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Milad, siriano e padre di quattro figlie, l’8 novembre del 2022 è stato costretto a tuffarsi nel porto di Catania. Si è gettato dalla nave umanitaria Geo Barents di Medici senza frontiere per protestare contro il confinamento che gli era stato imposto dal governo italiano. Secondo i medici dell’Ufficio di sanità marittima, aerea e di frontiera (Usmaf), che avevano condotto l’ispezione a bordo dopo l’attracco della nave, le sue condizioni di salute, infatti, non erano particolarmente critiche da richiedere lo sbarco e Milad era dovuto restare sul ponte della nave insieme ad altre 215 persone.
Tra le prime azioni del governo di destra guidato dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni c’è stato il tentativo di chiudere ulteriormente le frontiere, imponendo sbarchi selettivi, poi porti di sbarco sempre più lontani e nuovi divieti alle navi delle organizzazioni non governative che prestano soccorso lungo la rotta più pericolosa del mondo, quella del Mediterraneo centrale, che secondo l’agenzia di controllo esterno delle frontiere europee, Frontex, nel 2022 è stata anche la prima via d’ingresso in Europa per i migranti. Tendenza che si conferma anche nelle prime settimane del 2023.
Milad, un uomo di una certa età, capelli e baffi bianchi, era diventato un “carico residuale”, almeno secondo la definizione del ministro dell’interno Matteo Piantedosi, che con un decreto interministeriale il 4 novembre ha imposto alle navi umanitarie Humanity 1 e Geo Barents di sostare nel porto di Catania solo per il tempo necessario allo sbarco delle persone riconosciute come “fragili” dalle autorità sanitarie.
“Non voglio mentire e dire che sono malato”, ha affermato Milad in un video registrato dal senatore del Partito democratico Antonio Nicita sul molo di Catania. L’uomo si era seduto a terra, rifiutando di risalire a bordo, insieme a un altro compagno siriano, Youssuf. Quando ha chiesto di andare al bagno, le autorità gli hanno risposto che doveva salire sulla nave e dopo il suo rifiuto è stato lasciato per ore senza la possibilità di usare i servizi igienici. Milad ha spiegato al senatore Nicita di voler arrivare in Europa per consentire alle figlie di studiare. “Non ha mostrato i segni di tortura che pure aveva sul corpo, ma ha parlato continuamente del suo desiderio di far studiare le figlie”, conferma Nicita. “L’ho interpretato come un segno della sua grande dignità”.
Qualche ora dopo il tuffo di Milad, una nuova e lunga ispezione medica a bordo della Geo Barents ha disposto che nessuno dei naufraghi fosse da considerare “carico residuale”: erano persone in stato di necessità, tanti avevano malattie della pelle e presentavano condizioni psicologiche e fisiche terribili dopo la traversata. Alla fine sono tutti sbarcati dalla nave. Oltre al fatto che nel decreto Piantedosi non fossero indicati dei criteri sanitari per selezionare le persone, ai medici è apparso impossibile applicare una scala di vulnerabilità ai sopravvissuti di questa rotta, nella quale dal 2013 sono morte 25mila persone.
Tutte le persone soccorse in mare, infatti, devono essere portate in salvo a terra nel minor tempo possibile e a tutte deve essere garantita la possibilità di fare richiesta di asilo dopo lo sbarco: questo dicono le leggi nazionali e internazionali. Ma nonostante questo, dopo l’approvazione di un nuovo decreto anti-ong a fine dicembre, le navi sono costrette ad attraccare sempre più lontano dal luogo dove è avvenuto il salvataggio.
La storia di Milad, ritenuto troppo sano per essere creduto e accolto, è in qualche modo simile a quella di Josefa, una donna del Camerun soccorsa nelle acque internazionalidavanti alla Libia dalla nave dell’ong spagnola Open Arms nel luglio 2018. Josefa era stata abbandonata su un gommone distrutto dalla cosiddetta guardia costiera libica, insieme a un’altra donna e a un bambino, che nel frattempo, probabilmente per il freddo e per le ustioni provocate dal carburante del gommone, avevano perso la vita.
Quando è stata soccorsa, Josefa era in ipotermia, aveva passato troppe ore al freddo, attaccata a una tavola per non annegare. All’epoca il ministro dell’interno era Matteo Salvini e negò l’approdo alla nave umanitaria che trasportava la sopravvissuta e i due cadaveri. Mentre Josefa era in bilico tra la vita e la morte e non riusciva a muovere le gambe, un’ondata di tweet prodotti dalla galassia degli account dell’estrema destra la definì una “finta profuga”, perché in alcune foto (in realtà scattate all’arrivo nel porto di Palma di Maiorca, in Spagna) aveva le unghie laccate di rosso.
