La decisione della Corte suprema statunitense su Roe vs Wade – vale la pena di ricordare che era una sentenza sulla privacy e non sull’aborto; e che tanti avevano promesso di rafforzarla con una legge federale sull’aborto ma poi se ne sono dimenticati – può essere un’occasione per chiederci come sta il diritto di abortire in Italia. E scoprire che non è un diritto in senso forte: la legge 194 che lo regola infatti elenca delle condizioni in cui non è più reato abortire ma non prevede il non volere portare avanti una gravidanza, il non volere un figlio o non volerne un altro. Lo spirito concessivo e difensivo della legge è un bel guaio, forse il suo peccato originale. Che potrebbe essere perdonato, almeno in parte, se la legge fosse applicata bene. Ma lo è?
Non lo sappiamo. Per una ragione banale e ovvia: per rispondere e per parlarne sensatamente ci servono i dati. E i dati che abbiamo sono chiusi e quindi utili solo in parte. Ci dicono che il 93,4 per cento delle interruzioni di gravidanza è fatto entro le 12 settimane (il 56 per cento entro le 8 settimane); che la media nazionale dei ginecologi obiettori è del 64,4 per cento o che in Molise si arriva all’82,8. Ma i dati che l’Azienda sanitaria del Molise (Asrem) ha mandato a me e a Sonia Montegiove la scorsa estate ci dicono qualcosa di diverso, sia come percentuale sia soprattutto come informazione: ad agosto 2021 in Molise era possibile interrompere una gravidanza solo in un ospedale, a Campobasso, dove c’erano due medici non obiettori su 29. Oggi a quanto pare c’è solo una dottoressa non obiettrice e l’aborto farmacologico non viene quasi utilizzato.
Mappa monca
Per conoscere davvero lo stato di applicazione della legge 194 dovremmo sapere cosa succede in ogni struttura. Non solo il numero degli obiettori di coscienza, ma tutti gli indicatori che il Ministero della salute ritiene utili e che usa per la relazione annuale.
A quei criteri dovremmo aggiungerne altri, come i non obiettori che non eseguono le interruzioni di gravidanza e uno studio sulla formazione degli operatori sanitari e degli specializzandi, sulla qualità del servizio offerto e delle informazioni, sulla facilità di ottenerle. E sulla effettiva ricezione delle linee di indirizzo sulla RU486, l’aborto farmacologico. C’è in tutte le regioni la possibilità di usare questa tecnica invece dell’intervento chirurgico? Si può fare ambulatorialmente?
Abbiamo una mappa monca, sfocata e vecchia. Una mappa così non serve a niente. Non serve a chi vuole sapere se la legge è ben applicata e non serve alle donne che vogliono – vorrebbero – scegliere dove andare e sapere se nell’ospedale vicino c’è il servizio di interruzione della gravidanza e se possono scegliere tra chirurgico e farmacologico.
Si può rimediare? Certamente. Cominciando con l’apertura dei dati. Che non basta, ovviamente, come non basta avere una mappa del luogo che dobbiamo raggiungere per escludere incidenti o imprevisti. Ma è una condizione necessaria, perché sicuramente con una mappa vecchia o senza un indirizzo specifico non si arriva a destinazione. Come fare? Usando la tecnologia e copiando chi lo ha già fatto, come il Regno Unito o la Spagna ma anche la regione Lombardia. Quest’ultima ha un modello che potrebbe essere riutilizzato, senza costi, per avere i dati in formato di flusso. Non del 2020, non chiusi per regione.
Perché non lo facciamo? Perché il Ministero della salute pubblica un pdf chiuso con i dati di due anni fa invece di aprirli, ignorando il Foia (Freedom of information act, che garantisce il diritto di accesso alle informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni)? Il sospetto è che quando hai ben illuminato i difetti non puoi più fare finta di non conoscerli e non puoi continuare a non risolverli.
L’articolo 9 della legge 194 è interpretato in modo molto approssimativo
Oltre alla necessità dei dati, sappiamo per certo che l’articolo 9 della legge 194 è interpretato in modo molto approssimativo. Anche se l’obiezione di coscienza è prevista per le “attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza”, non sembra essere un problema per nessuno che a obiettare siano anche gli anestesisti e gli operatori sociosanitari. Perché? Anche se l’obiezione non può essere usata per “l’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”, non sempre i non obiettori garantiscono questa assistenza prima e dopo l’intervento. Perché?
La strategia indiretta
Aveva ragione Corrado Guzzanti nelle vesti di Padre Pizzarro, quando suggeriva che per risolvere l’orrida piaga dell’aborto legale la strategia migliore è quella indiretta. “Continuiamo a piazzare obiettori di coscienza dappertutto”. E poi rimandare e rimandare. La pillola “arriva fra nove mesi, ciao panzo’”.
Infine, è forse difficile evitare la domanda centrale: è moralmente difendibile la libertà di abortire? Sì, sarebbe moralmente ripugnante vietarla. E sarebbe anche impossibile. Perché l’unica alternativa è l’obbligo di gravidanza e ogni volta mi chiedo: ma come? Cioè come facciamo a impedire alle donne di cercare una soluzione, di ordinare il Cytotec (un farmaco per l’ulcera che fa anche abortire) o di andare altrove? Controlliamo le donne fertili e potenzialmente a rischio di gravidanza? E poi le chiudiamo in un edificio destinato alla protezione della stirpe? Almeno i conservatori e chi condanna l’aborto dovrebbero spiegarci come si fa.
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