C’è stato un momento, mercoledì 20 luglio, nel quale la gravità della crisi politica che in quel momento stava travolgendo il governo guidato da Mario Draghi si è manifestata in tutta la sua ampiezza. È accaduto attorno alle 16, quando l’agenzia di stampa Ansa ha diffuso la notizia secondo cui il presidente della repubblica Sergio Mattarella aveva avviato “consultazioni telefoniche sentendo i leader della maggioranza”.
La gravità non era tanto nella crisi politica in atto, conclamata da tempo e in attesa soltanto di una proclamazione formale, quanto in un intervento che – con un governo che in quel momento ancora aveva la fiducia del parlamento – finiva per evidenziare drammaticamente l’incapacità dei partiti di trovare uno sbocco a una crisi da loro stessi avviata e nutrita. Ma, soprattutto, la pubblicità ricevuta dall’intervento del capo dello stato in quelle particolari circostanze dava la sensazione di un sostanziale commissariamento del parlamento, oltre che dell’intero sistema politico.
Non stupisce che si sia arrivati a tanto. “Il teatro dell’assurdo”, aveva titolato Avvenire, quotidiano della Conferenza episcopale italiana, il 15 luglio scorso, all’indomani dell’apertura politica della crisi. E davvero un titolo migliore sarebbe stato difficile da immaginare, considerato che in quel momento il presidente del consiglio Mario Draghi aveva annunciato le proprie dimissioni, nonostante avesse appena incassato la fiducia dalla propria maggioranza, pur senza la partecipazione del Movimento 5 stelle, il quale però aveva spiegato di voler restare al governo. Era quella l’ultima fibrillazione di un M5s che, come la Lega di Matteo Salvini, era, sì, in maggioranza ma si comportava già da tempo come fosse in campagna elettorale. Le dimissioni di Draghi in quella occasione non sono state accolte da Mattarella, che lo ha invitato a portare la crisi in parlamento.
Una giornata surreale
Si è arrivati così a mercoledì 20, quando in senato si è vissuta una nuova giornata surreale. Draghi per la seconda volta in pochi giorni ha annunciato le dimissioni, dopo aver ottenuto per la seconda volta in pochi giorni la fiducia del parlamento. Questa volta però anche Lega e Forza Italia hanno fatto mancare il proprio sostegno, pur senza votare no. E così Draghi è nuovamente andato al Quirinale per rassegnare di nuovo le proprie dimissioni, pur avendo incassato la fiducia dalla maggioranza. Questa volta le dimissioni sono state accolte da Mattarella.
A quel punto, numeri a parte, la legislatura era politicamente esaurita. Era emersa in modo inequivocabile la distanza politica, già presente da tempo ma ormai difficilmente recuperabile, tra le forze politiche di ispirazione populista presenti in maggioranza e il governo che quella maggioranza sosteneva. Mario Draghi ne aveva già preso atto nei giorni scorsi quando, dopo il non-voto e le non-dimissioni del Movimento 5 stelle del 14 luglio, aveva spiegato ai ministri riuniti in serata a Palazzo Chigi che “le votazioni di oggi in parlamento sono un fatto molto significativo dal punto di vista politico. La maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto questo governo dalla sua creazione non c’è più. È venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo”. E questa è rimasta la sua posizione fino alla fine.
Le camere sono poi state sciolte nel pomeriggio del 21 luglio, dopo che Mario Draghi in mattinata aveva informato anche la camera dei deputati della propria decisione. Le elezioni politiche si terranno il prossimo 25 settembre.
Nell’annunciare lo scioglimento del parlamento, il presidente Sergio Mattarella ha spiegato che la fase che il paese sta attraversando non consente pause negli interventi per contrastare le emergenze in atto, ricordando i tanti adempimenti ancora in attesa in parlamento. Infine, ha significativamente concluso: “Per queste ragioni mi auguro che, pur nell’intensa, e a volte acuta, dialettica della campagna elettorale, vi sia, da parte di tutti, un contributo costruttivo, riguardo agli aspetti che ho indicato, nell’interesse superiore dell’Italia”.
Ex banchiere centrale europeo, personalità che da sempre gode di grande prestigio internazionale, Mario Draghi era stato chiamato alla guida del governo da Mattarella un anno e mezzo fa, in un momento molto difficile della storia del paese, per tenere i conti a posto e affrontare l’emergenza sanitaria dovuta al covid-19, l’emergenza sociale e quella più recente provocata successivamente dalla guerra in Ucraina. E invece si è trovato a dover fare i conti soprattutto con un quadro politico da decenni strutturalmente deteriorato, e che è stato la vera causa del suo addio.
Tentazioni populiste
Che le forze politiche vivano una fase di difficoltà – una fase lunghissima peraltro, e corrispondente agli anni della seconda repubblica – non è più neanche una notizia. C’è stato, negli ultimi trent’anni, un sostanziale disarmo ideale, sin da quando i vecchi partiti popolari sono scomparsi, sostituiti in fretta da organizzazioni molto più simili a comitati elettorali, raccolti attorno alle figure dei propri leader carismatici.
Ciò che si è prodotto è uno scenario nel quale è divenuta centrale la gestione del potere di per sé, senza più la guida di idee che non fossero l’interesse personale o del gruppo di appartenenza. E questo spiega anche, tra le altre cose, la scomparsa dei diritti sociali dal dibattito pubblico il quale, d’altra parte, ha assunto sempre più le sembianze di una campagna elettorale permanente.
Nel sostanziale vuoto politico che questo sistema ha prodotto, l’incapacità di dare risposte alla società e ai cittadini ha favorito l’affermazione progressiva di posizioni di natura populista. Negli ultimi anni queste posizioni hanno conquistato quote molto significative di elettorato.
L’arrivo di Draghi non ha fermato questo processo che anzi ha finito per travolgerlo. Un presidente degli consiglio che si è dimostrato politicamente debole, nonostante il ruolo di garanzia svolto da Mattarella. Chiamato a palazzo Chigi per tenere a posto i conti e affrontare le tre emergenze di questi anni, ma anche per provare a sterilizzare le spinte populiste più radicali, alla fine è parso anche lui manifestare atteggiamenti di natura populista, come è sembrato evidente in alcuni passaggi del discorso pronunciato in senato il 20 luglio e che, per certi aspetti – e soprattutto nel richiamo al popolo come fonte di legittimazione diretta del leader – ha ricordato quello che Silvio Berlusconi tenne alla camera nel 1994, poco prima della caduta del suo primo governo a causa delle fibrillazioni con l’allora alleato Umberto Bossi.
Fu in quel momento, con l’affermazione politica del rapporto diretto ed esclusivo tra leader e popolo e la contemporanea distorsione delle regole della democrazia parlamentare, che anche simbolicamente si aprirono le porte al populismo nel sistema politico dell’Italia repubblicana. In questi decenni, quelle pulsioni sono state nutrite, spesso anche soltanto per banale insipienza della classe politica.
Lo dimostra il dibattito politico di questi anni, tutto ripiegato su tattiche e alleanze, senza nessuno sbocco ideale, senza un orizzonte culturale chiaro, senza che quel dibattito possa davvero definirsi politico, poiché l’obiettivo di ogni movimento pare sia sempre stato il potere, e niente più di quello. La sensazione è che il 20 luglio scorso, con la fine di quella che passerà alla storia come la legislatura più schiettamente populista della storia italiana, si sia chiusa una fase, ma non un ciclo storico.
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