Da due anni vive ad Anversa, in Belgio. Lavora come portuale, anche se non ha un contratto. Mohammed è originario di Freetown, in Sierra Leone, ed è arrivato in Italia dalla Libia nel maggio del 2016, su un peschereccio partito da Sabrata. “Il mare era cattivo e tutti vomitavano”, ricorda. Poi la salvezza: la guardia costiera italiana li ha soccorsi e li ha portati in Sicilia, ma solo una volta arrivato in porto Mohammed ha scoperto di aver commesso un reato: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Era il mozzo dell’imbarcazione e tutti i migranti sulla barca lo hanno individuato come uno degli scafisti. Così è stato arrestato ed è finito prima nel carcere di Palermo, poi in quello di Enna. Per tre anni, mentre si svolgeva il processo è rimasto in prigione. “Ho potuto chiamare casa solo dopo un anno e mezzo. È stato allora che ho saputo che mio padre era morto, aveva avuto un malore, ma io non lo avevo neppure saputo”, racconta Mohammed. “La mia famiglia era sicura che avessi perso la vita in mare, perché non avevano avuto più mie notizie”. Parla al telefono lentamente, fa fatica a ricordare: è stato il momento più difficile della sua vita.
“Ero andato in Libia per lavorare, ma la situazione nel paese era terribile quindi ho deciso di partire, ho pagato dei trafficanti, dei libici”, ricorda. “Mentre eravamo in fila, mi hanno scelto, mi hanno fatto uscire dalla fila e mi hanno detto che dovevo aiutare il capitano”, racconta. “Io non avevo mai guidato una barca in vita mia”. L’interrogatorio in questura è stato un trauma: “Hanno sbagliato il mio nome, hanno scritto che parlavo il francese, mi hanno detto che avevo commesso un reato, ma io avevo pagato per il viaggio”.
Dopo due anni di prigione, Mohammed è stato assolto, ma ha scoperto che su di lui pendeva un decreto di espulsione. “L’Italia era il paese in cui volevo stare, perché mi aveva salvato la vita, ma non avevo i documenti e avevo paura di avere di nuovo problemi con la polizia. Così sono andato prima in Francia, poi in Belgio, dove c’è una parte della mia famiglia”, racconta.
Nell’aprile del 2022 la sua vicenda giudiziaria si è definitivamente conclusa, perché la corte di appello di Palermo ha confermato che Mohammed ha guidato l’imbarcazione sotto ricatto, costretto dai trafficanti di esseri umani, che invece sono rimasti a terra in Libia. Determinante è stata la testimonianza durante il processo del vicequestore Carmine Mosca che ha spiegato: “I trafficanti (per evitare di essere arrestati quando arrivano in Italia, ndr) hanno imparato recentemente un altro metodo, sono corsi ai ripari: in sostanza, loro si occupano di far partire i gommoni, di sistemare, di fare arrivare i migranti sulle coste libiche, di trattenerli nelle safe house (o mesdre, in arabo) anche per settimane o mesi, approfittandone in tutte le maniere, sia da un punto di vista fisico sia economico”.
“Dopodiché di notte”, continua Mosca, “quando le condizioni del mare lo consentono, li portano sulla costa, li imbarcano su natanti che possono essere anche dei gommoni e addestrano in maniera improvvisata alcuni migranti a condurre il natante. Li conducono fino al confine delle acque internazionali, perché evidentemente esiste una forte complicità con gli organi di controllo libici, e poi li abbandonano al loro destino”.
I giudici di Palermo hanno stabilito che quattordici migranti, arrestati nel maggio 2016 subito dopo lo sbarco perché si trovavano al timone dell’imbarcazione, hanno agito in quanto costretti e in stato di necessità. Hanno passato tutti almeno due anni in carcere e sono stati assolti in maniera definitiva solo nell’aprile 2022.
‘Criminalizzare lo scafista significa non conoscere il fenomeno migratorio nella sua complessità’
Il 9 marzo a Cutro il governo italiano ha approvato un nuovo decreto che ha criminalizzato ancora di più l’attività dei cosiddetti scafisti, introducendo un reato che prevede pene fino a trent’anni per chi conduce un’imbarcazione di migranti irregolari. Il pugno duro verso gli scafisti non è una novità: dal 2015 la strategia europea di contrasto all’immigrazione irregolare si è concentrata sull’arresto di queste persone. E secondo il rapporto “Dal mare al carcere”, scritto dall’Arci Porco Rosso, Alarmphone e Border Europe, negli ultimi dieci anni 2.500 persone sono state arrestate – spesso ingiustamente – perché erano alla guida di un’imbarcazione. Ma gli effetti di questa strategia sul traffico internazionale di esseri umani sono stati scarsi, perché gli scafisti, cioè coloro che conducono l’imbarcazione, sono solo l’ultimo anello, e il più fragile, di tutto il sistema. Negli ultimi anni le reti criminali internazionali che gestiscono il traffico hanno in molti casi affidato l’imbarcazione a persone reclutate all’ultimo momento: o forzandole o offrendo loro il viaggio gratis, in particolare sulla rotta che parte dalla Libia.
