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Qualche buon motivo per andare a vedere i Low dal vivo

I Low. (Paul Husband)

I Low si ricordano bene la prima volta che hanno ascoltato una loro canzone alla radio. Era il 5 aprile 1994 e stavano tornando in furgone a Duluth, a casa loro, in Minnesota, dopo un breve tour negli Stati Uniti. Una piccola radio di Minneapolis annunciò che Kurt Cobain si era appena suicidato con un colpo di fucile e subito dopo passò Words, la prima canzone del loro disco d’esordio, pubblicato pochi mesi prima.

Alan Sparhawk, cantante, chitarrista e fondatore della band insieme alla moglie Mimi Parker, ha raccontato per la prima volta questa storia al Guardian anni fa, ma gli piace ricordarla per far capire quanto arrivi da lontano lo strano successo della sua band. Un gruppo che ha sempre fatto una musica ostica, triste, eppure così toccante e catartica, costruendo il successo un mattone alla volta, a partire da una lunga gavetta sui palchi statunitensi.

La musica dei Low, classificata come slowcore, un genere caratterizzato da arrangiamenti minimalisti, ritmi lenti e tematiche tristi, è nata un po’ anche dalle ceneri del grunge, anche se i riferimenti della band sono altri (i Galaxie 500, per fare un nome). Non è un caso quindi che quella piccola radio li abbia scelti per commentare un avvenimento così traumatico per la musica mondiale come la morte di Cobain.

I testi dei brani sono influenzati dal clima pesante che si respira negli Stati Uniti dall’elezione di Trump

Dopo tanti anni, il lavoro di Sparhawk e Parker ha dato i suoi frutti. La critica ama i Low da anni, ma il dodicesimo disco della band, Double negative, è andato oltre le attese, diventando uno degli album più acclamati del 2018, nonostante sia il più complesso, oscuro e sperimentale della loro carriera. È quasi un viaggio alla fine del mondo, dove l’elettronica si affianca al rock e i testi dei brani descrivono un panorama apocalittico, influenzato anche dal clima pesante che si respira negli Stati Uniti dall’elezione di Trump.

Il tour del gruppo li ha portati in giro per il mondo e dopo una breve pausa ripartirà l’8 marzo da Denver. Presto toccherà anche l’Italia con tre date: il 5 aprile a Padova, il 6 aprile a Bologna e l’8 aprile a Roma.

Sparhawk parla al telefono dalla sua casa di Duluth, in Minnesota, nel freddo nord degli Stati Uniti. In questa città che si affaccia sul lago Superiore ed è circondata da fabbriche che fanno legno, prodotti tessili e petrolchimici, nel 1941 nacque Bob Dylan. Parlando del lago nella sua autobiografia Chronicles, Dylan ha scritto: “La gente diceva che andare in quelle acque profonde era come una condanna a morte”.

Da questo posto Dylan scappò, i Low invece ci sono rimasti, a coltivare la famiglia e la fede mormone, da sempre una fonte d’ispirazione per la loro musica. E ci stanno bene. “Sono qui con i miei figli, oggi abbiamo una giornata libera”, racconta Sparhawk, “ha nevicato fino a poco fa ed è freddissimo. Credo che oggi passerò il tempo a spalare neve e a fare esercizi con la chitarra”.


Che impressione vi ha fatto l’accoglienza a Double negative? Vi aspettavate un successo del genere di pubblico e critica?
In realtà pensavamo che il disco non sarebbe stato accolto tanto bene. Eravamo convinti che non sarebbe stato capito. La reazione dei giornalisti e del pubblico ai concerti ci ha molto sorpreso. Double negative è molto diverso dal passato e pensavo che molti fan si sarebbero sentiti traditi.

Per la prima volta nella vostra carriera avete fatto un album dominato dall’elettronica. Com’è nata questa idea?
Avevamo già sperimentato con drum machine e loop vocali, in particolare nel disco precedente, Ones and sixes, ma stavolta siamo andati oltre, avventurandoci in un territorio nuovo. Abbiamo cercato in un certo senso di fare a pezzi alcuni elementi tipici della nostra musica, come le parti cantate, e di saturarli con la distorsione. In questo ci ha aiutato anche il produttore BJ Burton, che ci ha incoraggiato ad andare in questa direzione. Volevamo esplorare lo studio di registrazione, usarlo come una tavolozza dei colori. BJ Burton è un ottimo ingegnere del suono, ha permesso di trasformare molte delle nostre improvvisazioni in idee concrete ed è stato fondamentale nella fase di mixaggio.

