I turisti affollano via Roma, il corso principale di Lampedusa. Guardano le vetrine e si fermano a comprare souvenir, tartarughe di coccio e vestiti indiani. Fa un caldo torrido, nonostante sia settembre inoltrato e l’isola, più vicina alla Tunisia che alla Sicilia, è ancora nel pieno della stagione turistica.
Se non fosse per alcuni striscioni appesi davanti al comune, nessuno si accorgerebbe della situazione di crisi che il piccolo lembo di terra ha affrontato nell’ultima settimana: dodicimila arrivi di migranti, in particolare dalla Tunisia, l’hotspot sovraffollato, la mancanza di beni di prima necessità per i migranti e le proteste degli abitanti durante la visita ufficiale della presidente del consiglio italiano Giorgia Meloni e della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, il 17 settembre, che sull’isola hanno trascorso solo due ore.
Sugli striscioni appesi davanti al comune c’è scritto: “Basta morti in mare”, “Basta con il traffico di esseri umani”. E ancora: “Lutto cittadino”. Poco più in là sono state allestite le luminarie e gli stendardi della Madonna, una figura colorata che si staglia sulle tele di raso blu. Tutto è pronto per la festa patronale del 22 settembre. Ma qualcuno tra gli abitanti si preoccupa che non si possa festeggiare come si deve, a causa della crisi.
Dal giorno della visita della presidente del consiglio italiana l’isola è stata tirata a lucido e i migranti trasferiti
“I migranti dove sono?”, chiede un turista piemontese ai giornalisti. Ha visto in tv le immagini degli ultimi giorni, che mostravano lunghe file di persone davanti alla parrocchia in attesa di un pasto, persone ammassate sulla banchina del molo Favarolo o dentro l’hotspot di contrada Imbriacola, che potrebbe contenerne solo poche centinaia.
Ma dal 17 settembre, giorno della visita della presidente del consiglio, l’isola è stata tirata a lucido e i migranti sono stati trasferiti in massa a Porto Empedocle. Nel centro di accoglienza ne sono rimasti un migliaio, anche se a poche ore dalla partenza del convoglio ufficiale, gli sbarchi sono ricominciati. E il 19 settembre sono arrivate circa novecento persone.
Un gruppo di lampedusani guidati da Giacomo Sferlazzo, un burattinaio diventato capopopolo, ha allestito un presidio davanti al comune: non vogliono che sull’isola sia costruita un’altra tendopoli, come si dice da giorni. Hanno manifestato al molo commerciale, dove attraccano i traghetti e dove arrivò la SeaWatch con Carola Rackete, che subito dopo fu arrestata, nel giugno 2019. Anche allora un gruppo di abitanti dell’isola si radunò sul molo per contestarla, mentre altri le mostrarono solidarietà. Infine, i nuovi contestatori hanno fermato il corteo di Meloni e Von der Leyen e costretto entrambe a incontrare i cittadini.
Sferlazzo prende il megafono in mano e ripete: “Lampedusa non diventerà un carcere a cielo aperto”. Più o meno lo stesso concetto che ha affermato il presidente tunisino Kais Saied a metà luglio, quando la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, accompagnata da Meloni e dall’olandese Mark Rutte è andata in Tunisia per firmare un accordo milionario che prevede tra le altre cose il pattugliamento della frontiera.
Capelli raccolti in un codino e fare istrionico, Sferlazzo arringa: “Siamo in una situazione disumana, ma bisogna dare all’isola la possibilità di vivere in modo tranquillo. Qui c’è molta confusione, c’è un’enorme questione di gestione da parte del governo. Si chiariscano le idee”.
Una passerella
Secondo i manifestanti, la situazione dell’isola è fuori controllo e la visita di Meloni e Von der Leyen è l’ennesima passerella di rappresentanti istituzionali in una lunga storia di promesse non mantenute che va avanti da trent’anni.
“Ho visto tutte le più alte cariche dello stato, italiane, europee e religiose. Siamo stati solo presi in giro. Io purtroppo mi sento preso in giro”, afferma Sferlazzo. A poche ore dalla visita di Meloni e Von der Leyen, gli sbarchi sono ricominciati. Cinque al molo Favarolo, per un totale di più di quattrocento persone il 18 settembre, il giorno successivo alla visita delle due presidenti, che in conferenza stampa hanno affermato: “Siamo noi a decidere chi entra e non entra in Europa e non i trafficanti”. Il 19 settembre gli sbarchi sono stati ancora di più. Al termine di un consiglio dei ministri Meloni ha annunciato l’estensione a diciotto mesi dei termini per trattenere gli irregolari all’interno dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr).
