Questo articolo è uscito a dicembre 2022 su Parole, un numero di Internazionale Extra che raccoglie reportage, foto e fumetti sull’Italia. Si può comprare sul sito di Internazionale o, in digitale, sull’app di Internazionale.
A volte le parole che colpiscono di più sono quelle che mancano. Nel discorso pronunciato in parlamento da Giorgia Meloni per chiedere la fiducia, per esempio, manca “femminicidio”. Compare invece la parola “violenza”, ma appena un paio di volte, e solo per denunciare quella di tipo politico. Sono altre le parole issate come bandiere dalla destra radicale ora al potere. “Nazione”, per esempio, che da quelle parti è parola molto amata.
“Se saremo chiamati a governare questa nazione lo faremo per tutti”, ha detto Meloni dopo la vittoria elettorale, prima di ricevere l’incarico dal presidente della repubblica. E “nazione”, in questa accezione, ricorre una quindicina di volte anche nel discorso con il quale ha chiesto la fiducia. “Patria”, invece, si incontra solo una volta, in un passaggio fortemente retorico rivolto alle forze dell’ordine. La parola “stato” è usata per lo più per indicare l’organizzazione della burocrazia e il suo rapporto con i cittadini, o in relazione al tema della sicurezza.
Con “nazione” in italiano si intende un insieme di persone che hanno in comune tradizioni storiche, lingua, cultura e origine, e che sentono di appartenere a una comunità. Non è indispensabile che quella comunità sia anche organizzata in una struttura politica. Nell’idea di patria è invece implicito il legame tra un popolo e la terra sulla quale quel popolo vive, e anche un legame sentimentale con la comunità che ha vissuto su quella terra nel passato. Nel vocabolario della destra, ultimamente “nazione” sembra aver soppiantato “patria”. Forse è accaduto perché “nazione” indica un sistema culturale uniforme che trova il proprio confine più nell’identità di una comunità che nella terra sulla quale quella comunità abita, e si presta meglio come presidio identitario. O forse “patria” ha esaurito in parte la propria funzione simbolica di raccordo tra passato e presente.
E ora che si è insediata al potere, la destra trova in “nazione” un termine che esprime una volontà di potenza proiettata verso il futuro, mitigata in parte dalla scelta di usare la parola “patrioti” invece del più inquietante “nazionalisti”. L’uso che Meloni fa di “patriota” in realtà non è recente, ma questa “ora risulta una delle parole-emblema di Fratelli d’Italia, e della sua leader”, spiega Michele Cortelazzo sul magazine dedicato alla lingua italiana di Treccani. “Il recupero di questa parola”, aggiunge, “non è che un tassello di una tendenza più generale alla ripresa di nozioni rifiutate (o semplicemente non fatte proprie) dagli altri partiti, per cercare di costituire un patrimonio lessicale capace di caratterizzare in modo univoco il partito”. Insomma, la scelta delle parole fa parte di una strategia politica.
Mantenere il consenso
Le parole servono a costruire un’egemonia culturale che a sua volta serve ad affermare un’ideologia e quindi a realizzare un progetto politico. Così, anche la decisione di cambiare il nome di alcuni ministeri – per esempio stabilire che quello dell’istruzione sarà anche quello del merito – è un modo di intervenire sulla realtà con le parole, per dare un messaggio e cominciare a cambiarla. Inoltre insistere sulle questioni identitarie può essere utile per mantenere il consenso dell’elettorato, che rischia invece di essere scontentato dalle scelte sulle grandi questioni economiche, che non potranno discostarsi troppo da quelle prese dal governo precedente. Così anche il nome di un ministero può trasformarsi in un manifesto politico.
Sono molte peraltro le parole usate dalla destra in questo modo. Tra queste c’è anche “devianze”. L’aveva usata Meloni in campagna elettorale, volendo affermare il ruolo dello sport contro “le devianze dei giovani”. In un post di Fratelli d’Italia pubblicato su Twitter, tra le devianze erano però annoverate droga, alcolismo, tabagismo, ludopatia, autolesionismo, obesità, anoressia, bullismo, babygang, hikikomori. Ne era seguita una polemica piuttosto vivace a causa dell’incongruenza di quell’elenco, per esempio per la presenza dell’obesità e dell’anoressia. Si era parlato di toni da ventennio e di indifferenza verso il dolore di chi soffre. Meloni aveva provato a spiegare quella posizione, senza risultare convincente. Sul tema era poi tornata alla camera, includendo tra le devianze giovanili solo droga, alcolismo e criminalità.
Il fatto è che la scelta delle parole e l’uso che se ne fa sono atti politici. E la leader di FdI usa spesso un linguaggio molto franco anche quando scrive. È il caso di tante affermazioni contenute nel suo manifesto politico, Io sono Giorgia (Rizzoli 2021), come per esempio questa: “Quando la sinistra ti liscia il pelo e si complimenta con te per le tue posizioni ‘presentabili’, vuol dire che stai sbagliando qualcosa. È la ragione per la quale io ci tengo a non piacere a quella gente. La loro ostilità è per me come una stella polare che mi conferma che la rotta è quella giusta”. È un modo di esprimersi che, se utilizzato dal potere, assume una connotazione inquietante. D’altra parte, il vocabolario della destra si manifesta spesso con toni aspri e recriminatori, perfino rabbiosi, che servono a vestire un orizzonte politicamente conservatore o addirittura reazionario, poiché tende alla restaurazione di un genere di ordine che si credeva superato. A suggerirlo sono ancora una volta il linguaggio e certi termini significativamente ripescati dal passato, come appunto “devianze”.
