Ha detto Silvio Berlusconi (Forza Italia) che senza di lui non ci sarebbe mai stata neanche Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia). Non lo ha detto così bruscamente, certo. Ha spiegato che “se oggi per la prima volta al governo del paese, per decisione degli elettori, c’è una esponente che viene dalla storia della destra italiana, questo è possibile perché 28 anni fa è nata una coalizione plurale nella quale la destra e il centro insieme hanno saputo esprimere un progetto democratico di governo per il nostro paese”. Ma, insomma, tutti hanno capito cosa volesse dire.
L’occasione per rivendicare il proprio peso nella storia della destra, e quindi anche nelle cose di oggi, è arrivata con il discorso tenuto in senato il 26 ottobre, poco prima che l’aula votasse la fiducia al governo guidato proprio da Meloni. Il giorno prima la fiducia l’avevano votata anche i deputati. Il nuovo governo ha potuto così iniziare a lavorare, anche se ci sono ancora da nominare sottosegretari e viceministri. Sarà probabilmente questione di pochi giorni, ma è un altro passaggio che metterà a dura prova la compattezza di una maggioranza apparsa finora tutt’altro che solida. E proprio Berlusconi nella settimana precedente era stato all’origine di molte tensioni, piuttosto irritato dall’esito delle trattative per la distribuzione dei ministeri.
Avevano fatto molta impressione alcuni suoi giudizi molto pesanti su Meloni. E un grande sconcerto, in questo caso anche all’estero, avevano provocato certe sue parole, poi smentite, sui suoi rapporti di vicinanza con Vladimir Putin, mentre Meloni era impegnata a dimostrare che il nuovo governo da lei guidato avrebbe garantito la collocazione atlantista dell’Italia.
Ma non è soltanto la distribuzione di qualche poltrona di sottogoverno ad agitare i rapporti tra i due. Né, come è parso a molti, le frizioni si possono tutte ricondurre all’insofferenza di Berlusconi nei confronti di una donna più giovane, che lui considera una propria creatura e che però si trova adesso in posizione di forza. Al di là di tutto questo, c’è infatti una questione più ampia che riguarda la possibile chiusura di una fase storica della quale il leader di Forza Italia è stato una figura centrale. Berlusconi sa che questo governo si prepara a consegnare alla storia non tanto la sua persona quanto invece ciò che lui ha rappresentato per trent’anni. Sa insomma che l’orizzonte politico e culturale che lui aveva imposto alcuni decenni fa – incentrato su un liberalismo pop intriso di populismo e spregiudicatezza, libertario nella teoria ma conservatore nella pratica – sta per essere archiviato da una destra che Meloni ha intenzione di rifondare in chiave molto più radicale e ideologica.
Lo ha detto lei stessa rivolgendosi ai parlamentari: “Nel mio discorso ho scelto di disegnare l’Italia che vogliamo costruire”. E si è trattato di un discorso forte, identitario, a tratti fazioso, alla camera come in senato. La visione della quale Meloni ha parlato ha una forte caratterizzazione reazionaria. C’è molto di certi vecchi slogan, come il “dio, patria e famiglia” da lei rivendicato anche in campagna elettorale. E c’è la tendenza a considerare le questioni sociali soprattutto come questioni di ordine pubblico. Ne sono esempi la risposta data alle questioni aperte dalle migrazioni, o l’idea di giustizia che sembra esaurirsi nella pena o nella costruzione di nuove carceri.
L’impalcatura che regge questa visione è fornita tra l’altro anche da un bagaglio ideologico novecentesco, che era evidente già prima, e che lo è diventato ancor di più durante il dibattito sulla fiducia dei giorni scorsi. A emergere chiaramente è stato però anche l’errore di chi, come il centrosinistra, aveva immaginato di poter inchiodare Meloni a un passato, quello del fascismo storico che in realtà Meloni non rivendica, almeno non in modo manifesto. Il richiamo è invece ad altro, per esempio, ai “ragazzi innocenti” che “nel nome dell’antifascismo militante […] venivano uccisi a colpi di chiave inglese”, come ha detto in parlamento. Lo stesso richiamo era presente nel discorso pronunciato il 26 settembre, subito dopo la vittoria elettorale che Meloni ha dedicato “a tutte le persone che non ci sono più e che meritavano di vedere questa nottata”.
Punti da chiarire
Qualcosa del genere Meloni ha scritto anche nel suo manifesto politico, Io sono Giorgia (Rizzoli 2021): “Conosco ogni nome e ogni storia dei giovani sacrificati negli anni settanta sull’altare dell’antifascismo”. E l’evocazione di queste vicende le è servito anche per liquidare il proprio rapporto col fascismo. Ha infatti spiegato che, se la violenza degli anni settanta ha nutrito la sua “ribellione nei confronti dell’antifascismo politico”, in ciò si esaurisce però anche il suo rapporto col fascismo. Qualcosa di simile ha poi ripetuto intervenendo alla camera martedì 25 settembre, quando ha affermato di non aver “mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici. Per nessun regime, fascismo compreso”. Ma non è apparsa del tutto convincente.
