Il Primavera sound ha rischiato, e ha vinto
Quest’anno il Primavera sound ha deciso di cambiare le carte in tavola. Quando a dicembre il festival catalano ha annunciato la line up dell’edizione 2019, formata al 50 per cento da donne, sempre più aperta verso generi come il rap e la musica latina e presentata con un video che sembrava uno spot dell’Adidas, sui social network ci sono stati elogi ma anche alcune critiche. Diversi appassionati storici si chiedevano dove fosse finito quell’immaginario indie che ha fatto le fortune del festival fino a oggi.
Facevano bene a lamentarsi? A conti fatti, no. Il Primavera sound del 2019, che si è tenuto a Barcellona dal 30 maggio al 1 giugno, è stato uno dei migliori degli ultimi anni, con un’offerta musicale eclettica, in grado di accontentare praticamente tutti i gusti e che somiglia sempre di più a un ipertesto da navigare, un’utopia musicale diventata realtà.
Del resto il 2019, come recitava il video di presentazione, è l’anno del New normal, quello in cui finalmente nell’industria culturale è diventato centrale il dibattito sulla parità tra i generi, in cui sono “cadute la barriere” e in cui è finita “la dittatura del buon gusto”. Sono frasi a effetto, chiaramente, buone per uno spot. Ma dopo essere stati a Barcellona in questi giorni non si può negare che il Primavera e il suo pubblico abbiano dato una lezione di contemporaneità che non è facile trovare altrove.
In quel grande luna park musicale che si crea ogni anno al Parc del Fòrum, alla periferia della città, la musica nera si è imposta definitivamente come il genere di riferimento (un processo in atto da anni, in realtà) e ha tolto spazio al rock e all’indie, che però sono stati comunque discretamente rappresentati. Sui palchi principali hanno fatto capolino generi come l’urbano (uno stile che unisce rap e reggaeton), con concerti come quello delle star colombiane Kali Uchis (una bella sorpresa) e J Balvin (meno divertente delle attese).
I concerti migliori (perlomeno tra quelli che ho visto, seguire tutto al Primavera, si sa, è impossibile) sono stati proprio quelli di tre donne: Erykah Badu, folle e sciamanica veterana del neo soul, ha tenuto in pugno un grande palco come se suonasse in un club, regalando momenti di contagiosa improvvisazione e omaggiando gli Outkast con una splendida versione di Liberation; Janelle Monáe (nel video qui sopra) ha messo in piedi uno spettacolo pop tanto divertente quanto ricco di contenuti politici e sociali, passando da una citazione di Prince a un attacco a Donald Trump; Rosalía, star locale del pop flamenco ormai non più tanto locale, ha infiammato il pubblico spagnolo e ha confermato di essere una solida realtà della musica globale. Ma è andata bene anche con gli australiani Tame Impala, che il 31 maggio hanno radunato una folla da stadio.
Dentro al programma del Primavera, come al solito, si nascondono nicchie di grande qualità: quest’anno per esempio c’è stato tanto spazio per il rap britannico, soprattutto sui palchi più piccoli. Slowthai, nuova stella del grime, si è presentato alle quattro di notte del 1 giugno non proprio sobrissimo e ha deluso rispetto al suo grandioso disco, scappando dietro le quinte nel bel mezzo del concerto, probabilmente per vomitare, ma era comunque da vedere. La londinese Little Simz (nel video qui sopra), che si è esibita al piccolissimo Seat village (tutti i palchi ormai sono sponsorizzati, a proposito di nuova normalità) ed è la mia personale sorpresa del festival.
C’è stato spazio anche per la nostalgia, a partire da vecchie glorie del pop sofisticato come gli Stereolab (non sono riuscito a vederli, ma persone di cui mi fido me ne hanno parlato bene), da reduci del rock anni novanta come i Primal Scream (in ottima forma, con una scaletta piena di singoli) o dal rap old school di Nas, autore di un grande concerto il 30 giugno su un palco Ray Ban pienissimo di gente.
A livello di pubblico, le cose sono andate più o meno come l’anno scorso: più di 220mila presenze durante tutto il festival, anche se la sera di giovedì è stata al di sotto delle aspettative con 53mila persone. A guardarsi in giro, però, si è visto un pubblico più vario, più creativo nelle acconciature e nel modo di vestirsi.
L’altra novità è che il Primavera, in occasione del ventennale che ricorrerà l’anno prossimo, ha deciso di allargarsi: il 19 e 20 settembre 2020 organizzerà un festival allo State historic park di Los Angeles, del quale non si conosce ancora il programma. Un ulteriore azzardo sicuramente, che sarà in parte finanziato da un fondo d’investimento statunitense e potrebbe aprire le porte verso un nuovo mercato. Ci sarà inoltre il Primavera Weekender, che si terrà a novembre a Benidorm, in Costa Blanca, e ovviamente quello tradizionale, dal 4 al 6 giugno a Barcellona. Alla conferenza stampa finale il direttore Gabi Ruiz ha dichiarato che la prossima di Barcellona sarà un’edizione “celebrativa” della storia del festival, che cercherà di mettere d’accordo il pubblico storico con quello nuovo. Il primo nome annunciato sono i Pavement, che si riuniranno per due date esclusive a Barcellona e a Porto. Ma sul New normal non si torna indietro: il festival vuole continuare a mantenere la parità tra uomini e donne nel programma.
E l’indie? E il rock? Spariranno? Sicuramente no, ma se è vero che in questi anni il Primavera sound è diventato un porto sicuro per band come gli Arcade Fire e i National o per nomi storici come Neil Young o i Cure, forse è arrivato il momento di fare altre scelte. Alcuni particolari, in questo senso, fanno riflettere. Poco prima del concerto di Erykah Badu, sul palco vicino, il Seat, stavano finendo di suonare gli Interpol, gruppo indie rock newyorchese che all’inizio degli anni duemila fece furore ma da diversi anni fatica a riproporre la magia degli esordi. Il confronto con Badu è stato impietoso. Nonostante lei sia più vecchia, è sembrata molto più contemporanea e interessante. Forse, semplicemente, nel 2019 l’indie dei maschi bianchi non merita più il monopolio del cartellone di un festival.