L’unicità del barocco genovese, così variegato dal punto di vista stilistico e iconografico, riflette l’eccezionalità politica, sociale ed economica della repubblica ligure tra cinquecento e settecento.
Genova, la Superba, era una repubblica come Venezia ma lì il doge era in carica per soli due anni e veniva eletto tra i ranghi di una nobiltà molto ricca e caratterizzata da una notevole mobilità sociale.
Una superpotenza finanziaria
La finanza, tra i fiumi di argento che arrivavano dalle Americhe, speculazioni e crediti con i più grandi regni d’Europa, era il sistema nervoso della repubblica. La Casa di San Giorgio, più tardi Banco di San Giorgio, fu fondata nel 1407 e fu, a tutti gli effetti, la prima grande banca internazionale europea. Essendo emanazione dalla stessa aristocrazia che governava la repubblica, era quasi uno stato parallelo, il lungo braccio finanziario di un piccolo e vorace stato mercantile.
Dal 1528 Genova era nella sfera d’influenza spagnola e diventò ben presto la prima creditrice dell’impero: i banchieri genovesi finanziavano la corona spagnola e venivano ripagati, con gli interessi, in argento. Territorialmente minuscola, arroccata tra la montagne e il mare, Genova per un secolo e mezzo ha finanziato guerre internazionali e imprese coloniali, accumulando una ricchezza straordinaria.
La mostra SUPERBArocco (un gioco di parole tra “Superba”, l’appellativo della repubblica marinara, e “Barocco”), allestita alle Scuderie del Quirinale, a Roma, cerca di ricostruire il gusto di un’oligarchia ricchissima, tanto provinciale quanto internazionale, ma sempre cosciente della propria differenza.
La mostra romana si apre con una spettacolare pala d’altare del maestro fiammingo Pieter Paul Rubens, I miracoli del beato Ignazio di Loyola, che dà il senso dell’eccentricità del gusto genovese di primo seicento.
Rubens arrivò nel 1606 e per qualche anno lavorò a stretto contatto con l’aristocrazia locale. La pala con i miracoli di sant’Ignazio arriva a Genova da Anversa, più tardi, nel 1620, e fa capire quanto Rubens avesse fatto suo il gusto locale: la scena è teatrale, il santo fa da tramite con il suo gesto e il suo sguardo tra il cielo e la terra, tra lo Spirito Santo e l’umanità sofferente che brulica sotto di lui: vediamo un’ossessa trattenuta da tre uomini e una madre disperata con il suo bambino morto. Rubens inserisce la scena all’interno di una fastosa architettura classica di scorcio, e i gesti dei personaggi sono misurati: la scena è concitata ma le figure si muovono nello spazio con la misurata eleganza di una danza.
Rubens riesce, per assecondare i gusti dei suoi committenti, a creare un’opera aulica e monumentale ma allo stesso tempo piena di vita e di carne: realismo fiammingo su una solida intelaiatura classicista e italiana. Attraversando le altre sale della mostra si vede come il barocco genovese mescolasse con grande libertà stili e spunti iconografici. Nella grande sala dedicata alla ritrattistica del fiammingo Antoon van Dyck, allievo di Rubens attivo a Genova tra il 1621 e il 1627, vediamo come la nobiltà genovese amasse farsi rappresentare: sempre a figura intera, come i papi e gli imperatori. Il realismo fiammingo dà lucentezza e matericità a tessuti preziosi, merletti e gioielli; le pose e gli sguardi alteri sono quelli di un’aristocrazia abituata a trattare direttamente con i potenti della terra.
Argenti, pennuti e divinità
Un’altra caratteristica del barocco genovese è l’attenzione alla pittura di genere, scene popolari di mercato o di mestieri e fastose nature morte mutuate dalla tradizione olandese, con trionfi di frutta, ortaggi e cacciagione.
In mostra c’è un caposaldo di questo genere di pittura: la cosiddetta Cuoca che il genovese Bernardo Strozzi, un prete di alto rango oltre che un apprezzato pittore, dipinse nel 1625. Una giovane fantesca intenta a spennare un’oca s’interrompe per rivolgere uno sguardo furbo allo spettatore. Intorno a lei una gran quantità di polli, quaglie e altri pennuti, un focolare acceso e una lussuosa brocca d’argento.
Al di là del suo significato, forse una rappresentazione alchemica dei quattro elementi, il quadro è un pezzo di virtuosismo pittorico, tutto giocato su corpose pennellate di terre, ocre e grigi, con una geniale nota di rosso per la collana di corallo indossata dalla donna.
La capacità del barocco genovese di assorbire con estro e libertà elementi dall’arte fiamminga, dal classicismo tosco-romano e dal luminismo veneto esplode nel grande (218x316 cm) dipinto mitologico Sacrificio a Pan, realizzato intorno al 1640 da Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto. Anche qui il classicismo delle architetture antiche diventa pura scenografia per una scena mitologica che nella sua mostruosità (le realistiche zampe da capro di Pan, disteso sul suo altare come se fosse a un banchetto) assume contorni molto umani, quasi quotidiani. Le offerte al dio (spighe di grano, fiori e la solita cacciagione) e la grande varietà di animali vivi dipinti nel più minuto dettaglio (mucche, capre e pecore) sono pagine di vivido realismo in un contesto mitologico che di realistico o cronachistico non ha nulla.
Dopo un excursus sulla pittura parietale dei palazzi nobiliari ricostruita attraverso bozzetti e disegni preparatori, la mostra finisce con una strabiliante sala dedicata alla pittura notturna e allucinata di Alessandro Magnasco, l’ultimo grande interprete, nel settecento, della pittura genovese. I suoi paesaggi febbrili, popolati da figure appena accennate e deformate, corrispondono, storicamente, alla rapida decadenza economica e militare della Repubblica di Genova.
Mentre la fortuna della Superba si spegneva nei cieli bui e nelle foreste intricate di Magnasco, Venezia, la repubblica marinara rivale, moriva più dolcemente guardando i cieli spalancati, rosa e dorati, di Tiepolo.
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