Questo articolo è uscito il 6 novembre 2021 a pagina 12 del numero 1 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.
Pensava di guadagnarsi da vivere facendo lo skipper nel Mediterraneo, accompagnando i turisti in crociera. Invece è stato arrestato appena arrivato in Italia per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, dopo aver traghettato nel paese 24 migranti siriani e afgani a bordo di una barca a vela di dieci metri partita da Çeşme, in Turchia. Vasilij (nome di fantasia per tutelarne l’identità), 49 anni, è originario di Dnepr, in Ucraina. Ha scontato due anni e quattro mesi di carcere in Italia ed è uno dei 438 ucraini arrestati dal 2014 in Grecia e in Italia per aver trasportato illegalmente migranti, secondo l’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne Frontex.
Incontro Vasilij a Palermo e mi racconta che è finito a fare lo scafista tra la Turchia e l’Italia senza rendersene conto. “Me ne sono andato dall’Ucraina nel 2014 perché mi erano arrivate due convocazioni del governo per andare al fronte e combattere contro la Russia. Non volevo morire in guerra: all’epoca facevo il fotografo e lo skipper in Crimea, così con un amico che aveva una barca a vela siamo partiti da Sebastopoli, diretti in Turchia. Cercavamo lavoro e siamo stati contattati da tre ucraini che insieme a due turchi ci hanno detto che avevano dei lavori da proporci: piccoli giri in barca nel Mediterraneo per i turisti”.
Prima di essere arrestato, il marinaio ucraino non conosceva il redditizio traffico di esseri umani nel Mediterraneo
Solo quando è arrivato in Turchia, Vasilij ha scoperto che doveva trasportare migranti senza documenti: “Ci hanno detto che ci avrebbero pagato 500 euro a persona e che rischiavamo al massimo di essere espulsi dal paese”. Ma una volta arrivati in Italia, il marinaio ucraino e il comandante dell’imbarcazione, che ne era anche il proprietario, sono stati arrestati e incriminati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, un reato per cui sono previste pene fino a cinque anni di reclusione e 15mila euro di multa.
Una rete internazionale
“È stato un incubo, ci siamo ritrovati in carcere, senza capire la lingua, senza sapere neppure bene di cosa fossimo accusati. Inoltre non abbiamo mai visto i soldi che ci avevano promesso”, racconta Vasilij, che una volta uscito di prigione si è trasferito in Sicilia, dove lavora come receptionist e come skipper, soprattutto nella stagione estiva. Prima di essere coinvolto, il marinaio non conosceva il redditizio traffico di esseri umani che negli ultimi anni ha fatto arrivare migliaia di migranti a bordo di barche a vela o di yacht che attraccano sulle coste greche e italiane.
Un giro d’affari gestito da una rete criminale internazionale formata da ucraini e turchi che attira, spesso anche con l’inganno, marinai ucraini per condurre le barche a vela: sono più sicure dei gommoni e danno meno nell’occhio rispetto ai pescherecci, perciò riescono ad arrivare a destinazione senza troppi problemi. Ma anche se centinaia di scafisti sono stati arrestati in Turchia, Grecia e Italia, le autorità europee non hanno identificato i responsabili dell’organizzazione criminale, che porta in Europa migranti siriani, iracheni, egiziani, palestinesi e sempre più spesso afgani in fuga dal regime dei taliban.
L’ultima imbarcazione a vela partita dalla Turchia con 75 persone a bordo è arrivata in Calabria il 4 novembre, nonostante le condizioni meteorologiche avverse. La barca si era incagliata davanti alla spiaggia della Canella, nel crotonese, con il mare forza quattro e onde alte. I soccorritori sono dovuti entrare in acqua e fare una catena umana per mettere in salvo i passeggeri, perché l’imbarcazione si era inclinata e rischiava di ribaltarsi. “La rotta che collega la Turchia alla Calabria è antica”, spiega Vittorio Zito, sindaco di Roccella Jonica, un paese di 6.500 abitanti in provincia di Reggio Calabria, che nell’ultimo anno ha visto triplicare gli sbarchi rispetto allo stesso periodo del 2020. “Gli arrivi in Calabria rappresentano il 15 per cento del totale del 2021”, afferma l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr).