“C’è un numero elevatissimo di persone in carcere per questo reato, persone che non possono neppure ricorrere alle misure alternative e questo tra l’altro presenta molte difficoltà per la difesa”, spiega Tatiana Montella, avvocata della clinica legale dell’università Roma Tre. “Spesso chi guida le imbarcazioni non fa parte della rete criminale che ha organizzato il viaggio: chi guida non lucra, al massimo è un migrante che non paga il viaggio. Criminalizzare lo scafista significa non conoscere il fenomeno migratorio nella sua complessità”, continua Montella.
Il nuovo decreto innalza le pene per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e introduce una fattispecie ad hoc che prevede pene altissime in caso di naufragi. “A Cutro per esempio è stato arrestato un ragazzo di 17 anni, accusato del naufragio. Ma arrestare persone così non ha nessun effetto sul traffico, invece distrugge la vita di queste persone che devono sostenere lunghi processi”, conclude Montella.
Stato di necessità
Bouba Dieye (nome di fantasia per tutelarne l’identità) aveva vent’anni ed era arrivato a Sabrata, in Libia, da Dakar, in Senegal, quando i libici l’hanno costretto a mettersi al timone di un’imbarcazione a motore di vetroresina. “Ci hanno scortato a largo con delle moto d’acqua, hanno acceso il motore e mi hanno costretto a mettermi al timone”, racconta il ragazzo che oggi vive a Palermo e fa il saldatore. “Non avevo mai condotto un’imbarcazione e all’inizio la barca sbandava, non riuscivo a governarla, ero spaventato”, racconta. Dice di avere sopportato la traversata solo grazie alla sua fede: “Credo in dio, mi sono affidato a lui, ho pregato”.
La barca è stata soccorsa dalla nave Dattilo della guardia costiera italiana, era il luglio 2016. Bouba Dieye è stato arrestato all’arrivo nel porto di Palermo, non ha mai negato di essere la persona al timone dell’imbarcazione, ma ha spiegato di essere stato costretto con la forza a guidarla e di non appartenere a nessuna organizzazione criminale. La procura ha chiesto otto anni di carcere per Dieye, che tuttavia è stato assolto in via definitiva solo alla fine di febbraio del 2023, sette anni dopo il suo arrivo.
La seconda sezione del tribunale di Palermo, presieduta da Lorenzo Matassa, ha accolto le tesi dell’avvocato Marco Di Maria secondo cui Dieye avrebbe agito in stato di necessità, ovvero perché costretto a mettersi alla guida da organizzazioni criminali libiche, armate e senza scrupoli. Durante il dibattimento, inoltre, non è emerso alcun collegamento con le milizie, ma un obbligo che, se non rispettato, avrebbe potuto comportare anche di essere ucciso. “Non dovrebbe essere difficile da capire che se un trafficante incassa i soldi dei migranti, migliaia di dollari, poi non si mette a bordo dell’imbarcazione, rischiando la vita”, commenta Bouba Dieye.
Nell’inchiesta di The Intercept il giudice siciliano Gigi Modica spiegava che “è la stessa storia che si ripete. Fermano tre o quattro persone, non di più. Gli fanno due domande: chi guidava l’imbarcazione e chi usava la bussola. Finisce lì. Ottengono dei nomi e non s’interessano ad altro”. Modica è stato uno dei primi giudici italiani ad assolvere delle persone accusate di aver manovrato i barconi ritenendo che fossero state costrette a farlo. Queste sentenze basate sullo “stato di necessità” sono diventate sempre più numerose, ma gli arresti per gli scafisti che conducono le imbarcazioni dei migranti non si sono fermate. Sono state almeno 268 nel 2022, secondo il rapporto “Dal mare al carcere”.
La rotta turca
In Turchia il traffico di esseri umani è gestito da una rete criminale internazionale formata da ucraini e turchi. In questa rete sono attirati, spesso anche con l’inganno, marinai ucraini e dei paesi dell’ex Unione Sovietica che vengono messi al timone di barche a vela: sono più sicure dei gommoni e danno meno nell’occhio rispetto ai pescherecci, perciò riescono ad arrivare a destinazione senza troppi problemi.
Vasilij (nome di fantasia per tutelarne l’identità) ha 49 anni ed è originario di Dnipro, in Ucraina. Pensava di guadagnarsi da vivere facendo lo skipper nel Mediterraneo, accompagnando i turisti in crociera. “Me ne sono andato dall’Ucraina nel 2014 perché mi erano arrivate due convocazioni del governo per andare al fronte e combattere contro i separatisti filorussi. Non volevo morire in guerra: all’epoca facevo il fotografo e lo skipper in Crimea, così con un amico che aveva una barca a vela siamo partiti da Sebastopoli, diretti in Turchia. Cercavamo lavoro e siamo stati contattati da tre ucraini che insieme a due turchi ci hanno detto che avevano dei lavori da proporci: piccoli giri in barca nel Mediterraneo per i turisti”.
Solo quando è arrivato in Turchia, Vasilij ha scoperto che il suo compito era trasportare in Italia migranti senza documenti. Così, nel 2016, è partito da Çeşme. Ma una volta a destinazione è stato arrestato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, dopo aver traghettato nel paese ventiquattro migranti siriani e afgani ed è stato condannato a due anni e quattro mesi di carcere.
L’arresto negli ultimi anni di centinaia di scafisti in Turchia, Grecia e Italia ha portato in carcere solo le persone trovate alle guida delle imbarcazioni, con storie e responsabilità diverse. Senza tuttavia colpire le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani verso l’Europa.
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