In scena ci sono due donne nere che puliscono una superficie di plastica bianca a terra: una è vestita di bianco con una divisa da colf ed è chinata a passare lo straccio insistentemente sul pavimento, l’altra è vestita di nero, indossa una cuffia e attraversa la sala con lo spazzolone in mano.

L’attrice e performer francese Rébecca Chaillon è quella vestita di bianco: il suo corpo piegato sullo straccio si dimena per rendere il pavimento lucido e intanto si libera dalla divisa che le sta stretta. Ma sotto ai vestiti la sua pelle è ricoperta di una patina di polvere bianca e perfino i suoi occhi sono coperti di bianco, senza pupille.

Whitewashing (sbiancamento) è l’ultimo lavoro della performer francese, cresciuta a Montreuil da genitori della Martinica, ed è andato in scena al festival dei teatri di Santarcangelo di Romagna, proprio mentre in Francia migliaia di persone scendevano in piazza contro il razzismo sistemico delle forze dell’ordine. Le proteste sono cominciate dopo la morte del diciassettenne Nahel, ucciso da un poliziotto durante un controllo a Nanterre, una banlieue a nordovest di Parigi.

Chaillon – attrice, performer e femminista che da sempre riflette sul corpo razzializzato e discriminato degli afrodiscendenti francesi – ha usato ancora una volta la scena per mostrare la violenza della cultura dominante che costringe il suo corpo non conforme, nero e fuori misura, ad assumere prima il ruolo di una colf trascurata e inginocchiata, poi quello di una donna che prova a sbiancarsi la pelle e a inseguire canoni di bellezza molto lontani da lei, sottoponendosi a trattamenti estenuanti per cancellare il colore della sua pelle, per lavarlo via come lo sporco del pavimento, a domare i suoi capelli crespi e afro, irregimentandoli in lunghissime trecce nere che sono tirate e appese ai quattro lati della stanza, mentre il pubblico del festival seduto ai tre lati della scena osserva le torture a cui la donna si sottomette.

Giardini segreti e armature difensive

Il corpo di Chaillon è insieme ostacolo, monumentale disturbo e seducente incantesimo. Mostra la violenza ma la disattiva con gesti disinibiti, ironici e infine rituali, che lentamente portano la donna – le due donne – a riappropriarsi di sé.

Mentre la sua spalla, l’attrice Aurore Déon, stende le lunghe trecce e le tira, Chaillon guarda il pubblico, si libera dalla lente bianca che le copre gli occhi e le impedisce di guardare e sorride. Comincia a leggere degli annunci su un giornale.

Dicono così:

“Uomo bianco, francese sulla cinquantina, colto, pulito, elegante, sportivo, alto un metro e 73, 72 chili. Cerca la sua ‘perla nera’ in Francia per relazione seria e duratura”.

“Uomo bianco, sulla sessantina, vedovo, giovanile, non fumatore, tenero, alla mano, cerca donna nera, disinibita, molto sensuale, per vita di coppia e sentimenti sinceri. Idee di appuntamento: club, mercato delle pulci e foresta”.

“Disperatamente solo, sessant’anni, divorziato, aspira a incontrare compagna africana, divertente, magra, residente a Parigi”.

White washing di Rebecca Chaillon. (Pietro Bertora)

In quel momento Chaillon strappa immagini di donne bellissime e nere dai giornali e appende quelle foto patinate sulle sue trecce con delle mollette, mentre Déon si mette in un angolo e recita un monologo. Si spoglia dei suoi vestiti da colf e si riveste con quelli tradizionali di una sacerdotessa creola. Si fascia la testa con un panno bianco e si muove dentro alla gabbia costruita dalle trecce di Chaillon.

“Deve essere rimesso insieme tutto quello che è stato rotto. Deve essere ricordato, tutto quello che è stato dimenticato. Tutto quello che ci ha fondato, deve essere reclamato. Dobbiamo riscoprire la nostra lingua e le nostre acconciature perdute. Esplorare giardini segreti e armature difensive. Chiarire la giungla della nostra genealogia, per diventare un giorno una pianta così selvaggia da essere emancipata”, dice Déon, mentre Chaillon, prima gira un rumoroso macinino da caffè, poi dà fuoco alle trecce e se ne libera.