I testi dei nuovi brani sono apocalittici, ma contengono anche un messaggio di speranza. Double negative è un disco politico?
È un disco sulla crisi del mondo. Mentre scrivevamo i pezzi la realtà politica attorno a noi, a partire dall’elezione di Donald Trump, ci ha influenzato molto. Scrivere canzoni è un processo strano: alcune cose sono intenzionali, ma gran parte del lavoro consiste nel far parlare il proprio subconscio, nel ripartire ogni volta da zero. Alla base di Double negative c’è frustrazione, caos, difficoltà a capire quello che sta succedendo intorno a noi. Ma spero che in fondo questo disco venga considerato positivo, perché accettare l’oscurità che ci circonda è spesso il primo passo per risolvere i problemi.

Non dev’essere semplice portare queste canzoni dal vivo con chitarra, basso e batteria. Come avete fatto?
Nella maggior parte dei casi abbiamo cercato di semplificare il più possibile gli arrangiamenti, mantenendo la struttura dei brani realizzati in studio. In altri casi abbiamo cambiato completamente l’arrangiamento per adattarlo a noi tre sul palco (attualmente della band fa parte anche il bassista Steve Garrington, ndr). Del resto avevamo suonato alcuni pezzi in concerto già prima di entrare in studio, quindi è bastato riportarli alla loro forma originale. Ma non ce la sentiamo di portare i sintetizzatori sul palco, per ora.

Avete ascoltato molta musica elettronica prima di registrare Double negative? Cosa sentite di solito nei momenti di pausa?
Ascoltiamo sempre un sacco di reggae degli anni sessanta e settanta e di dub. Ogni tanto mi documento e cerco di recuperare le nuove uscite. Nel 2018 mi è piaciuta molto la cantautrice Mitski per esempio. Trovo fantastici gli Sleaford Mods. Ultimamente con mio figlio mi sono appassionato a Childish Gambino e ad altri dischi rap e ho cercato di riprodurre i brani con la mia chitarra.

Che rapporto c’è la tra vostra fede mormone e la musica?
La religione dà una lingua al senso spirituale delle persone. È alla base di tutto: la salute, la consapevolezza di se stessi, il modo di stare con gli altri. La musica è qualcosa che Dio ha messo nel mondo come un piccolo dono per restare uniti tra di noi.

Hai mai sentito un contrasto tra la tua fede e lo stile di vita del musicista?
No, non mi sono mai sentito a disagio a causa della vita che faccio. Non sono un perfetto praticante, e in passato ho avuto i miei eccessi, ma so darmi un limite. Tutti quelli che stanno nella musica se esagerano durano poco. Finiranno malati, in galera, oppure morti. Ma il rock’n’roll, perlomeno come lo viviamo noi ora, non è così decadente come si fantastica.


Avete nuove canzoni in mano? Dobbiamo aspettarci presto un seguito di Double negative?
Ci sono alcuni brani che non sono finiti sul disco e abbiamo in programma di lavorarci il prima possibile. Ma non ho idea di quando potrebbe uscire del nuovo materiale.

Che stile hanno? Sono simili agli altri pezzi del disco?
Abbastanza simili, direi. Gli arrangiamenti non ci convincevano, ma i pezzi sono validi e spero che gli troveremo spazio. Non so ancora come sarà il prossimo album, mi piacerebbe farne uno rock con suoni elettronici tipo quelli dei Suicide, che sono da sempre uno dei miei gruppi preferiti. O magari anche un disco house non sarebbe male, una cosa con la cassa dritta tipo “tunz tunz”!

Oppure potreste fare un album reggae, visto che lo ascoltate spesso…
Giusto! Ne parlo da anni di questa cosa, ma nessuno mi ha ancora dato retta.

Che rapporto avete con Duluth, la vostra città d’origine?
Duluth è isolata, molto a nord e molto fredda. Il lago Superiore è così grande che l’orizzonte scompare, è come stare di fronte all’oceano. Ti senti lontano dal resto del mondo. Forse è per questo che Bob Dylan si trasferì a Minneapolis e poi a New York.

Hai mai incontrato Bob Dylan?
Ho lavorato un paio di volte nel backstage dei suoi concerti a Duluth. Ma non gli ho mai parlato. Era abbastanza inavvicinabile, ovviamente. Nessuno parla con Bob Dylan, mai.

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