Una misura che secondo Meloni dovrebbe essere un deterrente alle partenze, ma che per molti esperti non avrà alcun effetto se non prolungare la sofferenza di chi è recluso perché gli è scaduto il permesso di soggiorno. Di solito, infatti, chi finisce nei Cpr è in Italia da molti anni e non è rimpatriabile, perché mancano gli accordi con i paesi di origine.
Intanto al molo Favarolo una motovedetta della guardia costiera attracca sulla banchina e le prime a scendere sono delle donne vestite di nero. Sono siriane, si coprono il volto con il velo. Sono partite da Sabratha, in Libia. Subito dopo diversi ragazzi etiopi ed eritrei sono inquadrati in una fila, salgono a turno sui pulmini della Croce rossa, che li portano all’hotspot. Sono giovanissimi.
“Molti hanno ustioni da gasolio, causate dal carburante e dall’acqua del mare”, spiega Francesco D’Arca, il medico dell’isola che supervisiona gli sbarchi. “C’è anche una donna che ha due bambine con sé, sempre siriana. Le due minorenni hanno dei problemi cognitivi”. Negli ultimi giorni di sbarchi intensi, un neonato nato durante la traversata è arrivato morto a Lampedusa, un’altra bambina di cinque mesi è caduta in acqua ed è annegata poco lontano dal porto.
Bambini soli
“La vera novità di questi ultimi mesi è l’arrivo di bambini soli, sempre più piccoli”, assicura Giovanna Di Benedetto, portavoce di Save the children, attiva all’interno dell’hotspot di Lampedusa. Solo nel 2023, secondo gli ultimi dati del ministero dell’interno, sono arrivati in Italia 11.649 minori non accompagnati, il 10 per cento sul totale degli arrivi, con un aumento di bambini molto piccoli. “Non preoccupa solo questa crescita, ma anche il fatto che tra di loro ci siano molti bambini e bambine di tre o quattro anni”, dice Di Benedetto.
L’ultimo caso è stato quello di un bambino di tre anni arrivato accompagnato da un altro di quattordici. Insieme hanno attraversato il deserto e il mare. Il più grande ha raccontato di avere trovato quello di tre anni da solo nel deserto e di averlo portato per mano fino a Sfax, dove insieme si sono imbarcati per arrivare a Lampedusa il 15 settembre. I due sono stati accolti dalla Casa della fraternità dell’isola, uno spazio della parrocchia, poi sono stati trasferiti sulla terraferma. Non si sa neppure da dove arrivi il piccolo, forse dal Gambia, né quale sia il suo nome. Il tribunale dei minori dovrà occuparsi di affidarlo a una famiglia italiana.
Secondo Di Benedetto i bambini e ragazzi devono essere trasferiti nel minore tempo possibile in centri appositi e non possono essere tenuti nell’hotspot perché mancano le condizioni fondamentali per un’accoglienza adeguata. “In queste situazioni caotiche il rischio più grande è che i nuclei familiari siano accidentalmente separati. È un problema che dobbiamo evitare in tutti i modi”.
Di Benedetto ritiene che questi bambini che arrivano da soli sono probabilmente il frutto di lunghi viaggi di gruppo e di circostanze caotiche e pericolose alla frontiera o all’imbarco, in cui i bambini possono facilmente perdere di vista i genitori. “Le convenzioni internazionali sull’infanzia parlano chiaro, come le leggi nazionali. I bambini devono essere protetti e tutelati”, conclude Di Benedetto.
Emma Conti di Mediterranean Hope, un’operatrice che distribuisce acqua e viveri allo sbarco, spiega che la situazione degli ultimi giorni ha portato inaspettatamente a superare “l’apartheid molto rigida” tra stranieri, lampedusani e turisti sull’isola. “Le persone hanno incontrato i migranti per strada e li hanno visti come persone e non solo come numeri. Non succedeva da molti anni. L’isola si è mobilitata di nuovo, si è aperta all’accoglienza, tutti si sono dati da fare, come in passato”, racconta Conti.
“Tanti si sono preoccupati di darci una mano nella distribuzione dei pasti, hanno donato beni di prima necessità”, continua l’operatrice, che definisce la crisi delle ultime settimane “annunciata”. “Questi arrivi sono in aumento da mesi, soprattutto dalla Tunisia. Molti ci raccontano di violenze subite nel paese. Il punto è che andrebbero salvati al largo e portati direttamente sulla terraferma, perché l’isola non è in grado di fare fronte a questa pressione. Ma al di là di tutto lo sguardo dovrebbe rimanere fermo su queste persone e su quello che hanno alle spalle: le violenze, la traversata, sono dei sopravvissuti. Dovrebbero avere un’accoglienza degna di questo nome”, conclude.