Esporsi alle emozioni

Il razzismo, le questioni di genere, le disuguaglianze, la crisi post-pandemica e quella migratoria, la guerra, così come il corpo, le sue nevrosi, le sue intrinseche capacità di cura, le relazioni tra i corpi, sono stati al centro dell’ultima edizione del festival di teatro sperimentale più antico d’Italia, fondato nel 1971 da Piero Patino che amava dire: “Il teatro sgorga dalla collettività per ritornare alla collettività”, sottolineando il carattere sociale e politico dell’arte scenica, in opposizione a un teatro elitario, lontano dal mondo. Neppure le alluvioni che a maggio hanno colpito la regione hanno fermato il festival, che ha portato in scena quest’anno quaranta artisti da tutto il mondo in cento eventi, sparsi nei diversi spazi della città dal 7 al 16 luglio.

“Il parco vicino al fiume in cui di solito si tenevano gli spettacoli di teatro gli anni scorsi si è allagato con l’esondazione del fiume, ma ha salvato alcuni quartieri di Santarcangelo dagli allagamenti”, spiega Alice Parma, la giovane sindaca, che è alla sua decima e ultima edizione del festival. Il suo mandato infatti scadrà il prossimo anno. “Sono molto emozionata di partecipare a questa edizione, l’ultima da sindaco per me. Questo è un festival pubblico, quasi interamente finanziato con soldi pubblici e ne andiamo molto fieri. È diventato un incubatore per il teatro sperimentale e performativo italiano. Abbiamo costituito un fondo per finanziare i progetti di ricerca delle compagnie teatrali italiane, e questo investimento ci torna in termini di ricchezza, di turismo, anche di mera economia”, racconta.

Enough not enough era lo slogan di questa cinquantatreesima edizione, che ha deciso d’interrogarsi sui punti di collasso di una società non più disposta a sopportare gli squilibri e lo sfruttamento. “Le crisi come la pandemia e la guerra ci hanno mostrato e ci mostrano l’importanza del teatro performativo. È anche grazie all’arte che siamo sopravvissuti”, spiega il drammaturgo, critico teatrale e curatore polacco Tomasz Kireńczuk, che dal 2022 è direttore artistico dell’evento.

Per Kireńczuk, che viene dalla Polonia, l’intervento più politico della manifestazione è stato quello dell’attivista e artista bielorussa Jana Shostak che ha tenuto un workshop in cui ha raccontato la situazione politica nel suo paese, l’attività clandestina dei dissidenti e infine ha messo in scena il suo Scream for Belarus (Urlo per la Bielorussia), che aveva realizzato per la prima volta nel maggio 2021 a Varsavia, davanti alla sede della Commissione europea.

Esattamente un anno dopo lo scoppio della rivoluzione civile bielorussa, Shostak ha urlato per un minuto intero davanti alle istituzioni europee per ricordare quelli che sono stati torturati e in molti casi uccisi dal regime bielorusso.

Shostak ha ripetuto la performance diverse volte e infine nell’ultimo anno si è trasferita sul confine polacco-ucraino per aiutare i rifugiati in fuga dalla guerra, spesso sperimentando diverse azioni sceniche a partire da quel contesto. A Santarcangelo ha messo in scena il suo urlo per la Bielorussia, coinvolgendo gli spettatori e la comunità locale.

“Il teatro performativo ha reagito più velocemente di altre forme di arte alla crisi: inventa e racconta a partire proprio dallo spazio pubblico. Questa sua caratteristica diventa ancora più preziosa in un tempo come quello in cui siamo”. L’importanza del teatro in questo momento è proprio data dalla sua capacità di reagire velocemente le persone sia individualmente sia collettivamente in uno spazio comune: “Per questo continuiamo a partecipare agli spettacoli”.

“Cos’altro dovrebbe essere l’esperienza di un festival come Santarcangelo, se non un’opportunità per uscire dall’ordine quotidiano del pensiero e confrontarsi non solo con il mondo in cui viviamo, ma soprattutto con la realtà che vorremmo vivere?”, chiede Kireńczuk, secondo cui il teatro performativo negli ultimi anni ha abbandonato le grandi produzioni per ragioni economiche e di sostenibilità, per preferire quelle più piccole e più intimiste, che valorizzano proprio questo aspetto di costruzione di una comunità ancora capace di emozionarsi.