È un meccanismo che conoscono bene le donne vittime di violenza: quando denunciano i maltrattamenti sono spesso ritenute meno credibili se sono truccate, se sono troppo belle, se non piangono e non mostrano le ferite e i segni della violenza sul corpo. Lo stesso principio è applicato ai naufraghi: è “degno” di accoglienza chi risponde allo stereotipo della vittima, mostra le cicatrici e appare fragile. I sani non sono considerati meritevoli, e non lo sono neppure quelli che hanno sogni o desideri. Anzi questo è un segnale della loro pericolosità.
Matteo Piantedosi ha ripreso la campagna di criminalizzazione delle navi umanitarie esattamente dove l’aveva lasciata Salvini nel 2019. Ha accusato le navi di essere un “pull factor”, un fattore di attrazione, nonostante numerosi studi condotti da istituti di ricerca indipendenti e università internazionali (come la Goldsmiths di Londra) abbiano dimostrato la completa infondatezza di questa teoria.
Matteo Villa, ricercatore e data analyst dell’Ispi di Milano, ha raccolto tutti i dati delle partenze dal 2014 e ha mostrato che non c’è relazione tra la presenza delle navi delle ong in quel tratto di mare e le partenze dei migranti: secondo i numeri riferiti al periodo 1 gennaio-28 maggio 2021, nei giorni in cui non c’erano navi umanitarie sarebbero addirittura partite più persone (135) di quelle salpate nei giorni in cui le navi umanitarie erano presenti (125).
Un discorso che mistifica
Non solo. Parlando in un’informativa al senato e alla camera, lo stesso Piantedosi, già capo di gabinetto del ministro Salvini all’epoca dei porti chiusi, ha implicitamente ammesso che le navi umanitarie hanno ormai un ruolo non preponderante nei soccorsi in mare: nel 2022 hanno salvato 11mila persone, il 12 per cento delle 90mila che sono arrivate in Italia via mare nello stesso anno. La maggior parte di loro infatti è arrivata con imbarcazioni di legno e pescherecci, senza ricevere soccorso dalle navi umanitarie oppure con l’aiuto della guardia costiera italiana. Ora il tentativo dell’Italia è quello di fare pressione sull’Organizzazione marittima internazionale (Imo) per cambiare le linee guida nel caso di navi umanitarie con l’aiuto di Bruxelles. In questa direzione va anche la proposta della Commissione europea illustrata dalla commissaria europea agli affari interni Ylva Johansson il 21 novembre.
Dopo il fallimento del primo decreto Piantedosi, ne è stato approvato un altro, sul modello dei due sulla sicurezza di Salvini del 2018 e del 2019, che prevede multe e sequestri per le navi umanitarie, ostacolando i soccorsi e rendendo ancora più difficile e pericolosa la traversata.
Come è già accaduto, intorno alla complessa questione migratoria si costruisce un discorso che confonde e mistifica, trasforma le persone in numeri, disumanizzandole. “Non sono naufraghi, sono migranti”, ha commentato la presidente del consiglio Giorgia Meloni, definendo “bizzarra” la decisione dei medici di far scendere tutti i passeggeri rimasti a bordo delle navi umanitarie. La stessa Meloni ha chiamato le navi umanitarie “navi pirata”, sulla scia di quanto aveva detto l’ex ministro degli esteri Luigi Di Maio nel 2017 (quando era ancora parlamentare di opposizione) definendole “taxi del mare” e alludendo a una presunta collusione delle ong con i trafficanti di esseri umani, mai provata da nessuna indagine. La frontiera, quindi, oltre a essere fisica è anche simbolica ed è costruita dal linguaggio.
Nel 2001, nella prima campagna elettorale politica giocata sulla pelle degli stranieri, la parola d’ordine era stata “clandestini”. Erano i migranti con il permesso di soggiorno scaduto, e che non riuscivano a regolarizzare la loro condizione, a rappresentare il nemico simbolico della destra di allora, Alleanza nazionale e Lega nord. Quella condizione, la cosiddetta clandestinità, è diventata perfino un reato, presente ancora oggi nella legge del 2002 che regola l’immigrazione in Italia (la Bossi-Fini). Poi, intorno al 2013 la parola clandestino è stata definitivamente debellata (non senza una battaglia molto dura di cittadini e associazioni) ed è stata sostituita dal più neutro migranti, participio presente del verbo migrare.
Già nel 2015, nel pieno della cosiddetta crisi dei rifugiati, il canale panarabo Al Jazeera metteva in guardia dall’uso della parola migrante che di fatto era diventato “una categoria ombrello, uno strumento che disumanizza e serve a prendere le distanze dalle persone di cui si parla, un modo per dire essere umano di serie b”. All’epoca Al Jazeera aveva detto di voler chiamare rifugiati tutti i migranti, tutte le persone in movimento, al di là del loro status giuridico, per segnalarne la vulnerabilità. Perfino un termine neutro come migrante è diventato denigratorio e disumanizzante.