Quel vocabolario racconta inoltre che fragilità individuali, povertà, migrazioni, minoranze e ogni questione sociale vengono misurate da questa destra col metro dell’ordine pubblico, e che la soluzione viene immaginata solo in termini di sicurezza. Così, l’idea di giustizia sembra esaurirsi soltanto nella certezza della pena, o nella costruzione di nuove carceri. E non sorprende se il ministro dell’interno Matteo Piantedosi a inizio novembre, a proposito di alcuni migranti salvati nel Mediterraneo dalla nave di un’organizzazione non governativa, li ha definiti “il resto del carico che le dovesse residuare”. Né stupisce se il primo atto di questo governo è consistito in un decreto legge per vietare i cosiddetti rave party, che però è applicabile anche alle manifestazioni di dissenso politico, con il rischio che questo possa essere limitato a discrezione delle autorità.
Il senso che hanno per la destra tutte queste parole – e alcune come “patriota” forse più di altre – si precisa ancora meglio se si considera come siano tutte collegate attraverso un’altra parola: “riscatto”. Giorgia Meloni l’ha usata per esempio nel discorso pronunciato la sera del 25 settembre, subito dopo l’annuncio della vittoria alle elezioni: “Per tante persone questa è sicuramente una notte di riscatto”. E l’aveva usata anche nell’ultima intervista televisiva prima della chiusura della campagna elettorale, ospite del Tg2 dell’allora direttore Gennaro Sangiuliano, diventato pochi giorni dopo ministro della cultura nel governo da lei stessa guidato. Una sua vittoria, aveva detto in quella occasione, sarebbe stata “un riscatto per un sacco di gente che in questa nazione ha dovuto per decenni abbassare la testa”. A confermare il carattere identitario di questa parola, c’è il contestuale ricordo di quelli che, nel discorso alla camera, Meloni ha definito “ragazzi innocenti” che “nel nome dell’antifascismo militante” venivano “uccisi a colpi di chiave inglese”.
Conti con il passato
Il vocabolario di Fratelli d’Italia suggerisce che in quel partito persista tuttora una percezione di sé che è debitrice degli anni settanta e ottanta del novecento, anni di forte conflittualità politica e nei quali la destra radicale era tenuta al margine della scena. Si tratta però di un sentimento che sopravvive evidentemente fuori tempo massimo, considerato che la destra è ora al potere, e al potere era già arrivata nel 1994 sotto la guida di Gianfranco Fini, mentre la stessa Meloni era già stata vicepresidente della camera nel 2006, e due anni dopo era stata anche ministra. E, allora, se il vocabolario di Fratelli d’Italia è ancora così fortemente debitore degli anni settanta, la sensazione è che la presa del potere sia avvenuta senza che in quel partito si siano fatti fino in fondo i conti con il passato.
Gli avversari di Fratelli d’Italia in campagna elettorale avevano provato a sfruttare questa debolezza. Ma hanno completamente sbagliato bersaglio, avendo accusato Meloni di coltivare un legame con il fascismo storico. Meloni invece il fascismo non lo rivendica affatto, poiché trova un riferimento ideale soprattutto nella destra radicale del dopoguerra. E, anzi, “fascismo” è in un certo senso una parola che manca nel suo vocabolario, sebbene siano ancora molte le ambiguità sul tema. La condanna del regime e della cultura fascista in generale, infatti, non è mai esplicita, neppure nell’uso delle parole. Intervenendo alla camera il 25 ottobre ha detto di non aver “mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici; per nessun regime, fascismo compreso”. Nella sua autobiografia afferma di “non avere il culto del fascismo”. Ed è un modo piuttosto involuto di esprimersi, se davvero si intende fare quella chiarezza che invece non manca quando parla di antifascismo, per attaccarlo.
Tutti questi termini formano un’ideologia che ha come orizzonte la trasformazione della democrazia parlamentare
Nel chiedere la fiducia al parlamento, per esempio, è mancato qualsiasi riferimento alla resistenza, da cui peraltro la repubblica è nata, mentre erano presenti vari riferimenti al risorgimento, che – a proposito del recupero in chiave reazionaria di alcune parole da tempo meno frequentate – nelle intenzioni della destra pare destinato a tornare centrale come momento fondativo del sentimento di unità nazionale, insieme alle trincee della prima guerra mondiale. “Lì dove il sangue degli italiani si mischiò diventando un unico indissolubile”, ha scritto Meloni in Io sono Giorgia. Peraltro in quelle stesse pagine al risorgimento e alla prima guerra mondiale aggiunge la battaglia di el Alamein, glorificando i soldati italiani che combattevano contro gli inglesi in Africa, sotto il comando del nostro alleato nazista, a conferma delle sue ambiguità sul fascismo.
