Gennaio 2021, Concordia Sagittaria, in provincia di Venezia: Victoria Osagie, 35 anni, viene accoltellata dal marito davanti agli occhi dei tre figli di nove, sei e due anni. Agosto 2021, Monterotondo Marittimo, 60 chilometri a nord di Grosseto: Silvia Manetti, 45 anni, vedova e madre di due ragazzi di 10 e 14 anni, è uccisa dal suo nuovo compagno. Dicembre 2021, periferia di Catania: Giovanna Cantarero, 27 anni, è assassinata a colpi di pistola dall’uomo con cui aveva una relazione, lasciando una figlia di quattro anni.
Secondo i dati Eures, oggi in Italia sono circa duemila i bambini e i ragazzi rimasti senza madre a causa dei femminicidi avvenuti tra il 2009 e il 2021. Nell’80 per cento dei casi a uccidere è stato il padre e, quasi una volta su due, i figli hanno assistito al fatto. I minorenni sono stati affidati ai parenti più prossimi (di solito ai nonni materni), oppure ai servizi sociali. Non ci sono però procedure d’intervento omogenee sul territorio nazionale e un protocollo comune per sostenere gli orfani e le famiglie affidatarie, che spesso vengono lasciate sole ad affrontare situazioni molto complesse e delicate.
Gli orfani seguiti dal progetto possono usufruire di un sostegno psicologico, assistenza medica e legale, borse di studio e aiuto all’inserimento nel mondo del lavoro
È per questo che la fondazione Con i bambini ha lanciato “A braccia aperte”, la prima iniziativa in Italia che realizza una presa in carico a tutto campo degli orfani di femminicidio e delle loro famiglie affidatarie, prevedendo un intervento tempestivo nei momenti immediatamente successivi all’episodio violento.
Grazie a un finanziamento di 10 milioni di euro sono partiti quattro progetti, che saranno attivi in quattro aree geografiche per quattro anni: “Orphan of femicide invisible victim” nel nordest, “Sos - sostegno orfani speciali” nel nordovest, “Airone” al centro e “Respiro” al sud e nelle isole. In ciascuna area è stata istituita una rete territoriale che mette insieme enti pubblici, centri antiviolenza, associazioni, cooperative, università, centri specialistici, di ricerca e di formazione professionale, per un totale di 90 soggetti in tutta Italia.
Per prima cosa si comincia da una mappatura degli orfani già presenti sul territorio, che poi viene aggiornata con i nuovi casi. “In Italia manca un osservatorio nazionale sul femminicidio che produca dati completi e pubblici”, spiega Anna Pramstrahler della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, che sta lavorando al primo Atlante italiano dei femminicidi. “Il nostro metodo di ricerca si basa sulle notizie che escono sui giornali e sui siti: certamente i numeri sono parziali, perché alcuni casi sfuggono alla cronaca. Avere dati affidabili è una condizione necessaria per riuscire a comprendere il fenomeno ed elaborare risposte adeguate”.
Sostegno psicologico
Gli orfani seguiti dal progetto possono usufruire di un sostegno psicologico, assistenza medica e legale, borse di studio e aiuto all’inserimento nel mondo del lavoro. “Aiuteremo anche le famiglie affidatarie, sostenendole nelle loro esigenze materiali e nella complessa relazione con il bambino”, spiega Simona Rotondi, responsabile dell’iniziativa per la fondazione Con i bambini. “Inoltre, organizzeremo percorsi di formazione per medici, avvocati, insegnanti, assistenti sociali, per prepararli ad affrontare questi casi, ancora troppo poco conosciuti. Infine istituiremo osservatori regionali e pubblicheremo linee guida nazionali per la tutela degli orfani di femminicidio e delle famiglie, sperando che questo contribuisca a uniformare protocolli che ancora sono disomogenei”.
Norme locali
È la legge 4 del 2018 che stabilisce quali tutele spettano agli orfani a causa di crimini domestici: tra le altre cose è previsto il diritto alla liquidazione del danno, alla pensione di reversibilità e all’assegnazione di alloggi di edilizia pubblica, la facoltà di cambiare il cognome e la possibilità di accedere a un Fondo di solidarietà che finanzia percorsi di studio, formazione e inserimento lavorativo. Per le famiglie affidatarie c’è un sostegno economico di 300 euro al mese per ogni minore a carico. Ma nella pratica questa norma è ancora poco conosciuta e attuata.
“Io con lui già da piccolina non mi sentivo bene, ma custodivo la speranza che le cose potessero cambiare. Quando avevo dieci, forse dodici anni, ho iniziato a rendermi conto di quello che succedeva a casa: ogni sera un litigio, la mamma doveva andare al lavoro, pulire, mettergli il piatto davanti. Andando a casa delle mie amiche, capivo che le cose non erano come da noi”. Carola (il nome è di fantasia) ha perso la madre quando era alle superiori. Insieme a lei c’erano i suoi due fratelli maggiori, che l’hanno presa in affidamento: sono stati loro a organizzare il funerale.
Le loro testimonianze sono state raccolte dal progetto europeo “Switch off”, che dal 2014 al 2016 ha analizzato alcuni casi di orfani di femminicidio in tre Paesi (Italia, Lituania e Cipro) per elaborare risposte adeguate. Risposte che però faticano ancora ad arrivare: all’inizio i tre hanno ricevuto dallo stato un contributo economico, che però poi si è interrotto. Nel frattempo il padre è stato condannato, ma loro non hanno potuto costituirsi parte civile per problemi economici. Oggi vivono all’estero: “Per come funzionano le cose in Italia, in pochi anni lui sarà fuori. E noi in questo poco tempo cosa saremo riusciti a fare delle nostre vite?”.
Per ottenere i benefici previsti dalla legge, le procedure sono complesse e la documentazione da presentare è molta. “Per questo le famiglie hanno bisogno di essere guidate”, dice Sara Pretalli, che aveva partecipato al progetto “Switch off” e che oggi è responsabile del programma “Orphan of femicide invisible victim”. “La normativa è importante, ma c’è ancora molto da fare: negli anni passati abbiamo assistito a situazioni limite in cui l’autore del femminicidio riceveva comunque l’eredità o la pensione di reversibilità della vittima. Abbiamo incontrato bambini orfani che non sapevano com’era morta la madre, a cui era stato impedito di partecipare al funerale o di conservarne un ricordo. Altri invece, pur avendo assistito al delitto, non avevano ricevuto una spiegazione chiara di quello che era successo”. Ci sono stati anche minori costretti a visitare il padre in carcere. Molti hanno paura di quando finirà il periodo di detenzione, perché temono ripercussioni e violenze.
“Non dimentichiamo che a volte anche i bambini e le bambine sono vittime dei femminicidi insieme alle loro madri”, conclude Pretalli. “Quello che serve a questi ragazzi è una possibilità di rielaborare il trauma senza sentirsi giudicati per quello che provano: per questo dobbiamo creare un sistema riparativo, che non li lasci soli e costruisca attorno a loro una comunità accogliente e responsabilizzata”.
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