. Safe in the hands of love, pubblicato dalla casa discografica britannica Warp, è un disco di pop avanguardistico, che fa a pezzi le convenzioni e gli steccati tra i generi.
Gli italiani
1. Cosmo, Cosmotronic
Cosmotronic è un disco importante per la musica italiana e, nonostante il grande successo di pubblico che ha avuto, non è stato celebrato abbastanza dalla stampa specializzata. Con L’ultima festa Cosmo si era avvicinato al bersaglio grosso, mancandolo non di molto. Con Cosmotronic l’ha colpito in pieno, riscrivendo le regole del pop nostrano come non succedeva da anni.
Cosmotronic, per prima cosa, è ricco della materia più rara e preziosa nella musica leggera: i ritornelli, come quelli di Turbo, Tristan Zarra e Animali. Ma riesce anche ad andare oltre, soprattutto nella seconda parte, esplorando territori strumentali e di clubbing puro (La notte farà il resto). È un inno al corpo e al ballo come forma di espressione universale tra voglia di festa e introspezione, tra individualismo spinto e senso della famiglia. È un disco umano e intelligente, che con poche cose riesce a parlare a tutti.
2. Nu Guinea, Nuova Napoli
Da un po’ di tempo Napoli è tornata a essere una città centrale nel panorama musicale italiano. Gran parte del merito, non ce ne vogliano gli altri musicisti locali, è di Liberato. L’attenzione che il cantante napoletano (?) ha sollevato attorno alla città ha fatto uscire fuori tante realtà che in altri tempi non avrebbero ricevuto la stessa attenzione.
I Nu Guinea, partenopei espatriati a Berlino, sono un esempio perfetto. Se Nuova Napoli fosse uscito tre anni fa forse non sarebbe stato accolto allo stesso modo. Ma resta il fatto che è un grande album, un omaggio sentito a James Senese, Pino Daniele, ricco anche di suggestioni che non hanno niente a che fare con Napoli, dai ritmi afrocaraibici alla disco music.
3. Noyz Narcos, Enemy
Uno dei dischi italiani più attesi di quest’anno, perlomeno nel mondo dell’hip hop, era Enemy, il ritorno sulle scene di Noyz Narcos, rapper romano cresciuto nel collettivo Truceklan e autore di quel Verano zombie che ancora oggi rimane un disco di culto per gli appassionati del genere.
Il nuovo album di Noyz Narcos, arrivato a tre anni da Localz only, ha confermato le sue doti, tra un omaggio a Gabriella Ferri (Sinnò me moro) e un incendiario duetto con Salmo (Mic check). Ma la bravura di Noyz Narcos è quella di non cedere troppo alla nostalgia e di dare spazio alle nuove leve come Capo Plaza, che insieme al napoletano Luchè (veterano del rap napoletano) rende ancora più interessante il pezzo Casa mia. Un ritorno un po’ vendicativo, quasi tarantiniano, ma di grande forza e sostanza.
4. Colle der Fomento, Adversus
Non siamo più negli anni novanta. Le posse non ci sono più, Neffa fa pop, Primo Brown è morto e a dominare le classifiche c’è la trap. Ma i Colle der Fomento sono ancora qui. “Famo la roba nostra”, rivendica con orgoglio il gruppo rap romano, incurante del passare del tempo. La loro musica dimostra di avere ancora una vitalità e un’urgenza espressiva che altrove, dove dominano le 808, manca.
Non è un caso che diversi brani di questo disco riflettano sul passare del tempo (Eppure sono qui, Noodles) e si mettano in netta contrapposizione con il panorama sociale e musicale del presente (Penso diverso). Ma al tempo stesso in queste canzoni ci sono anche un paio di novità rispetto al passato: gli arrangiamenti quasi rock, per esempio, oppure un flow più lento rispetto al solito. Un altro ritorno di alto livello.
5. Capibara, Omnia
Capibara, producer di musica elettronica nato e cresciuto a Roma e fondatore dell’etichetta White Forest, è sospeso tra l’amore per l’hip hop e quello per la techno. È da sempre affascinato dal linguaggio dei videogiochi.
Tutti questi riferimenti, da sempre presenti nella sua musica, hanno trovato la quadratura definitiva in Omnia, pubblicato a novembre. Come dice il titolo, Omnia è il disco più completo e ambizioso di Capibara, tra suggestioni reggaeton e ritmi urbani che farebbero invidia anche a nomi dell’elettronica internazionale. L’ennesima prova che l’etichetta La Tempesta sa pescare bene nel mare dell’elettronica italiana.