Decidere di non decidere: crogiolarsi nell’impasse quando si parla di diritti civili, sembra diventata un’abitudine per la politica italiana. Ma l’inerzia del legislatore ha spesso risvolti drammatici per chi aspetta. Lo ha spiegato, in poche e misurate parole, Fabio Ridolfi, quarantaseienne di Fermignano immobilizzato da quasi metà della sua vita a causa di una tetraparesi. Pur avendo diritto al suicidio assistito è stato costretto, a causa di lungaggini burocratiche e di decisioni non prese da chi avrebbe dovuto, a imboccare un’altra strada per mettere fine, il 13 giugno, alla sua sofferenza. “Basta trattarci come cittadini di serie B, è assurdo che ci voglia più di un mese per individuare il farmaco mortale. Grazie al vostro menefreghismo sono costretto a scegliere la sedazione profonda”.
Lo racconta anche la storia di Mario, vero nome Federico Carboni, che il 17 giugno è diventato la prima persona in Italia a ricorrere al suicidio assistito: per un buco normativo, però, avrebbe dovuto pagarsi da solo macchinario e medicine. E solo una raccolta fondi promossa dall’associazione Luca Coscioni gli ha consentito di non essere costretto ad attendere ancora.
Il ruolo dei magistrati
Quando si parla di diritti, la regola dei vuoti che finiscono per essere riempiti vede sempre più spesso soccombere la funzione parlamentare, e con lei i partiti, scavalcati talvolta dalla magistratura ordinaria, talvolta da altri organi costituzionali, che si esprimono su casi sollevati da cittadini stanchi di aspettare. D’altra parte se Mario, e i tanti altri che sono nella sua stessa condizione, possono chiedere di accedere al suicidio assistito non è certamente perché le camere si sono preoccupate di votare una legge sul fine vita. Ci è voluta la sentenza della corte costituzionale del 2019, arrivata dopo ammonimenti al parlamento caduti nel vuoto. E ora il paradosso è che c’è chi, come l’associazione Coscioni, ritiene che sarebbe meglio che il parlamento non intervenisse più perché bisogna evitare “una legge peggiore della sentenza”.
Non è stato l’unico caso in cui la corte costituzionale negli ultimi anni ha supplito al ruolo del legislatore in tema di diritti, come dimostra la recente sentenza sul cognome dei figli, che parte dalla difesa del principio costituzionale dell’uguaglianza dei genitori. Le proposte di legge per regolare questa materia non mancano, ne sono state presentate sia alla camera sia al senato dove l’iter è anche cominciato a febbraio in commissione giustizia per arenarsi subito dopo, principalmente per le resistenze della Lega, rappresentata da Simone Pillon, animatore del Family day e autore – ai tempi del primo governo guidato da Giuseppe Conte – di una controversa proposta di legge sull’affido condiviso e sulla bigenitorialità.
La sentenza del 27 aprile 2022 non è stata peraltro la prima in cui la corte costituzionale ha affrontato il tema del doppio cognome. Già nel 2016 era intervenuta per dichiarare illegittima la norma che non consentiva ai coniugi di trasmettere ai figli anche il cognome materno. Solo un primo passo, che non bastava a chiarire, per esempio, il meccanismo di attribuzione per i figli di coppie non sposate, o se si potesse trasmettere il solo cognome materno. Tutti punti su cui avrebbe dovuto intervenire il parlamento, ma poi sei anni sono passati invano e la corte è dovuta intervenire nuovamente, dando vita a una rivoluzione nel diritto di famiglia. Grazie a questa nuova pronuncia, dunque, la regola sarà che il figlio assumerà il cognome di entrambi i genitori nell’ordine che avranno concordato, a meno che non decidano insieme di attribuirne solo uno. In mancanza di accordo, la pratica passerà nelle mani di un giudice. Ma al di là degli effetti pratici della sentenza, che è già in vigore, la corte costituzionale ha sottolineato la necessità di un intervento legislativo “impellente” per evitare che nel corso delle generazioni si determini un “meccanismo moltiplicatore”, così come ha suggerito che la scelta del cognome fatta per il primo figlio sia vincolante anche per eventuali fratelli e sorelle. Un monito più che un invito.
Come spiega Tania Groppi, costituzionalista dell’università di Siena, la corte “di solito ricorre a soluzioni interlocutorie, che non hanno conseguenze immediate sull’ordinamento, accompagnate da un monito al legislatore. Poi, se persiste l’inerzia, passa a soluzioni più incisive e infatti negli ultimi anni ha adottato decisioni su importanti materie, sulle quali aveva lungamente ammonito a intervenire”. Peraltro, nella sua relazione annuale, il presidente della corte costituzionale Giuliano Amato ha parlato di “moniti in costante crescita”: si è infatti passati dai 10 del 2018, ai 20 del 2019, ai 25 del 2020 fino ai 29 nel 2021. Insomma, quello del doppio cognome è uno di quei casi in cui la corte costituzionale ha di fatto dato vita a una norma provvisoria per colmare una lacuna. Ma i giudici non possono andare oltre il riconoscimento di un principio, la necessità di una legge non viene superata. È per questo che in alcuni casi la corte ha cominciato a dare un termine di tempo al parlamento per rimediare prima di essere costretta a pronunciarsi.
