A un certo punto del suo intervento alla camera, il deputato di Fratelli d’Italia Tommaso Foti si è rivolto direttamente a Giorgia Meloni e ha rivendicato con una certa emozione il fatto che “anche una ragazza della Garbatella può diventare presidente del consiglio. Con la destra!”. Si era nel pieno del dibattito sulla fiducia, e Foti si è espresso come se stesse parlando di un luogo marginale da cui è difficile riscattarsi, figurarsi diventare capo del governo. Lo ha detto trasformando quel quartiere di Roma in un messaggio politico che ha molto a che fare con la forte voglia di rivalsa che anima la destra radicale ora al potere.
La Garbatella, va detto, da questo punto di vista funziona bene, essendo ancora oggi un quartiere dallo spirito schiettamente popolare. Certo, la Garbatella in cui è cresciuta Meloni non è la stessa di oggi. All’epoca, per esempio, non c’erano i tanti locali che hanno aperto negli ultimi anni, anche se la zona ha sempre avuto negozi e attività. E le belle case popolari costruite a partire dagli anni venti del novecento non erano ambite come lo sono oggi. Ma, insomma, è difficile descrivere la Garbatella come una periferia abbandonata, ieri come oggi. La sua piazza principale si trova a tre chilometri da piazza del Campidoglio. Molto poco, considerando le distanze romane. E, ieri come oggi, non era un brutto posto dove crescere. Per farsene un’idea, basta guardare il primo episodio di Caro diario, nel quale Nanni Moretti gironzola in vespa per una Roma estiva e deserta, finendo anche alla Garbatella. Il film uscì nel 1993. In quegli stessi mesi una Giorgia Meloni quindicenne bussava al portone del Fronte della gioventù del suo quartiere, in via Guendalina Borghese, per cominciare la sua avventura politica.
Tutto ciò potrà apparire marginale, perfino irrilevante. E forse è così. Tuttavia è anche attraverso questo genere di forzature che si costruisce, anche al di là delle intenzioni di chi ne è autore, il contesto nel quale può radicarsi un disegno politico, lo stesso al quale anche Giorgia Meloni ha fatto più volte riferimento: quello del riscatto, appunto. “Rappresento ciò che gli inglesi chiamerebbero l’underdog, lo sfavorito, che per affermarsi deve stravolgere tutti i pronostici”, ha detto per esempio nel suo intervento alla camera, lo scorso 25 ottobre.
In quella occasione ha attirato l’attenzione soprattutto su due questioni: l’essere donna e il provenire “da un’area culturale che è stata spesso confinata ai margini della repubblica”. Questo secondo elemento trova sempre molto spazio nei suoi discorsi. Tuttavia, come nelle forzature sulla Garbatella, anche in questo caso la realtà sembra in parte diversa da come a volte è stata rappresentata.
Una storia lunghissima
L’insediamento di Meloni alla guida del governo arriva infatti a coronamento di una storia ormai lunghissima. Già nel 1996, infatti, Meloni è responsabile nazionale di Azione studentesca. Nel 1998 è eletta consigliera provinciale a Roma con Alleanza nazionale (An). Nel 2001 è nominata coordinatrice di Azione giovani, di cui diventa presidente nel 2004. Nel 2006 viene eletta deputata con An. E in parlamento verrà eletta altre quattro volte: nel 2008 con il Popolo della libertà (Pdl), nel 2013, nel 2018 e nel 2022 con Fratelli d’Italia (FdI). Inoltre, tra il 2006 e il 2008 è vicepresidente della camera dei deputati. E nella legislatura successiva è ministra della gioventù nel governo guidato da Silvio Berlusconi. Dal 2014 è presidente di FdI.
Nella vicenda che l’ha condotta alla presidenza del consiglio dei ministri, insomma, l’unico elemento di novità sembrerebbe il suo essere la prima donna a occupare quel posto. Quanto al riscatto della propria parte politica, la destra al potere ci era già arrivata da tempo, dopo lo sdoganamento del vecchio Movimento sociale italiano del quale era segretario Gianfranco Fini, avvenuto per iniziativa di Silvio Berlusconi nel 1993. E di quella storia Meloni è pienamente protagonista. Questa feroce voglia di riscatto, insomma, appare davvero fuori tempo massimo, oltre che pericolosa.