Questo rapporto così disinvolto con la storia svolge una funzione precisa nel disegno politico di Fratelli d’Italia. Per comprenderlo può essere utile partire da un’altra parola sempre molto presente nel vocabolario della destra: “popolo”. Nel suo discorso alla camera del 25 ottobre Meloni ha ringraziato gli elettori che si erano recati alle urne “consentendo la piena realizzazione del percorso democratico, che vuole nel popolo, e solo nel popolo, il titolare della sovranità”. Tuttavia non è così. L’articolo 1 della costituzione aggiunge infatti che il popolo esercita la sovranità “nelle forme e nei limiti” della costituzione stessa, che sono quelli di una democrazia parlamentare, in cui il parlamento ha una funzione tecnica, quella di fare le leggi, ma svolge anche un ruolo politico. Quest’ultimo trova il suo momento più significativo nella concessione della fiducia al governo. Omettere questo passaggio, e sostenere che la sovranità appartenga soltanto al popolo, consente di porre le basi per la costruzione di un rapporto diretto tra leader e popolo, e di escludere il parlamento.
In questa idea, percorsa da una venatura di antiparlamentarismo, sta uno dei tratti culturali più caratteristici della cosiddetta seconda repubblica. In essa ha trovato nutrimento il moderno populismo italiano, affermatosi con il Movimento 5 stelle e la Lega di Matteo Salvini. Ma è con la comparsa di Silvio Berlusconi sulla scena politica che comincia questo processo. A Berlusconi, in realtà, l’affermazione di una relazione diretta con il popolo serviva soprattutto per reclamare come suoi i voti dell’intera coalizione di centrodestra, e riaffermare così la propria leadership. Per Meloni è invece la premessa teorica per arrivare alla revisione in chiave presidenzialista della nostra democrazia parlamentare.
Un vocabolario diverso
Si tratta di un tema fortemente identitario. Non a caso “presidenzialismo” è un’altra parola centrale nel vocabolario della destra. Ed è proprio qui che potrebbe giocare un ruolo decisivo il tentativo di questo schieramento di disinnescare i valori che sono alla base della nostra repubblica, come l’antifascismo. Lo si è visto per esempio nel discorso tenuto da Meloni alla camera per chiedere la fiducia, con il tacere sulla resistenza e l’insistere sul risorgimento. Tutto considerato, infatti, più che la difesa del fascismo storico, l’intenzione sembra quella di smantellare e rimuovere l’antifascismo. “Neutralizzata nella sua cultura di riferimento”, ha scritto Ezio Mauro su Repubblica, “la costituzione verrà cambiata attraverso il cavallo di Troia del presidenzialismo, strumento perfetto per la predicazione populista”. L’obiettivo della destra, ha aggiunto Mauro, “è un cambio di sistema”. Il modello potrebbe essere quello delle democrazie illiberali o neo autoritarie, come l’Ungheria di Viktor Orbán.
Tutte queste parole – riscatto, patria, popolo, presidenzialismo e nazione – formano insomma un’ideologia che ha come orizzonte la trasformazione della democrazia parlamentare. La ricomparsa di un sistema di idee messe al servizio di un obiettivo politico costituisce una novità non da poco, dopo un trentennio in cui tutti i partiti hanno fatto a meno delle idee, sostituendole con la comunicazione. Ma, come detto, questo vocabolario serve anche ad affermare un’egemonia culturale. E della nascente egemonia culturale di questa destra radicale sembrano vittime anche gli intellettuali vicini al centrosinistra. Basti pensare allo scrittore Emanuele Trevi che, intervenendo nel dibattito aperto da Repubblica con una serie di articoli sulle idee per rifondare la sinistra, ha affermato di sognare “una Giorgia Meloni di sinistra”. O allo psicanalista Massimo Recalcati che, in quella stessa sede, è partito dalla triade “dio, patria e famiglia”, ossia da un caposaldo della cultura reazionaria ripescato dal passato dalla stessa Meloni e rivendicato anche in campagna elettorale.
Eppure, nelle parole di Meloni, come ha osservato la filosofa Giorgia Serughetti sul quotidiano Domani, patrioti sono “non solo coloro che hanno a cuore il destino della nazione e ne difendono i confini, ma anche i paladini dei valori religiosi, comunitari e familiari”. La triade “dio, patria e famiglia” che nutre la cultura della nazione, per come la intende la destra, è insomma un muro che esclude gli altri. Se a sinistra continuassero a mancare le parole, invece di andarle a cercare nel vocabolario della destra sarebbe meglio rivolgersi altrove. E un buon punto di partenza resta sempre la costituzione della repubblica. L’articolo 3 dispone che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Tutto sommato, non c’è bisogno d’altro. ◆
Questo articolo è uscito a dicembre 2022 su Parole, un numero di Internazionale Extra che raccoglie reportage, foto e fumetti sull’Italia. Si può comprare sul sito di Internazionale o, in digitale, sull’app di Internazionale.
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