L’ideologia della nuova destra estrema che con tutta probabilità governerà l’Italia dopo le elezioni non viene da lontano: le sue radici fasciste, mai recise del tutto del resto, sono state irrobustite negli anni a cavallo tra i novanta e i duemila proprio dai democratici che avrebbero dovuto contrastare l’intera cultura neofascista. In molti nel campo democratico e progressista devono fare un mea culpa.
Ci fu dopo la fine della prima repubblica una larga iniziativa politica che da una parte accolse con un’ingenuità colpevole i neo e postfascisti nell’alveo democratico (il famoso discorso inaugurale alla camera di Luciano Violante che citava i ragazzi di Salò, nel 1996, fu un punto di non ritorno) e dall’altra cercò in un nuovo nazionalismo presuntamente democratico un sistema di valori adatto a tempi postideologici.
Il fallimento di questa doppia ipotesi palingenetica del campo politico democratico oggi è plateale. E occorre anche riconoscere le responsabilità del principale fautore di questo progetto, Carlo Azeglio Ciampi, il quale ha commesso durante il suo settennato (1999-2006) errori che oggi sono irrimediabili.
La retorica della patria, sbandierata durante la sua presidenza – nei discorsi, nella reintroduzione della parata del 2 giugno, nell’inno nazionale a scuola – non ha portato a una nuova sensibilità diffusa di impegno civico per la propria comunità nazionale, ma ha solo legittimato i rigurgiti neofascisti.
Esaurito il settennato di Ciampi, della religione civica dell’antifascismo come collante sociale si sono perduti molti riti. Ma in politica non esistono vuoti. Così è stato facile per un partito nato in chiave antinazionale come la Lega riciclarsi invece come un partito nazionalista, e mascherare il suo genetico razzismo in un suprematismo di nuovo corso; ed è stato altrettanto facile per un partito dichiaratamente neofascista come Fratelli d’Italia liberarsi perfino delle remore ideologiche che avevano spinto Gianfranco Fini a trasformare il Movimento sociale italiano (Msi) in Alleanza nazionale (An, a Fiuggi nel 1995) ed essere considerato una forza costituzionale addirittura egemone.
Le narrazioni sulle patrie elette portano sempre a questo, a risvegliare identitarismi reazionari. Ma è una lezione che tra i progressisti e democratici ancora non s’impara: in questa campagna elettorale anche a sinistra è ormai condiviso un inquadramento nazionalistico e l’antifascismo sembra una reliquia culturale.
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