Volendo essere pignoli, peraltro, di nuovo c’è anche il fatto che per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana alla guida del governo siede una persona con un rapporto quanto meno opaco con la tradizione fascista. Su questo, una parte della stampa in campagna elettorale ha insistito molto. Lo ha fatto anche il centrosinistra, sbagliando però completamente bersaglio, e dimostrando anche di non aver capito molto della cultura politica rappresentata da Meloni, che ha poco a che fare con il fascismo classico e molto con la destra del dopoguerra. È però vero che Meloni sul fascismo non si è mai espressa con chiarezza. Fini ne parlò a suo tempo come del “male assoluto”, anche se in un primo momento si riferiva soltanto alle leggi razziali volute nel 1938 da Benito Mussolini. Meloni invece ha spesso liquidato la questione quasi senza entrare nel merito.
Nel discorso con il quale ha chiesto la fiducia del parlamento, per esempio, si è limitata a spiegare di non aver “mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici. Per nessun regime, fascismo compreso”. Tutto qui. E poi si è lanciata in una lunga riflessione sugli anni della violenza politica, “quando nel nome dell’antifascismo militante ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di chiave inglese”, aggiungendo che “quella lunga stagione di lutti ha perpetuato l’odio della guerra civile e allontanato una pacificazione nazionale che proprio la destra democratica italiana, più di ogni altro, da sempre auspica”. Non una parola sulla violenza neofascista di quegli stessi anni. Non sulle tante stragi che hanno insanguinato l’Italia. E nulla sulla resistenza, da cui la repubblica è nata.
Questa riscrittura della storia, che disinvoltamente sposta pesi e rovescia responsabilità, ormai comincia a essere tutto sommato accolta come se si trattasse di un particolare di poco conto o di impuntature perdonabili. Attorno a Meloni sembra insomma essersi creata una sorta di sospensione del giudizio.
Nel valutare questa destra al potere sembra esserci una certa leggerezza
Si tratta di una condizione che anche altri neo presidenti del consiglio hanno sperimentato. E anzi in molti casi in passato c’è stata una vera e propria apertura di credito da parte di opinione pubblica e informazione. L’arrivo di Mario Draghi alla guida del governo, per esempio, venne salutato a reti e giornali unificati come l’avvento del salvatore della patria. Ma l’abbondante ricorso a toni enfatici a ben vedere tradiva una resa generale del sistema politico e dell’informazione, entrambi da tempo in profonda crisi. Con Meloni la situazione è diversa, e tuttavia la sospensione del giudizio che normalmente accompagna i primi passi di chi si insedia al potere pare assumere adesso sempre di più le caratteristiche della sospensione dell’incredulità, ossia di quel meccanismo che, per esempio, durante una rappresentazione teatrale fa sì che gli spettatori considerino alcuni fatti che accadono in scena come reali, anche se nella realtà non potrebbero esserlo.
Nel valutare questa destra al potere sembra esserci insomma una certa leggerezza. Perfino la presenza al governo di personaggi molto controversi, e in passato considerati dai giornali come degli impresentabili, pare adesso tutto sommato una circostanza trascurabile, che può essere trattata come curiosità o folklore. Tra i tanti casi, c’è quello di Galeazzo Bignami, appena nominato viceministro alle infrastrutture, che alcuni anni fa si fece fotografare in divisa da nazista, con una svastica al braccio, fatto per cui Bignami anche in questi giorni si è dovuto scusare. E c’è anche il caso del leghista Claudio Durigon, attuale sottosegretario al lavoro, che nel 2021, quando era sottosegretario all’economia, propose di intitolare un parco di Latina al fratello di Benito Mussolini, cancellando l’intitolazione a Falcone e Borsellino.
Certo, l’informazione queste cose le ha raccontate ma, appunto, senza scomporsi più di tanto. Nulla comunque rispetto a quello che per anni si è scritto per esempio su parlamentari, ministri e sottosegretari del Movimento 5 stelle sui quali in molti casi si è andati molto oltre il giudizio politico, per colpire direttamente la persona. E spesso lo si è fatto con toni addirittura classisti, che vengono invece per lo più risparmiati agli esponenti della destra radicale. La sensazione, alla fine, è che la novità politica rappresentata dal M5s non sia mai stata presa sul serio dagli osservatori, mentre il disegno nazionalista e reazionario di cui è portatrice la destra radicale sia valutato con maggior attenzione. Forse perché si presenta come un disegno di rottura sul piano politico, ma si pone in continuità su quello del potere.
All’indomani dell’elezione di due politici come Ignazio La Russa e Lorenzo Fontana alla presidenza del senato e della camera, per esempio, il problema per il Corriere della Sera era che “al momento, l’effetto che le scelte del centrodestra ha avuto è stato di radicalizzare il Pd e alimentare ulteriormente l’estremismo del Movimento 5 stelle”. E i toni sono rimasti questi, fino a oggi.
