A Riyadh le riforme sono di cartapesta
Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha sorpreso molti quando, il 24 ottobre 2017, ha concesso un’intervista al Guardian per celebrare la futuristica città di Neom, un progetto del valore di 500 miliardi di dollari che sorgerà sul mar Rosso tra l’Arabia Saudita, l’Egitto e la Giordania. Per garantire il successo del programma Vision 2030, di cui Neom fa parte, ha annunciato anche importanti riforme economiche e sociali. “Restituirò l’Arabia Saudita all’islam moderato”, ha promesso.
Salman ha fatto appello alla comunità internazionale affinché contribuisca a rendere l’Arabia Saudita una società di nuovo aperta, come se nella sua storia recente il regno lo sia mai stato. Al principe sembrano sfuggire alcuni aspetti importanti sia dell’islam moderato sia delle basi su cui si fonda una società aperta. Di fatto il regime saudita è sempre stato, e continua a essere, un fermo oppositore di entrambe le cose.
Negli ultimi ottant’anni, il regime si è basato su interpretazioni radicali dell’islam per addomesticare, controllare e sottomettere una popolazione araba molto diversificata. Per la prima volta nella storia una tradizione religiosa radicale, il wahabismo, è diventa religione di stato, sostenuta dalla spada e dai petrodollari. Storicamente, interpretazioni radicali dell’islam sopravvivevano solo nei deserti e nelle montagne distanti e isolate del mondo musulmano, dove questi movimenti venivano espulsi. Invece in Arabia Saudita il wahabismo ha resistito dalla metà del seicento a oggi. La variegata popolazione saudita è stata sottomessa in nome di un dio rappresentato come una divinità potente, adirata e spietata. Gli interpreti della sua parola sono diventati notabili di stato, un’alta casta sacerdotale con poteri di scomunicare intere comunità e singoli individui.
Il principe ha in mente una teologia monarchica che criminalizzi la critica, il dissenso e perfino l’attivismo pacifico
Non è chiaro come il regime potrà attuare una vera riforma religiosa, soprattutto se si tiene conto del fatto che molti attivisti, religiosi, professionisti e perfino poeti, non tutti radicali o oppositori della nuova visione di Salman, sono stati messi in carcere nell’ultima ondata di arresti.
Per potersi affermare, una riforma religiosa deve nascere da un dibattito interno ai circoli islamici ed essere del tutto libera dal controllo dello stato. La teologia della liberazione non è mai nata nelle corti di monarchi e principini dispotici. Ma il principe ha in mente qualcos’altro: una teologia monarchica che criminalizzi la critica, il dissenso e perfino l’attivismo pacifico.
L’islam ha una sua specificità, che consiste soprattutto nella sua capacità di riformarsi da solo. Le sue molteplici scuole di giurisprudenza, che danno forma all’interpretazione della sharia; i ricchissimi testi che si offrono all’ijtihad, il processo di deduzione delle leggi; e la tradizione del kalam, ossia il dibattito nei circoli di studiosi: sotto il regime degli Al Saud tutto questo è scomparso. Il risultato finale è l’imposizione di un’unica interpretazione dell’islam con lo scopo di preservare la monarchia assoluta. Il principe sembra sostenere un islam politicamente oppressivo coperto da una patina liberale che accetta la musica pop e il ballo.
Questo islam moderato prevede l’abolizione della pena di morte, la messa al bando della poligamia, la possibilità di un dibattito religioso sull’ereditarietà del potere, la natura del governo islamico e l’illegittimità della monarchia nell’islam? Permette alla società civile e ai sindacati di fiorire e affermarsi come versioni moderne delle antiche gilde islamiche? Questo progetto di islam moderato significa vera consultazione, un’assemblea nazionale eletta, un governo rappresentativo? Assolutamente no. L’islam moderato del principe è un progetto ben preciso in cui le voci dissidenti vengono messe a tacere, gli attivisti finiscono in carcere e gli avversari sono ridotti al silenzio.
Ultimamente la nuova religione consente alle donne di guidare, magari addirittura di guidare fino in prigione nel caso in cui dovessero contestare le politiche economiche o il programma sociale del regime. E dovrebbero festeggiare visto che potranno ballare per strada e stare insieme agli uomini in pubblico. Questa riforma è ritenuta essenziale per la rinascita economica e per un’economia basata sulla tecnologia che somiglia a Disneyland. Il robot Sofia, l’ultima novità nel repertorio della promessa economia dei gadget, è oggi cittadina saudita, un simbolo dei drastici cambiamenti che attendono i rinati sauditi moderati. Sofia non è obbligata a indossare il velo come dovevano fare fino a poco tempo fa le bambole di plastica e i manichini senza testa nei negozi di moda. In futuro il regime potrebbe prendere in considerazione l’ipotesi di trasformare i cittadini sauditi in robot che non fanno domande, che appoggiano e apprezzano volentieri e senza opporre resistenza non solo il cosiddetto islam moderato ma anche la nuova Disneyland promessa.
Un’utopia promessa
Open society, la società aperta, è un’altra utopia con cui il principe vorrebbe sostituire la vecchia utopia islamica fondata sulle interpretazioni. Ma una società aperta dovrebbe essere una democrazia compiuta, in cui diritti civili e politici sono salvaguardati. Finora invece il regime ha dimostrato che l’ultima cosa che desidera è una società aperta.
L’Arabia Saudita è effettivamente aperta al capitale internazionale che può salvarla dai pericoli della dipendenza da un unico prodotto, il petrolio, soggetto a fluttuazioni di prezzo. È anche aperta alle aziende internazionali desiderose di aprire bottega nel regno. I beni di consumo inondano i mercati con vaghe promesse di insegnare alle donne l’arte del trucco e di creare così nuove opportunità di lavoro. Tuttavia una società aperta non è certo l’obiettivo del programma Vision 2030 o della riforma dell’islam.
Se non darà voce al popolo, l’Arabia Saudita resterà una società chiusa in cui lo stato controlla la religione, un vecchio progetto che ha rovinato l’islam e lo ha trasformato in uno strumento autoritario, rovinando la reputazione dell’islam e dei musulmani.
La comunità internazionale sta come un mendicante davanti ai cancelli del palazzo, in attesa di altri annunci da cui poter trarre benefici. Le aziende dovrebbero adottare un comportamento responsabile e insistere su una vera apertura, invece di accontentarsi di quella falsa promessa dal principe. Il loro ambiente di lavoro sarebbe di sicuro migliore se nel regno fossero rispettati i diritti umani e le norme del buongoverno, o addirittura forme rudimentali di democrazia. Invece, in condizioni di repressione e opacità le aziende e i loro dipendenti saranno a rischio.
Nel breve periodo gli affari potranno anche apparire rosei in una dittatura, ma alla lunga si tratta di un’utopia insostenibile deturpata dalla repressione. Ricordate che nella terra in cui non vige lo stato di diritto ma il volere del principe potreste essere sbattuti fuori in qualsiasi momento.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Madawi al Rasheed è una studiosa saudita che insegna a Londra. È stata al festival di Internazionale a Ferrara il 6 ottobre con Hana al Khamri, Omaima al Najjar e Francesca Caferri.