I vecchi magazzini del porto di Trieste, costruiti in epoca austroungarica, sono coperti da una maestosa impalcatura grigia: sulla rete che copre i tubi è cresciuta una fitta pianta di edera verde che s’inerpica lungo tutta la facciata della struttura ormai fatiscente. Ma alcune coperte termiche color argento e oro che spuntano dalle finestre e dai varchi dell’edificio fanno intuire che il posto, simbolo del passato glorioso della città e della sua potenza marittima e commerciale, sia ancora abitato da qualcuno.
“I silos”, li chiamano i triestini. Sono i vecchi magazzini costruiti nel 1857 a fianco della stazione ferroviaria che collegava Trieste a Vienna, la capitale dell’impero, ma sono anche le prime costruzioni di quello che un tempo è stato il secondo porto più importante d’Europa, dopo Marsiglia, un gioiello di architettura industriale costruito tra il 1863 e il 1883 per fare fronte allo sviluppo economico senza precedenti del porto e della città.
Di notte ci mordono i topi e altri animali. Non ci sono i bagni, dormiamo nelle tende, ma quando piove ci bagniamo lo stesso
Al momento i 67 ettari sui quali sorgono edifici sono semiabbandonati e i due magazzini più vicini alla stazione sono diventati un rifugio di fortuna per più di duecento persone – quasi tutti immigrati appena arrivati in Italia dalla rotta balcanica – originari nella maggior parte dei casi del Pakistan e dell’Afghanistan.
Sono in attesa che la loro domanda di asilo sia esaminata, sono tutti regolarmente registrati dalle autorità italiane, ma non hanno un posto in cui dormire. “Di notte ci mordono i topi e altri animali. Non ci sono i bagni, dormiamo nelle tende, ma quando piove ci bagniamo lo stesso”, racconta Zakir Ali, un ragazzo pachistano di 26 anni, originario del distretto di Khyber Pakhtunkhwa, al confine con l’Afghanistan.
Vive nell’edificio abbandonato da quasi tre mesi, in attesa di essere convocato dalle autorità italiane per portare avanti la sua domanda di asilo. Ma non era questa l’Europa che aveva immaginato, quando ha lasciato il suo paese.
È dovuto scappare dalle continue incursioni dei taliban nel territorio in cui ancora vive una parte della sua famiglia: “La situazione non era sicura a casa mia, ho affrontato un viaggio che è durato anni, ma non mi aspettavo di finire a dormire nel fango, in mezzo all’immondizia”, dice il ragazzo con un’espressione sconsolata. Anche Nasari Gulahmad, originario dell’Afghanistan, 27 anni, non riesce a raccontare ai suoi famigliari cosa sta passando: “Non ho detto a mia madre, che è rimasta in Afghanistan, che sto dormendo in un palazzo abbandonato. Ne soffrirebbe troppo”.
Quando piove come nelle ultime settimane, la situazione è senza scampo: “Entra l’acqua nelle tende e poi piove per tre giorni nel palazzo. Anche quando il temporale è finito, nell’edificio l’acqua continua a cadere dal soffitto e dalle volte, perché l’intonaco s’impregna di umidità, che rilascia nei giorni successivi”, racconta il ragazzo, che spera di potere lavorare nella ristorazione appena avrà i documenti. “Mi piace cucinare, nel mio paese facevo il cuoco”, racconta. Per ora lavora in nero ogni tanto, come bracciante nei campi durante la raccolta della frutta e la vendemmia.
Amin Al, originario di Dhaka, in Bangladesh, vive in una baracca con altre quattro persone nel secondo edificio, in un ambiente più ampio che tuttavia è aperto sulla vegetazione: il giaciglio che si è autocostruito è fatto di lamiere, stracci e coperte. “Qui ci dormiamo in quattro”, spiega. Un sacchetto con dei panini e delle banane appeso a una lamiera, per evitare che ci arrivino i topi. Per mangiare, qualcuno accende un fuoco a terra, ma è molto pericoloso.