D’altra parte, il quotidiano milanese è espressione degli interessi della grande borghesia settentrionale e non stupisce che, da quel punto di vista, tenti di normalizzare una cultura come quella che in questo momento esprime il potere politico. O che cerchi di instradarla sulla via del conservatorismo per sottrarla alla tentazione reazionaria. O che comunque tenti di separarne il destino da esperienze radicali come quella di Vox in Spagna, o nazionaliste come quella di Viktor Orbán in Ungheria. È quanto emerge da vari articoli, tra i quali un editoriale di Maurizio Ferrera nel quale si osserva, in estrema sintesi, che una Meloni saldamente conservatrice favorirebbe la stabilità all’intero quadro politico italiano. Ma il Corriere non è solo.
Rimozione della memoria
Se i quotidiani più vicini alla destra hanno spesso fatto ricorso a titoli espliciti – “Sistemati gli sballati ora tocca ai fannulloni”, strillava la prima pagina del Giornale all’indomani dell’introduzione delle nuove norme sull’ordine pubblico – anche su Repubblica nelle ultime settimane sono comparsi articoli dai quali è emersa una certa fascinazione della sinistra per il modello culturale rappresentato da Giorgia Meloni. E anche per la sua capacità di leadership. E di fatto anche questi articoli contribuiscono alla costruzione di un contesto che alla stessa Meloni certo non può dispiacere.
È il caso di una serie di interventi di intellettuali sulla crisi della sinistra come quello dello scrittore Emanuele Trevi che ha affermato di sognare una Meloni di sinistra. O di quello dello psicanalista Massimo Recalcati che, scrivendo a proposito del lessico necessario per rifondare la sinistra, è partito dalla triade reazionaria dio, patria e famiglia, provando a declinarla diversamente. Ma è il caso anche della celebrazione firmata da Corrado Augias degli “eroi traditi di El Alamein”, ossia della “sconfitta con onore dei parà della Folgore mandati al massacro dal regime fascista di Benito Mussolini”. Con il particolare non trascurabile che quei soldati erano in Africa per combattere contro gli inglesi, e sotto il comando dei nazisti, nostri alleati.
“L’errore della sinistra nel dopoguerra”, ha scritto Augias, “è stato di lasciarne la memoria alla retorica neofascista”. L’errore per la verità a qualcuno pare ancora quello di essersi alleati con i nazisti. E su questo evidentemente si dovrebbe ancora riflettere. Come, a questo punto, sembra più che mai opportuna una riflessione anche sul fatto che Meloni proprio alla vicenda di el Alamein, al risorgimento e alle trincee della prima guerra mondiale – “Lì dove il sangue degli italiani si mischiò diventando un unico indissolubile”, ha scritto nel suo manifesto politico, Io sono Giorgia (Rizzoli 2021) – attribuisce un forte significato per la costruzione dello spirito nazionale italiano. E si dovrà riflettere anche sul fatto che proprio sulla rimozione della memoria della resistenza e dell’antifascismo, sostituite dalla riscoperta del risorgimento, si fonda il tentativo di affermazione culturale e politico della destra radicale adesso al potere.
Quasi in solitudine, di recente Marco Travaglio ha rilevato questa tendenza. E ne ha scritto con i consueti, discutibili toni sul Fatto Quotidiano: “Speriamo che Giorgia Meloni sappia nuotare, vista la cascata di bava e saliva che la inonda e che affogherebbe pure Gregorio Paltrinieri”. Peccato che proprio il giorno dopo anche il suo giornale si è unito alle lodi, con un articolo di Carlo Freccero. “Giorgia Meloni ha fatto uno dei più efficaci discorsi di insediamento che io ricordi”, ha scritto infatti l’ex dirigente della Rai, pur specificando di non condividerne il contenuto.
Dopo i primi, sconcertanti provvedimenti del governo su sicurezza e ordine pubblico, forse qualcosa sta cambiando. Nelle ore successive al varo di quei decreti si sono aggiunte anche le preoccupanti parole affidate dal ministro dell’interno Matteo Piantedosi al Corriere della Sera: “Questo governo ha ottenuto un forte mandato elettorale dai cittadini su temi precisi. So cosa devo fare. La tutela della sicurezza è una priorità per la coalizione che ha vinto le scorse elezioni”. Si vedrà se parole e atti così inquietanti richiameranno informazione, intellettuali e opposizioni alla realtà, o se invece la sospensione dell’incredulità durerà ancora a lungo.
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