Molti conoscono quell’articolo sul “pozzo” di Natalia Ginzburg, pubblicato nel 1948 sulla rivista Mercurio, diretta dalla sua amica, la scrittrice Alba de Céspedes. Quello in cui Ginzburg parlava della malinconia particolare in cui cadono di tanto in tanto le donne – tutte le donne – di qualsiasi origine e classe sociale. Quel pozzo che è la loro infelicità e che deriva da secoli di subalternità. Quel pozzo con cui devono fare i conti anche quelle più libere: la fatica e la sofferenza, cioè, di affrontare un mondo che non è stato fatto per loro e che non le prevede, se non in ruoli marginali.
“Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla”, scriveva Ginzburg su Mercurio.
E ancora: “M’è successo di scoprire proprio nelle donne più energiche e sprezzanti qualcosa che mi induceva a commiserarle e che capivo molto bene, perché ho anch’io la stessa sofferenza da tanti anni e soltanto da poco tempo ho capito che proviene dal fatto che sono una donna e che mi sarà difficile liberarmene mai”.
A quel pozzo si pensa subito e continuamente, quando appaiono sulla scena Barbara, Tosca, Flaminia e Letizia, le quattro donne – di età e classi sociali diverse – che sono le protagoniste di Fragola e panna (Einaudi 2023), la commedia in due atti scritta da Ginzburg nel 1966 (prima della rivoluzione sessuale, del sessantotto, del referendum italiano sul divorzio) e portata in scena da Nanni Moretti nel suo Diari d’amore, insieme a un’altra opera della scrittrice, Dialogo, in questi giorni sul palco dell’Arena del sole di Bologna e poi in tournée in tutta Italia. Alla sua prima esperienza da regista teatrale, Moretti sceglie due testi di Ginzburg, una scrittrice a cui è molto legato. Fragola e panna non è mai stato messo in scena.
Quattro diverse infelicità
Le quattro donne di questa commedia sono tutte espressioni diverse di quell’infelicità. Flaminia, la padrona di casa, è la più ambigua, la più compromessa. È benestante, ha una bella villa in campagna, ma ha sposato un uomo che l’ha sempre tradita e con cui vive da separata in casa, in un isolamento e un’ipocrisia che risultano insopportabili anche alla domestica, Tosca, che ripete continuamente di volersene andare.
“Di Cesare ora non me ne importa più niente, ma prima di arrivare a questo distacco, ho sofferto, mi sono lacerata e straziata”, confessa a un certo punto Flaminia mentre parla con Barbara, la giovanissima amante del marito, che è venuta a cercarlo a casa in un giorno di neve con un’enorme valigia, per sfuggire alla rabbia del suo di marito, che l’ha picchiata, dopo avere scoperto il tradimento.
Tra le due donne si crea subito un’intimità, si specchiano, per un attimo intuiscono il fondo di quel pozzo in cui entrambe sono precipitate. Ma poi ciascuna torna a recitare la sua parte: Flaminia dà dei soldi e da mangiare a Barbara, e poi la caccia di casa e la fa portare dalla sorella Letizia in un convento di suore. E quando torna Cesare, il marito, continua a recitare la parte della complice.
Anche se poi scopre un disagio nuovo di fronte al cinismo del marito, un malessere che è stata Barbara – la ragazza sprovveduta e disperata che le è piombata in casa – a scatenare. Flaminia è gelosa du Barbara, ma non di Cesare, per l’amore che Barbara è capace di provare e che lei invece non sa sentire più, se non in forma di disprezzo. “Lei è innamorata di te, chissà cosa vede in te e io invece so quello che sei, sei niente, un uomo di niente”, dice a un certo punto al marito, che si è seduto sul divano del salotto, al centro della scena per tutto lo spettacolo.
Mentre Flaminia scende nel pozzo e scopre una nuova coscienza di sé, Cesare minimizza le sue responsabilità, prova a manipolare la moglie promettendole una crociera e dipinge Barbara come una persona malata e marginale. “Sapete cosa fa a quest’ora? Gira la città da un caffè all’altro, mangiando gelati. La sua passione sono i gelati di fragola con panna. È capace di mangiarne dieci in un solo pomeriggio. Ha lo stomaco di un rinoceronte”, dice con freddezza, per mettere a tacere la moglie e la cognata che sono preoccupate per la sorte della ragazza.
Cesare è interpretato da uno dei più importanti attori teatrali italiani, Valerio Binasco, che veste i panni di un uomo, vile e cinico, con molto calore. L’effetto è un personaggio senza salvezza, che tuttavia sembra consapevole della sua meschinità. Quello di Cesare è un maschile che alza le mani e si consegna: mostra la radice marcia che lo ha prodotto. Ma non chiede perdono.
Colpisce la scelta di avere affidato a due attori di grande esperienza e spessore dei ruoli secondari. Binasco è Cesare, mentre Daria Deflorian, altro nome di spicco della scena teatrale italiana, veste i panni della governante Tosca. Il personaggio di estrazione più bassa, eppure il più moderno della pièce. Madre single e lavoratrice, la domestica Tosca è l’unica ascolta la ragazza, l’unica che da subito empatizza con lei, pur non capendo esattamente a che titolo stia bussando alla porta della casa in cui lavora.
