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“Domani durante la conferenza stampa cercate di non piangere”. È il pomeriggio del 15 giugno 2022, siamo a Senigallia e Mario ha deciso che il giorno dopo spingerà un pulsante e morirà. Non lo possiamo promettere, penso, soprattutto io che sono una piagnona (ma non lo dico, non dico niente). Mario il giorno dopo spinge il pulsante e muore. Mario era Federico Carboni, aveva quarantaquattro anni e da dodici era paraplegico dopo un incidente stradale che gli aveva rotto la schiena. Quel pomeriggio del 15 giugno, poche ore prima, aveva scherzato su come eravamo vestiti, una maglietta non stirata o la barba da fare. La mattina dopo aveva esaudito quello che da più di due anni era il suo desiderio: non vivere più così, quasi immobile in un letto.
Non è stato facile, nonostante fosse un suo diritto grazie alla sentenza 242 della corte costituzionale di pochi anni prima. Quella sentenza era la risposta al quesito di legittimità costituzionale sollevato dal tribunale di Milano dopo che Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, aveva accompagnato Fabiano Antoniani in Svizzera. Anche Fabiano aveva avuto un incidente, anche Fabiano era immobile e a un certo punto aveva deciso che basta, non voleva più vivere così. Che quella, secondo lui, non era più una vita che desiderava.
E quando Cappato era tornato in Italia si era autodenunciato, perché secondo un vecchio articolo del codice Rocco era reato non solo istigare al suicidio ma pure aiutare qualcuno che aveva deciso per i fatti suoi. Secondo l’articolo 580 del codice penale, sull’istigazione o l’aiuto al suicidio, “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni”.
La corte, nel 2019, aveva dichiarato l’illegittimità di una parte di questo articolo, che risale agli anni trenta, un’epoca indifferente alle libertà personali e precedente agli articoli della costituzione che proteggono i nostri diritti fondamentali dal 1948. Ne aveva dichiarato l’illegittimità “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli articoli 1 e 2 della legge 219 del 22 dicembre 2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.
Assenza di garanzie
Quindi aiutare qualcuno in determinate condizioni non è più un reato. E oggi siamo un po’ più liberi grazie alla corte costituzionale – e grazie a Fabiano Antoniani e a Marco Cappato – e non all’ultima legge discussa in parlamento, che non è stata approvata ed è meglio così.
Il testo di quella legge sul suicidio assistito arrivato in senato avrebbe infatti peggiorato la sentenza numero 242 senza superarne i limiti, come l’assenza di garanzie sui tempi di verifica delle condizioni di chi chiede di poter accedere al suicidio assistito e sui tempi delle risposte, e il fatto che chi chiede il suicidio assistito deve soddisfare il requisito del cosiddetto “sostegno vitale”, cioè deve dipendere da trattamenti che lo mantengono in vita (Fabiano Antoniani quel requisito lo aveva e i quindici giudici della corte hanno risposto a questo caso specifico).
“Avrei preferito morire nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia e di mio marito”
Le conseguenze di quel requisito e di quell’assenza si capiscono meglio con altre due storie: quella di Elena e quella di Fabio. Elena era “solo” una malata oncologica e non era ancora arrivata a una condizione in cui avrebbe avuto bisogno di un sostegno vitale, anche nel significato più ampio che possiamo immaginare, come un farmaco o una Peg, cioè una sonda applicata chirurgicamente per somministrare le sostanze nutritive direttamente nello stomaco.
Elena non voleva continuare a vivere aspettando i sintomi più invadenti della sua malattia incurabile. E allora ha scelto di andare in Svizzera perché in Italia non poteva morire, nonostante quello che dice la costituzione e nonostante la sentenza numero 242. Marco Cappato l’ha accompagnata, rischiando ancora una volta l’imputazione e anni di detenzione. “Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia e la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e, quindi, sono dovuta venire qui da sola”, ha detto Elena.
La seconda storia è quella di Fabio Ridolfi, esasperato dalle mancate risposte e dall’attesa, ha scelto la sedazione profonda. E non so se scegliere è il verbo giusto, perché Fabio aveva chiesto alla propria azienda sanitaria di verificare le sue condizioni per poter accedere al suicidio assistito, proprio come previsto dalla sentenza della corte. Ma nonostante un gruppo di medici fosse andato a visitarlo e avesse scritto la relazione, quel documento era rimasto in qualche cassetto per quaranta giorni.