Alcuni hanno costruito un braciere di pietra, per evitare che il fuoco si espanda e provochi un incendio. Durante il giorno, molti migranti si spostano nel centro diurno di via Udine, gestito dalle associazioni non profit. È una sala molto accogliente, che potrebbe ospitare una trentina di persone, ma nell’ultimo anno è stata frequentata da migliaia di migranti. “Nel centro diurno è possibile fare la doccia o fare la lavatrice, oppure ricaricare il cellulare. Tutti servizi fondamentali per queste persone che altrimenti non saprebbero come fare e sarebbero un problema per la città”, racconta Ismail Swati, uno dei mediatori culturali che lavora nel centro diurno e nella piazza della Libertà, davanti alla stazione ferroviaria.
Amin Al mangia solo panini e frutta, qualche volta va alla mensa della Caritas per un pasto caldo, ma non riesce a capire perché in questura non gli danno un appuntamento per presentare la domanda di asilo. Ci è già andato diverse volte. È arrivato da pochi giorni dalla rotta balcanica, che attraversa la Grecia, la Macedonia, la Serbia, la Bosnia, la Croazia, la Slovenia, fino all’Italia. Vorrebbe rimanere in Italia, ma se lo cose continuano così sarà costretto a riprendere il viaggio.
“Non è possibile andare avanti così”, dice con un filo di voce, mentre intorno si è radunato un gruppetto di connazionali. “Che succederà quando arriverà l’inverno?”, chiede.
Vite abbandonate
Secondo il rapporto Vite abbandonate (pubblicato da sei organizzazioni tra cui Ics, diaconia Valdese, Comunità di san Martino al campo, Donk, Irc e Linea d’ombra) sono più di quattrocento le persone che a Trieste vivono in strada o nei silos, perché non ci sono posti nel sistema di accoglienza, anche se avrebbero diritto a vivere in un centro.
“Questo è un fenomeno che registriamo dal giugno del 2022, quindi da circa un anno”, spiega Gianfranco Schiavone, presidente dell’Ics – Consorzio italiano di solidarietà di Trieste. “Nonostante gli arrivi giornalieri non siano fuori scala (si tratta di circa dieci persone al giorno in media) il sistema di accoglienza è in affanno, soprattutto perché sono stati interrotti i trasferimenti dal Friuli-Venezia Giulia verso altre regioni italiane”, continua l’esperto. Per Schiavone, il paradosso è che i richiedenti asilo riescono a fare domanda di asilo in questura, tranne in alcune occasione, ma poi non ricevono alcuna assistenza, né risposte dal punto di vista dell’accoglienza.
“Le domande di accesso ai dormitori sono costantemente maggiori rispetto ai posti disponibili. L’82 per cento di coloro che usufruiscono del sistema di bassa soglia sono richiedenti asilo”, è scritto nel rapporto. “Considerato che molte delle persone che arrivano dalla rotta balcanica entrano in Italia solo per transitare verso il Nordeuropa, questo sistema è di fatto un modo per incentivarle ad andarsene”, denuncia l’esperto di politiche dell’accoglienza, secondo cui tra i richiedenti asilo ci sono molti minorenni, che tuttavia sono registrati come maggiorenni.
“Qui abbiamo un problema di ‘falsi adulti’, non di ‘falsi minorenni’ come dice la propaganda: molti minorenni si dichiarano maggiorenni per non essere trattenuti in Italia. Questo li espone a maggiori pericoli”, conclude l’esperto. Il quadro, già molto critico alla frontiera orientale, è inoltre destinato a peggiorare a causa della ripresa dei controlli alle frontiere con la Slovenia e con l’Austria, in seguito alla sospensione degli accordi di Schengen e al clima generale che si respira negli ultimi giorni.
Respingimenti e violenze
L’Italia ha ripristinato i controlli alla frontiera con la Slovenia a partire dal 21 ottobre per dieci giorni, ma il ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha già annunciato che la sospensione degli accordi di Schengen potrebbe essere estesa.