Dieci anni dopo
C’è un tendone bianco che indica l’ingresso per la spiaggia dei Conigli, l’insenatura più bella dell’isola. Per entrare ci sono delle restrizioni e i tornelli: possono accedere solo cinquecento persone alla volta dopo che si sono prenotate online, perché la zona è parte di una riserva naturale. Se si riesce ad accaparrarsi il biglietto per mezza giornata, poi si scende lungo un sentiero che porta a quello che è considerato uno dei mari più cristallini dell’isola.
A poche miglia da questa spiaggia dieci anni fa si è consumato uno dei naufragi più tragici della storia recente del Mediterraneo: 368 persone, quasi tutte eritree, morirono a pochi metri dalla costa. Da allora, secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, i morti a causa dei naufragi nel Mediterraneo sono stati più di 26mila, una massa informe di numeri, dietro cui ci sono nomi, persone, famiglie.
Lo scrittore Alessandro Leogrande lo raccontava nel suo libro più importante, La Frontiera (Feltrinelli 2015): “Ora i corpi sono raccolti sulla sabbia accanto al relitto. Giacciono in fila mentre gli uomini della guardia costiera ne aggiungono altri e altri ancora. Sono decine, centinaia. Compongono una fila lunghissima. Ci sono quelli con la faccia riversa, quelli con gli occhiali sgranati, quelli con le braccia alzate, quelli con le mani raccolte sotto al capo, come se dormissero. Quelli che giacciono vicini, quasi abbracciati. Quelli che indossano ancora i giubbotti, i pantaloni, i maglioni. Quelli che hanno provato a liberarsi dai vestiti, quelli con le scarpe e quelli scalzi, quelli impassibili e quelli stropicciati da uno strano sorriso”.
Quei corpi a riva, le bare che nei giorni successivi furono allineate in un hangar, i familiari che da tutta Europa arrivavano sull’isola per identificarli provocarono uno shock senza precedenti nell’opinione pubblica italiana ed europea. A Lampedusa arrivarono subito il presidente del consiglio italiano Enrico Letta e il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso. Poco dopo fu lanciata la missione umanitaria governativa Mare nostrum, che però fu sospesa un anno dopo tra mille polemiche: era accusata di costare troppo e di rappresentare un fattore di attrazione per i migranti. Nel 2016, il 3 ottobre è diventato perfino Giornata della memoria e dell’accoglienza delle vittime dell’immigrazione.
“Quando arrivarono Barroso e Letta s’inginocchiarono davanti a quelle bare. Quei morti scossero le coscienze”, ricorda Giusi Nicolini, che all’epoca era sindaca di Lampedusa. Secondo Nicolini, Mare nostrum fu “un’operazione coraggiosa”. Oggi invece l’intervento di Meloni e Von der Leyen sono “sempre le solite parole che non significano nulla. Bloccare le partenze, combattere il traffico di esseri umani. Il fallimento di queste azioni è davanti agli occhi di tutti”, continua. In questi giorni non c’erano ong al largo, effetto di una lunga campagna di criminalizzazione. “Ma con quali risultati?”, chiede l’ex sindaca.
“A Lampedusa la tragedia la conosciamo bene: sappiamo che molti muoiono in mare e in quali condizioni arriva chi ce la fa”, racconta Nicolini. “Ondate simili a quella a cui stiamo assistendo le abbiamo viste molte volte: innanzitutto nel 2011, quando Lampedusa fu raggiunta da sessantamila persone che lasciavano la Tunisia dopo la caduta di Ben Ali”.
All’epoca il governo Berlusconi decise di non trasferire le persone dall’isola, perché l’intenzione dell’allora ministro dell’interno, il leghista Roberto Maroni, era quella di rimpatriarle direttamente da Lampedusa. “Per mesi furono i lampedusani a dare sostegno ai migranti, in una crisi umanitaria senza precedenti. Alla fine Berlusconi diede il permesso umanitario a tutti e li spinse verso gli altri paesi europei”.
Ma “le cariche delle forze dell’ordine al molo Favarolo non le avevamo mai viste: persone lasciate sulla banchina per ore senz’acqua, sotto al sole, con il caldo di questi giorni”, sottolinea Nicolini. L’impressione è che si ritorni sempre “all’anno zero, e che tutti i progressi che si pensava di avere fatto, siano cancellati in un attimo”.
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