Il 9 novembre 2022 sono stati celebrati i 33 anni dalla caduta del muro di Berlino, ma in questo arco di tempo in Europa il numero dei muri si è moltiplicato. Gli ultimi paesi a costruirne uno sono stati la Polonia e la Lituania, e nell’Europa orientale si è innescata quasi una concorrenza. Varsavia ha eretto una barriera di 186 chilometri al confine con la Bielorussia con telecamere e rilevatori di movimento, per chiudere l’ingresso nell’Ue ai migranti spinti dal dittatore bielorusso Aleksandr Lukašenko verso il territorio polacco per metterne in difficoltà il governo. Il muro, alto più di cinque metri, è costato 351 milioni di euro. Subito dopo anche la Lituania ha fatto una cosa simile: alla fine di agosto è stata ultimata una barriera di filo spinato al confine con la Bielorussia lunga 502 chilometri e costata circa 150 milioni di euro.
Infine, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, a ottobre la Finlandia ha approvato la costruzione di una barriera di 1.340 chilometri al confine con la Russia, per contrastare l’arrivo dei russi in fuga dal paese e dalla coscrizione obbligatoria. La lunghezza complessiva dei muri costruiti o in costruzione sul continente è pari a 1.960 chilometri, più della distanza da un capo all’altro dell’Unione europea (cioè da Lisbona a Varsavia).
E in mare le cose non vanno meglio: la Grecia opera da tempo respingimenti verso la Turchia e l’Italia, che dal 2017 si è progressivamente ritirata dal soccorso, ha stretto un accordo con la Libia per fare i “respingimenti per procura” e ora si avvia di nuovo a chiudere i porti alle navi umanitarie, alzando il livello della ferocia politica e linguistica verso gli stranieri.
Noi e gli altri
La militarizzazione delle frontiere è l’espressione del ritorno dei nazionalismi in Europa, incarna materialmente il fantasma dell’identità nazionale, serve per fermare le persone, per creare immobilità, ma definisce anche una barriera simbolica: dice chi è l’altro, gli altri. Chi sta dall’altra parte è diverso, indesiderato, pericoloso, perfino non umano. Le frontiere individuano un noi che si contrappone agli altri, che spesso sono inferiorizzati. “Carico residuale” secondo Piantedosi.
Come ha spiegato l’antropologo iraniano Shahram Khosravi, nel suo libro Io sono confine (Elèuthera 2019), insieme alle “tecniche di frontiera finalizzate all’immobilità e al confinamento, esiste un secondo meccanismo di controllo della società che opera attraverso una continua mobilità forzata. Le persone sono costrette a un andirivieni infinito, non solo tra paesi, legislazioni, istituzioni, ma anche tra campi di accoglienza e campi di espulsione, tra richieste di asilo e ricorsi contro le deportazioni, tra riconoscimenti provvisori e ritorno alla clandestinità, tra un periodo di attesa e l’altro. È una circolarità perpetua in cui si vive in uno stato di ‘non arrivo’, di radicale precarietà, o per usare un’espressione dello psichiatra Frantz Fanon, di ‘ritardo’”.
Per uno dei più importanti teorici del postcolonialismo, il filosofo camerunense Achille Mbembe, più che di frontiere dovremmo parlare di un continuo “processo di costruzione delle frontiere” che di fatto produce la marginalizzazione e l’esclusione di alcuni gruppi di persone. “Certi spazi diventano inaccessibili per una parte della popolazione, così le loro vite sono giudicate non desiderabili e addirittura distrutte”, scrive Mbembe. Quelle vite minori diventano lo specchio e la misura di quanto le nostre vite invece siano desiderabili.
Dovremmo ricordare, tuttavia, che i muri non sono eterni: oggi a Berlino quello che resta del muro è diventato un museo e migliaia di turisti ogni anno camminano sulla muraglia cinese facendosi dei selfie. Tutti i muri, prima o poi, cadranno, ma conserveranno un impatto sulla società anche molto tempo dopo il loro crollo. L’unica cosa da fare nel frattempo è assumere la prospettiva di chi sta dall’altra parte, mostrare le vite di chi ha attraversato quei muri. Dargli voce, farle parlare.
Le foto di queste pagine fanno parte della serie The warmth di Roselena Ramistella, realizzata tra il 2019 e il 2022. La fotografa ha usato una macchina fotografica termica per cogliere le emozioni dei migranti e rifugiati che ha intervistato. Le variazioni di calore, e quindi di colore, sui volti e sui corpi, cambiavano a seconda della reazione emotiva alle domande.
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