Sono molti infatti i punti da chiarire nel suo rapporto col regime e l’ideologia fascista. Nel suo discorso alla camera, per esempio, non ha mai parlato di resistenza, preferendo un riferimento al risorgimento. E su questo si sono concentrate molte delle critiche che la presidente del consiglio ha ricevuto da politici e osservatori. Tuttavia, se è vero che le ambiguità restano in piedi, il punto è però che l’orizzonte culturale e politico che intende affermare trova la sua radice soprattutto nella storia della destra missina dal 1945 in poi, non in quella del ventennio mussoliniano. E il suo obiettivo sembra più quello di scardinare e disinnescare l’antifascismo, per mandarlo in archivio, che quello di celebrare il fascismo.
Emerge in realtà un tratto in comune tra Berlusconi e Meloni, ed è il populismo. Quel tratto, per essere più precisi, sta nel recupero in chiave nazionalista e reazionaria da parte della presidente del consiglio di quella forma di populismo che proprio Berlusconi inaugurò nel 1994. C’è un passaggio dell’intervento di Meloni alla camera in cui questo è particolarmente evidente. Nel chiedere la fiducia, infatti, la leader di FdI ha affermato che la democrazia “vuole nel popolo, e solo nel popolo, il titolare della sovranità”. Le cose, per la verità, non stanno proprio così, almeno stando a quello che si può leggere nella costituzione. L’articolo 1 stabilisce infatti che “la sovranità appartiene al popolo”, ma afferma anche che il popolo “la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione”. E i limiti e le forme sono quelli di una democrazia parlamentare, e dunque di una democrazia nella quale è il parlamento che concede la fiducia al governo, non il popolo direttamente.
Non è la prima volta che Giorgia Meloni prova a riscrivere a modo suo la costituzione. Lo stesso in passato aveva più volte fatto anche Berlusconi. Nel 1994, poco prima di dimettersi da presidente del consiglio a causa delle tensioni nella maggioranza di centrodestra, tenne un discorso alla camera per dire che “una sola maggioranza è legittimata dagli elettori”, e che “se questa maggioranza si sfalda, occorre decisamente e serenamente tornare a chiedere il parere degli elettori”. Fu un passaggio decisivo nella storia della seconda repubblica, poiché proprio nello stabilire un rapporto diretto tra leader e popolo, e nell’esclusione del parlamento da quella relazione, si aprì al populismo la strada verso il potere.
Ma le similitudini tra Meloni e Berlusconi finiscono qui. Rispetto a Berlusconi, Meloni guarda altrove. Il modello sembra quello delle cosiddette democrazie illiberali o autoritarie, sperimentato da politici come l’ungherese Viktor Orbán. Uno degli strumenti che potrebbero tornare utili per affermare un simile modello è proprio quello rappresentato dalla revisione in chiave presidenzialista della democrazia parlamentare italiana. Fratelli d’Italia lo chiede da sempre e Meloni lo ha ribadito nel suo discorso in parlamento, parlando di “una riforma che consenta di passare da una democrazia interloquente ad una democrazia decidente”. E se questo è l’obiettivo, per avvicinarsi può tornare utile anche una riscrittura della storia come quella proposta in senato da Meloni che, senza richiamarsi chiaramente al fascismo storico, archivia comunque l’antifascismo, scardinando il suo rapporto con la repubblica attraverso la sostituzione della resistenza con il risorgimento tra i valori fondanti della comunità nazionale.
Si tratta evidentemente di una destra molto diversa da quella incarnata per trent’anni da Silvio Berlusconi. Lo è per contenuto, struttura e obiettivi. Berlusconi questo lo sa. Sa che il suo mondo rischia di essere consegnato alla storia. Ed è soprattutto per questo che ha provato a mettere il suo sigillo sulla coalizione che si prepara a governare, indicandola come una evoluzione di quella da lui costruita nel 1994, dopo aver sdoganato l’anno prima la destra guidata da Gianfranco Fini.
Meloni l’ha ascoltato, ma poi ha tirato dritto. Ritiene che la sua forza stia nelle idee politiche e nella legittimazione ricevuta dal voto popolare, non nell’eventuale garanzia che altri potrebbero offrire per renderla presentabile, come invece accadde alla destra di Fini. Mostra insomma di sentirsi forte. Si vedrà se lo sarà abbastanza per mandare davvero in archivio il trentennio berlusconiano.
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