“Per esempio negli spettacoli di quest’anno mi sono reso conto che lo sguardo del pubblico è spesso in scena, nella maggior parte degli eventi il pubblico non guarda gli attori dalla tribuna, ma circonda gli artisti da quattro lati e guarda anche gli altri spettatori. Guardi lo spettacolo e insieme guardi gli altri spettatori, in un meccanismo che favorisce il confronto, il dialogo, anche solo la condivisione dei dubbi. Partecipare allo spettacolo è un’esperienza collettiva, intima e collettiva”, conclude Kireńczuk.

Il rito e la cura

Gli spettatori sono al centro della scena, in effetti, nello spettacolo Lourdes di Emilia Verginelli, in cui la performer romana racconta i suoi dieci anni di viaggi nel popolare santuario francese come volontaria.

“Non penso che sia possibile raccontare il pellegrinaggio, perché per ogni persona è un’esperienza diversa. Per questo ho cercato di creare un allestimento che rendesse ogni messa in scena una cosa diversa, in cui gli spettatori potessero muoversi nello spazio e modificarlo”, ha raccontato Verginelli. Il suo spettacolo è anche un diario, un’autofiction, ma soprattutto una specie di indagine sul sacro e sul rito collettivo del pellegrinaggio attraverso la raccolta di interviste e testimonianze che sono trasmesse nella sala, mentre le parole scorrono come sottotitoli su uno schermo televisivo e su piccoli schermi di cellulare distribuiti agli spettatori.

“Tutti abbiamo bisogno di un incontro con qualcosa di esorbitante”, afferma Verginelli, in un crescendo che risulta convincente dal punto di vista narrativo. E ancora: “Non ho il cervello adatto per la fede. Sono stata per anni a guardare la Madonna di Lourdes, io la guardavo, mentre gli altri pregavano”.

La vaga grazia di Eva Geatti. (Pietro Bertora)

Il pubblico è sparso, seduto al centro della sala della biblioteca, come se fosse su quel treno per Lourdes, mentre l’attrice si muove nei diversi punti per descrivere il santuario, il rito del bagno nelle vasche, le suore, i volontari, i preti, i malati. Mette a terra dei fogli con dei disegni, costruisce un altare con i souvenir di plastica di Maria che contengono acqua santa, consulta dei libri di Simone Weil, cita il teologo Meister Eckart, versa acqua, riprendere dei particolari della scena con una telecamera. Ma il cuore dello spettacolo sono le interviste: voci di malati, volontari e religiosi che raccontano il loro rapporto con il sacro.

Sembra l’ascolto di un podcast dal vivo, ancora grezzo dal punto di vista della messa in scena. Questa indagine privata e collettiva non può che fare breccia su un pubblico che in questi anni si è confrontato con la malattia, con la pandemia e con il pericolo di una catastrofe. Il teatro recupera il suo antico ruolo catartico e rituale quando Verginelli chiede: “Come si concilia il dolore con la fede?”. E ancora quando afferma: “Per me la fede è un luogo ultimo dove chiedere a qualcuno di assistermi”. E poi aggiunge: “Qualcuno o qualcosa a un certo punto si prende questo dolore e mi solleva. Altrimenti una persona che ha tutto il peso su di sé si consuma prima. L’acqua e il bagno nelle vasche di Lourdes diventano quel luogo in cui uno dice all’altro: sarò sempre lì per sollevare il tuo peso”.

A suo modo è un rito, ma anche una danza e un viaggio iniziatico, La vaga grazia dell’attrice e coreografa Eva Geatti. Gli spettatori sono in platea, in una posizione più tradizionale, mentre cinque giovanissimi performer danzano improvvisando sulle note suonate dal vivo al sintetizzatore da Dario Moroldo. Ispirata al romanzo Il monte Analogo di René Daumal, la coreografia racconta il viaggio di cinque esploratori alla ricerca della montagna più alta di tutte. Il viaggio s’interrompe tuttavia proprio mentre gli alpinisti vedono il primo campo base. Commuove l’entusiasmo e l’intimità dei cinque protagonisti che danzano all’unisono e improvvisando: una dichiarazione d’amore per la loro giovane amicizia e per la scoperta.