Un caso emblematico è certamente quello del fine vita. A marzo del 2022 la camera ha approvato un testo frutto di un lungo lavoro di mediazione, che però continua a essere avversato dal centrodestra, e che è attualmente bloccato in commissione al senato. Ma a questo mezzo risultato si è arrivati dopo un percorso costellato di fallimenti del parlamento.
Suicidio assistito
L’eutanasia in Italia è ancora illegale ma se si può parlare di suicidio assistito è grazie a un tribunale, quello di Milano, e alla corte costituzionale. Il 27 febbraio del 2017, infatti, Marco Cappato, esponente dell’associazione Luca Coscioni, accompagnò Fabiano Antoniani, a tutti noto come dj Fabo, in una clinica in Svizzera per porre fine a quella vita che lui stesso definiva “una gabbia” da quando, a causa di un incidente stradale, era rimasto cieco e tetraplegico. Tornato in Italia, Cappato si autodenunciò, anche con l’obiettivo di sollevare il caso nell’opinione pubblica. Ne seguì un processo in cui era imputato con l’accusa di aiuto al suicidio, ma nel febbraio del 2018 la corte d’assise di Milano decise di chiamare in causa la corte costituzionale. Tecnicamente venne sollevata una questione di costituzionalità di una norma del codice penale, articolo 580, nella parte in cui non escludeva la punibilità di chi avesse aiutato a suicidarsi una persona affetta da grave e irreversibile patologia, totalmente consapevole e informata su ciò che stava facendo.
La corte in quella occasione decise di scegliere una strada innovativa: rinviò la propria sentenza a settembre 2019, dando al parlamento un anno di tempo per legiferare. Quel provvedimento però non è mai arrivato e alla fine la corte ha emesso il pronunciamento in base al quale, nel dicembre 2019, Marco Cappato è stato assolto con formula piena. La legittimità di ricorrere al suicidio assistito è stata confermata, ma restano in piedi tutti quei nodi che vengono affrontati nel disegno di legge che giace al senato, dai criteri per poter accedere alla pratica fino all’obiezione di coscienza dei medici. Le possibilità che venga approvato entro la fine della legislatura sono però decisamente ridotte e la strada del referendum è stata interrotta dalla stessa corte costituzionale, che ha dichiarato inammissibile il quesito. Il rischio è dunque che il provvedimento sul fine vita finisca nel lungo elenco dei “vorrei ma non posso” di questo parlamento, insieme alle norme contro l’omotransfobia, il cosiddetto ddl Zan, affossato in senato tra gli applausi e la sguaiata esultanza del centrodestra. O alle nuove regole per ottenere la cittadinanza italiana – lo ius scholae – che, dopo un iter travagliato in commissione, mercoledì 29 giugno dovrebbe arrivare all’esame dell’aula della camera.
Il rinvio del rinvio
La prassi di concedere un anno al parlamento è stata attuata anche per l’ergastolo ostativo. Il 15 aprile del 2021 la corte aveva spiegato di considerare illegittimo il rifiuto della liberazione condizionale per gli ergastolani condannati per mafia che avevano scelto di non collaborare con la giustizia e aveva chiesto di modificare la disciplina, concedendo tempo fino a maggio di quest’anno. In questo caso c’è stata un’ulteriore innovazione, poiché la corte ha deciso un altro rinvio di sei mesi, fino all’8 novembre, in modo che il senato possa completare l’iter del provvedimento che ha già avuto il via libera della camera.
La scelta ha suscitato critiche, alle quali Giuliano Amato ha risposto in un’intervista al Corriere della Sera: “Noi non siamo la maestrina del parlamento. Non diamo ordini, rivolgiamo inviti e non potremmo fare altrimenti. Se in un anno il parlamento non si mostra in grado di affrontare una questione, com’è avvenuto per il suicidio assistito o il doppio cognome, io posso prendere la mia decisione senza tradire la leale collaborazione. Ma far valere una scadenza e non dare peso ai lavori in corso, soprattutto su questioni complesse, indebolirebbe la mia stessa credibilità rispetto alla leale collaborazione”.
Un anno di tempo al parlamento non è bastato neanche per risolvere la questione del carcere per i giornalisti rei di diffamazione a mezzo stampa. E così, ancora una volta, è stata la corte costituzionale a intervenire stabilendo che l’automatismo è incostituzionale e che una misura del genere può essere giustificata solo in casi di “straordinaria gravità”.
A volte, però, il soccorso costituzionale non basta. Ci sono materie in cui anche la corte sceglie di non decidere, optando per continuare a inviare moniti alle camere. Tra queste, c’è il tema della omogenitorialità. Nel 2020 ha infatti dichiarato inammissibile, ossia non di sua competenza, una questione di costituzionalità partita dalla richiesta di due donne di essere registrate entrambe come madri di un figlio nato da fecondazione eterologa. Allo stesso tempo, però, ha spiegato che era “compito del legislatore colmare il vuoto normativo”. Uno schema simile si è ripetuto anche per un altro tema molto delicato: la gestazione per altri. Anche in questo caso, infatti, la corte, chiamata a esprimersi sullo stato civile di bambini nati con una pratica che in Italia è vietata per legge, ha optato per l’inammissibilità ma ha chiesto al parlamento di prevedere delle norme a tutela dei minori e di dare un riconoscimento giuridico al legame con la coppia che se ne prende cura. Entrambi i moniti sono rimasti voci nel deserto in questa legislatura, che non ha mai nemmeno affrontato né l’una né l’altra questione.
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