Roma non è l’unica ad avere adottato una misura simile: lo hanno fatto altri undici paesi tra cui la stessa Slovenia, l’Austria e la Germania. In realtà gli accordi di Schengen – che consentono la libera circolazione delle persone all’interno del territorio dell’Unione europea a partire dal 1985 – non sono stati propriamente sospesi, perché gli accordi stessi prevedono che in casi eccezionali, gli stati possano decidere di ripristinare i controlli.
Questa decisione dev’essere giustificata però da una “minaccia grave per l’ordine pubblico e la sicurezza interna” o da “gravi lacune relative al controllo delle frontiere esterne” che potrebbero mettere in pericolo “il funzionamento generale dello spazio Schengen”, come si legge nella documentazione della Commissione europea.
Il 26 ottobre, parlando in un’informativa al comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’accordo di Schengen, il ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha spiegato: “Tra le ragioni che hanno indotto a tale valutazione è emerso l’aumentato rischio di penetrazione terroristica dei flussi lungo la rotta balcanica, che, per caratteristiche geografiche e provenienza prevalente dei migranti, appare particolarmente vulnerabile”.
Quindi ha aggiunto: “Oltre alla vulnerabilità intrinseca della rotta balcanica, una complicazione aggiuntiva deriva dal fatto che il già elevato numero di attraversamenti illegali della frontiera lungo la rotta balcanica potrebbe subire un forte incremento in conseguenza dell’effetto combinato del ripristino dei controlli alle frontiere interne da parte degli Stati di area Schengen dell’Europa centrale, ossia Slovenia, Austria, Polonia e Repubblica Ceca”.
Piantedosi ha detto inoltre che a una settimana dall’adozione della misura sono state controllate “3.142 persone in ingresso sul territorio nazionale e 1.555 veicoli”. E questa attività ha portato all’individuazione di “66 cittadini stranieri in posizione irregolare” e ha dato luogo “a 28 respingimenti e due arresti, di cui uno per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e dodici denunce all’autorità giudiziaria”.
Per Gianfranco Schiavone, che gestisce un centro di prima accoglienza per richiedenti asilo al valico di Fernetti, al confine con la Slovenia, nella prima settimana di entrata in vigore della misura in effetti è stato registrato un minore afflusso di migranti: “C’è un utilizzo strumentale della crisi internazionale e dell’allerta terrorismo. L’unico scopo di questa misura è quello di ostacolare il passaggio dei migranti alla frontiera”.
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Per Schiavone, nonostante l’Italia sia già stata condannata due volte per i respingimenti di migranti, operati al confine con la Slovenia, una volta nel 2021 e un’altra volta nel maggio del 2023, Roma potrebbe avere ripreso a rimandare i migranti in Slovenia, in base a un accordo informale tra le autorità di polizia italiane e quelle slovene che prevede queste cosiddette “riammissioni”. “Nonostante le condanne, l’Italia potrebbe avere ripreso a respingere. Chiederemo l’accesso agli atti per capire cosa sta succedendo”.
E non solo, dalla Croazia arrivano le notizie peggiori: “Le organizzazioni che si occupano dei diritti umani in Bosnia-Erzegovina e Croazia denunciano che la polizia croata ha ripreso a usare la violenza e i trattamenti inumani verso i migranti al confine. A partire dal 2020 queste violenze da parte della polizia croata erano diminuite, grazie alle numerose denunce e indagini internazionali. Ma ora sono riprese come in passato”. Uno degli effetti collaterali di questi accordi tra stati per fermare i migranti è una specie di effetto a catena: il campo Lipa, a Bihać, in Bosnia-Erzegovina è di nuovo pieno di persone che sono state respinte dalla Croazia, ma anche dalla Slovenia e dall’Italia.
Per Schiavone, “viene stravolta una legge dell’Unione europea, come gli accordi di Schengen, per ragioni politiche. La gestione delle migrazioni, infatti, non può essere una motivazione sufficiente per sospendere Schengen, perché la migrazione non è un fatto straordinario”.
Ma per l’esperto, invece, questo è il vero motivo del ripristino dei controlli, che tuttavia produrrà problemi anche economici al territorio: “Ci sono migliaia di lavoratori transfrontalieri che ogni giorno devono attraversare quella frontiera e riprendere i controlli significa ostacolarli”.
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