Tosca ripete continuamente che sta per andarsene, perché la casa è troppo isolata, non le piace la campagna, c’è troppo silenzio e in sostanza si respira troppa infelicità: “Non sarebbero cattivi, però non danno grande soddisfazione. Mangiano e non dicono è buono, è cattivo. Niente. Non ti dicono mai niente”.
Incontrarsi da un’altra parte
Quando le hanno proposto di fare il provino per il ruolo di Tosca, Daria Deflorian stava lavorando a un altro progetto suo, che ha dovuto rimandare, ma non le è costato fatica. Voleva partecipare all’esordio teatrale di Moretti, che l’aveva già diretta nel film Tre piani. “Non credo di avere fatto un buon provino, non credo di sapere fare provini. C’era un grande imbarazzo tra me e Nanni”, racconta Deflorian il giorno dopo il debutto di Diari d’amore a Bologna.
“Per me è stato molto importante provare che potevo recitare senza scegliere nulla, provare a fare quello che dice Jorge Luis Borges in uno dei suoi libri, riscrivere il Don Chisciotte senza cambiare una virgola. È un lavoro che a livello attoriale mi sta confortando: eseguo e basta. Altrimenti il ventaglio dei personaggi che si possono interpretare nel corso di una vita diventa limitato”, spiega Deflorian, che è anche autrice e regista.
“Per me interpretare Tosca ha significato interpretare un personaggio senza indossare la maschera, cioè la possibilità d’incontrarmi da un’altra parte, in un testo del passato, scritto da Ginzburg, che non mi appartiene affatto. È stata la possibilità di non abituarsi a interpretare solo quello che ci assomiglia, stare solo dentro al simile. Stare in scena è un piccolo allenamento a metterci nei panni dell’altro”, continua a spiegare l’attrice.
“Per esempio all’inizio avevo messo nel personaggio di Tosca una mia idea di classe: cioè l’idea che la domestica fosse più in gamba del lavoro che faceva, che meritasse molto di più. Invece Moretti mi ha detto: ‘No, lei è molto orgogliosa del lavoro che fa’. Queste poche parole da subito mi hanno guidato nel lavoro”, racconta Deflorian, che da ragazza ha dovuto lavorare come domestica per guadagnarsi da vivere. “Pensavo che l’altro da me fosse interpretare una donna borghese annoiata, come il personaggio che ho fatto in L’origine del mondo di Lucia Calamaro. E invece uscire da me ha significato interpretare una domestica orgogliosa del suo lavoro”, spiega.
“Una cosa che mi piace molto di Tosca è che dalla cucina ascolta tutto, c’è anche quando non è in scena. Ogni tanto quel personaggio mi ha fatto pensare alle badanti di mia madre, che stavano così lontano dai loro figli, dalla loro famiglia. Donne che hanno fatto scelte ‘dannate’, ma che in queste decisioni di migrare per lavorare interpretano il desiderio di stare in vita, di proseguire la vita”.
Moretti ha deciso che la messa in scena delle commedie fosse molto rispettosa del testo di Ginzburg, interpretato anche dagli attori in maniera scrupolosa. “Ci ha chiesto anzi di calcare le parole che non si usano più e che ci riportano indietro nel tempo”, racconta Deflorian.
Questo anche per esaltare le caratteristiche del linguaggio della scrittrice piemontese, che da qualche anno vive una riscoperta, dovuta anche al successo delle traduzioni in inglese dei suoi romanzi fatte dalla famosa traduttrice statunitense Ann Goldstein (la stessa che ha portato negli Stati Uniti la trilogia di Elena Ferrante). “Ginzburgmania” l’ha definita Davide Coppo in un lungo articolo su Rivista Studio, in cui ha intervistato anche il curatore italiano delle opere di Ginzburg per Einaudi, Domenico Scarpa.
“Ci ritroviamo tutti, alla fine di un burnout lavorativo, di un amore finito, di un altro anno portato avanti senza certezze, a pensare come la povera Barbara di Fragola e panna: ‘Ma come farò, tutta la vita? Sarà tutta la vita così?’”, conclude Coppo, che ricorda la passione di una scrittrice contemporanea come Sally Rooney per Ginzburg. Uno dei motivi della modernità dei testi di Ginzburg, del suo continuare a parlarci oltre il tempo, sta nella lingua: piana, precisa, sobria, vicina al parlato.
“La lingua di Ginzburg è bella da leggere, ma è ancora più bella da recitare. Prima di lavorare a questo spettacolo non ero un’appassionata dei suoi libri, ma ho scoperto nei suoi testi questa capacità di prendere posizione anche nell’incertezza. La sua forza è che non può fare mai a meno dell’altro. Il suo femminile non vuole rinunciare, per esempio, al dialogo con il maschile, anche se lo spazio di libertà è minimo”, racconta Deflorian.
La domestica, Tosca, nel suo rivendicare il suo disagio, dicendo che se ne vuole andare, “parla in fondo della necessità che ci siano gli altri, esprime il desiderio di relazione, di comunicazione, che non trova nella villa, in quella coppia borghese che si regge sull’ipocrisia”.
Secondo l’attrice, quello che funziona dei dialoghi di Ginzburg è che c’è sempre “qualcosa che non torna, c’è come un desiderio di un abbraccio, ma questa ricomposizione non arriva mai”.
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