Il paternalismo è una tentazione irresistibile, anche nelle motivazioni pretestuose della inammissibilità del referendum sull’eutanasia
Perché? Non si è mai capito se per sciatteria, per qualche paternalistica intenzione o perché la burocrazia si dimentica che quando aspetti, quando sei bloccato nel tuo corpo immobile da diciotto anni, quando non ne puoi più ogni ora dura mille volte di più. Fabio aveva il diritto di morire a casa sua e come voleva lui – spingendo un bottone. Ma per esasperazione ha scelto di essere addormentato. Per lui è stato uguale, ma per la sua famiglia no. Ed era questa la ragione per cui aveva insistito e aveva provato ad aspettare. Che poi quelle ore tra la sedazione e la morte, mi racconta il fratello Andrea, sono state ore strazianti, di spasmi e convulsioni.
Perché? Perché se non ci sono garanzie dei tempi e delle responsabilità, tutto rimane scritto, ma chissà se sarà applicato. E allora può essere che qualcuno risponda velocemente e non dimentichi di mandare un documento necessario, ma può pure essere che si sia costretti a denunciare, a diffidare, a chiedere inutilmente. Ad aspettare per mesi. La legge e i diritti da soli non bastano. Hanno bisogno della garanzia della loro applicazione e del loro esercizio per non rimanere solo una vana promessa.
Decisione di merito
Oggi in Italia la legge e i diritti sono chiari. E basterebbe prendere sul serio la costituzione per concludere che possiamo decidere di morire; o meglio che siamo liberi di decidere e, tra le decisioni, possiamo smettere di curarci. La legge del 2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento (o testamento biologico), che la corte nomina nella sentenza 242, ha solo rinforzato la nostra libertà, permettendoci di estendere il consenso informato a un futuro più o meno lontano.
Ci sono forse degli aspetti moralmente controversi e difficili? Sicuramente, come per esempio l’accertamento della volontà e delle nostre capacità cognitive, ma quali alternative ci sono? La libertà è un esercizio che richiede sempre dei prerequisiti e che comporta sempre dei rischi, ma non è una ragione sufficiente per limitarla o eliminarla.
Il paternalismo è una tentazione irresistibile, e anche nelle motivazioni pretestuose della inammissibilità del referendum sull’eutanasia (che era stato proposto, tra gli altri, dall’associazione Luca Coscioni) è emerso come unica e (questa sì, inammissibile) ragione. Secondo la corte l’abrogazione di quell’articolo – sebbene parziale e con delle condizioni volte a escludere l’incapacità (per età o per una condizione temporanea o permanente) – era inammissibile perché con l’abrogazione “ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente […] non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.
È stata una decisione di merito, che è una fase distinta dal giudizio di ammissibilità dei referendum. “La valutazione dell’ammissibilità è infatti un passaggio per valutare la correttezza in virtù delle norme che prevedono un perimetro di ammissibilità dei referendum popolari che sono abrogativi e non per valutare nel merito e politicamente un quesito”, spiega Filomena Gallo, avvocata e segretaria dell’Associazione Luca Coscioni.
Quella decisione, poi, sembra ignorare il quadro normativo attuale e rimandarci indietro di decenni, quando la libertà individuale non valeva niente e a decidere delle nostre vite era qualcun altro: lo stato, il medico, il giudice. “È stato molto difficile accettare la decisione di mio figlio, perché lì per lì quando me l’ha detto, come madre, ti spacca il cuore”, ha detto Rosa Maria, la madre di Federico Carboni. E nemmeno per Federico è stato semplice. Ci sono voluti anni e l’ostinazione di Filomena Gallo, denunce e ricorsi. E non dovrebbe andare in questo modo.
Per proteggere la nostra libertà, una buona legge sul fine vita non dovrebbe poi fare molto: dovrebbe garantire che quel diritto che l’articolo 32 già ci dà sia davvero garantito (cioè serve la garanzia delle risposte e dei tempi) e che non ci siano differenze ingiustificabili tra le persone e le malattie. Perché se sono libera di scegliere, questa libertà non può essere condizionata dal tipo di malattia e di condizioni – una volta accertate le mie capacità cognitive, cioè la mia capacità di capire le conseguenze delle mie decisioni.
Una buona legge ancora non c’è, nonostante i molti inviti al parlamento. Ricordiamo che la corte ha suggerito ancora una volta al parlamento di agire e sono passati altri tre anni da allora. Una cattiva legge non serve, ovviamente, e anzi sarebbe solo dannosa. E se dal parlamento e dal legislatore nulla si muove, i cambiamenti verranno dalle disobbedienze civili.
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