Anche il lavoro del polacco Alex Baczynski-Jenkins Unending love, or love dies, on repeat like it’s endless è una coreografia che riflette sulle relazioni tra desiderio, danza, amore, perdita e tempo. All’ora del tramonto su una pedana costruita in mezzo a un campo di grano, per due ore tre ballerini e performer danzano a ritmi dionisiaci, scandendo passi sulla musica, sui suoni e sul silenzio, intrecciando lo sguardo del pubblico che li vede dai quattro lati della pedana.

Utopia

Ispirato a Cruising utopia di José Esteban Muñoz e a Città sola di Olivia Laing, il lavoro di Ilenia Caleo e Silvia Calderoni mette in scena i capannoni abbandonati di Chelsea nella New York dei primi anni ottanta, dove la comunità lgbt+ dell’epoca s’incontrava per fare sesso occasionale, qualche anno prima dell’arrivo devastante dell’aids. “Abbiamo lavorato su quei luoghi frequentati dalla comunità gay maschile per mettere in scena una pratica che in Italia si chiama battuage, con un finto francesismo”, racconta Caleo.

“Dentro quegli spazi – i parchi, i capannoni abbandonati, i bagni pubblici – c’era e c’è una comunità molto mista. Per Muñoz questi sono spazi selvaggi, non controllati, dove tutto può succedere. C’interessava abitarli, perché alle donne quegli spazi sono generalmente inaccessibili, coincidono con luoghi pericolosi. Per questo volevamo immaginarceli con uno sguardo non solo maschile. In questo senso è un’utopia”, racconta Caleo.

Ma l’aspetto utopico è soprattutto legato al potenziale sovversivo di quei luoghi, perché quelli rimangono spazi “non ripuliti”, che non sono normalizzabili: “Ci riportano a un’accezione di queer non identitario, un’idea che non è mai completamente qui, una tensione trasformativa, liberatoria, non normativa. Per Muñoz il cruising è anche il tentativo di criticare la tendenza degli anni dieci del duemila di normalizzazione la comunità lgbt+ in un discorso omo-normativo, integrato, che perde e abbandona la sua carica conflittuale e rivoluzionaria rispetto alla società”.

The present is not enough di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo. (Pietro Bertora)

Dietro a blocchi di cemento o a paramenti di cartone, corpi queer s’incontrano e si spogliano nella performance che prende il titolo da uno dei capitoli del libro di Muñoz, The present is not enough (Il presente non è abbastanza). Le luci sono in scena, insieme ai corpi e insieme alla musica sono una parte fondamentale dello spettacolo, mostrano e nascondono. I corpi non sono mai visibili completamente, c’è sempre qualche elemento che ostacola la visione completa degli attori in scena.

“Volevamo lavorare anche sui margini, su questa visione parziale, sulle intercapedini e sullo sguardo”, continua Caleo. “Gli attori non si guardano tra di loro, ma guardano il pubblico, cercano gli spettatori”. A un certo punto usano anche degli specchietti per comunicare con la platea, per mandare segnali. “Abbiamo lavorato molto per costruire questo sguardo non penetrativo, non invadente, ma aperto, permeabile, in dialogo con il pubblico”, spiega Caleo.

“Questo è un lavoro sul passato: quei capannoni erano frequentati da molti artisti, fotografi, scrittori che hanno raccontato quei luoghi da dentro”, spiega Silvia Calderoni. La ricerca di Calderoni e Caleo è cominciata proprio con la raccolta di fotografie dell’epoca, scattate da chi frequentavano i piers lungo il fiume in quegli anni, subito dopo sarebbe arrivata l’aids e avrebbe distrutto le vite di molti di loro. “Ci sono anche i loro fantasmi in questo lavoro che guarda al passato per vedere il futuro”, spiega Calderoni.

Durante la performance, la musica curata dal musicista e attore Gabor e dalla stessa Calderoni si alterna alla lettura dei diari dell’artista e attivista David Wojnarowicz, che racconta la scena gay e underground nella New York di quegli anni.

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