“Il numero di persone che arrivano via mare in Italia è ben al di sotto dei picchi registrati tra il 2014 e il 2017”, scrive l’agenzia dell’Onu. Tuttavia, tra agosto e ottobre c’è stato un aumento progressivo degli arrivi, che potrebbe indicare “una nuova tendenza al rialzo”.
Una vecchia rotta
In un angolo del porto delle Grazie, l’attracco turistico della cittadina calabrese, si possono vedere tutte le barche a vela, i pescherecci e perfino un rimorchiatore, sequestrati dalle autorità negli ultimi mesi. “Erzurum”, è scritto in nero sul rimorchiatore rosso che porta il nome di una cittadina della Turchia. Nella stiva delle imbarcazioni e sul ponte sono rimasti i resti della traversata: giubbotti salvagente, avanzi di cibo, merendine, panini, bottiglie di acqua, scarpe, coperte.
“Durante la stagione estiva le barche a vela guidate dai marinai ucraini passano inosservate, perché sono simili alle decine di imbarcazioni che stazionano davanti alle nostre coste. Arrivano a destinazione senza dare troppo nell’occhio, con le persone nascoste nella stiva. Quest’anno sono arrivati 3.500 migranti a Roccella, l’anno scorso 1.080, nel 2019 erano stati 470”, continua il sindaco. Dei 53.275 migranti arrivati in Italia nel 2021, 7.900 sono sbarcati in Calabria, lungo una vecchia rotta dalla Turchia che si è riattivata negli ultimi anni. “C’è un detto secondo cui se da Izmir vai sempre dritto arrivi a Roccella Jonica. Ancora oggi i migranti dalle nostre parti li chiamiamo ‘i curdi’, perché i primi ad arrivare furono proprio i curdi in fuga dalle persecuzioni politiche negli anni novanta”, ricorda il sindaco della cittadina sulla costa ionica.
Ma il vero problema per Zito non è tanto l’aumento degli arrivi, quanto lo smantellamento del sistema di soccorso e prima accoglienza in Italia, cominciato nel 2017. Dal 2013 al 2017, racconta, la guardia di finanza e la guardia costiera soccorrevano al largo queste imbarcazioni, poi trasferivano i migranti su navi di soccorso più grandi, quindi li portavano nei porti attrezzati per lo sbarco, con il coordinamento del ministero dell’interno.
“Da quando la discussione sull’immigrazione è diventata ideologica, abbiamo cominciato a faticare come amministratori locali. Ci siamo trovati davanti a problemi di gestione, senza che ci fosse chiarezza sulle procedure e sui fondi disponibili. Ci siamo dovuti assumere responsabilità enormi per il bene delle persone”, continua. Anche secondo l’Unhcr, il vero problema è il sistema di accoglienza: “Il progressivo e costante aumento degli arrivi via mare in Calabria ha messo a dura prova il sistema di accoglienza locale, in particolare per quanto riguarda i minori non accompagnati e più in generale le persone con esigenze specifiche”.
L’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia di covid-19 ha reso ancora più complicate le procedure di accoglienza, prevedendo una quarantena di quindici giorni anche per i migranti che sono negativi al tampone effettuato all’arrivo. “Qui a Roccella abbiamo avuto il primo sbarco in Italia in epoca covid nell’estate del 2020, non c’è stata nessuna protesta anche se c’erano dei positivi tra i migranti”, racconta.
Per il sindaco la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato quando, il 20 ottobre, una settantina di migranti arrivati in porto hanno passato la notte sulla banchina, all’addiaccio, perché non c’erano posti disponibili dove svolgere le procedure per la prima accoglienza. “Non potevamo offrire neppure bagni chimici o servizi igienici, e questo è grave”, denuncia Zito. “È importante dare un’idea di discontinuità a queste persone che spesso arrivano da paesi in guerra o governati da regimi dittatoriali. Lasciarli in porto, all’addiaccio, senza bagni, non è un trattamento da paese civile”, continua.
La procedura sanitaria d’emergenza prevede che la quarantena per gli adulti si svolga nei covid hotel o a bordo delle navi quarantena, dei traghetti privati noleggiati dal ministero dell’interno a partire dalla primavera del 2020 e dati in gestione alla Croce rossa. Ma non ci sono navi per la quarantena in Calabria e i posti nei covid hotel sono limitati.
“Ci siamo trovati nel paradosso per cui gli afgani che sono arrivati con il ponte aereo in Italia ad agosto sono stati mandati nei covid hotel della Calabria a fare la quarantena, mentre gli afgani che arrivavano qui via mare non sapevamo dove mandarli”, racconta Zito. Alcuni sono stati trasferiti con dei pullman in Sicilia, per essere imbarcati sulle navi quarantena. Dopo la denuncia del sindaco, a inizio novembre il ministero dell’interno ha fatto costruire una tensostruttura nel porto di Roccella Jonica che può ospitare fino a 150 persone per un massimo di dieci ore. I minorenni arrivati nel borgo calabrese sono stati temporaneamente sistemati in una foresteria di proprietà della parrocchia e della Caritas: sono 37.
“È una situazione di emergenza, ma non è sostenibile a lungo, non ci sono spazi comuni per mangiare, abbiamo montato delle brandine”, dice Maria Paola Sorace, operatrice della cooperativa Pathos di Caulonia. “Se dovesse esserci uno sbarco in questo momento con molti minori, non saremmo in grado di affrontarlo. I centri di prima accoglienza sono al collasso e c’è bisogno di predisporre nuove strutture”. Arrivano soprattutto ragazzi egiziani tra i 12 e i 17 anni che viaggiano da soli, sono partiti dalla Turchia o da Tobruk, una città libica al confine con l’Egitto.
In fuga dall’Afghanistan
La rotta turca è molto più costosa di quella libica o quella tunisina, da cui proviene la maggior parte dei migranti arrivati in Italia. Attraversare il Mediterraneo dalla Turchia può costare dai quattromila ai diecimila dollari, ma è più sicuro rispetto agli altri percorsi. “Un viaggio in prima classe, rispetto a quelli dei gommoni o dei pescherecci”, spiegano gli operatori dell’accoglienza.
I migranti sono ammassati in dei centri di raccolta clandestini a Istanbul, poi trasferiti in auto o in pulmino nelle città lungo la costa, dove s’imbarcano. Tra loro ci sono sempre più spesso afgani come Khalil, 17 anni, originario di Ghazni, di etnia hazara, scappato dall’Afghanistan all’inizio di agosto, nei giorni in cui i taliban prendevano il potere nel paese.
“Per me non c’era un futuro, la mia comunità è perseguitata, i miei fratelli sono già in Europa e ho deciso di andarmene anche io”, dice il ragazzo, mentre mangia un piatto di pasta con le verdure che i volontari gli hanno appena portato. “Non voglio una vita bellissima, voglio una vita sicura”, continua. Ha pagato i trafficanti mille dollari per raggiungere la Turchia dall’Afghanistan e ne ha versati altri novemila per fare la traversata in barca.
“Mio padre ha un piccolo negozio di alimentari, ha venduto tutto quello che aveva per farmi partire”. Ha fatto quasi tutto il viaggio dall’Afghanistan alla Turchia a piedi, rischiando di essere arrestato dalle guardie di frontiera iraniane, turche o greche. Decine di testimonianze raccolte da organizzazioni internazionali e non governative denunciano pestaggi, maltrattamenti, abusi sessuali e furti compiuti dalle polizie di frontiera nella rotta che collega l’Afghanistan alla Grecia.
Zebiullah, 15 anni, amico di Khalil, ha sulle gambe le ferite delle percosse, a cui si aggiunge una grave infezione di scabbia che i volontari stanno provando a curare. “Siamo sopravvissuti a tutto questo, ora vogliamo solo lavorare e mandare dei soldi a casa”, dice Khalil, che appena arrivato in Italia ha voluto chiamare i suoi genitori per avvertirli che era ancora vivo. Non riesce a pensare alla madre, alla sua voce. Sta per parlare, ma poi ammutolisce. Dopo una pausa riprende: “Erano preoccupati per la mia vita, ma spero di poterli presto ripagare. Magari un giorno mi potranno raggiungere”.
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