“Carla non lo sapeva che alle case
ai palazzi periferici succede
Lo stesso che alle scene di teatro: s’innalzano, s’allargano
scompaiono, ma non si sa chi tira i fili o in ogni caso
non si vede: attraversando da un marciapiede all’altro sono bisce
le rotaie, s’attorcigliano ai tacchi delle scarpe
sfilano le calze all’improvviso – come la remora che in altomare ferma i bastimenti”
Elio Pagliarini, La ragazza Carla, 1962
Nella Ragazza Carla, poemetto di Elio Pagliarini, la Milano del boom economico è un organismo vivente, tentacolare, a volte soffocante che s’intreccia con la vita e le aspettative della giovane Carla, una dattilografa che vive con la madre vedova, la sorella e il marito di lei operaio, in un piccolo appartamento di via Ripamonti.
La Milano della Ragazza Carla è una città che cresce, che avviluppa, che inganna e che fa sentire soli in una folla: è la versione meno sognante e tenera della città di Marcovaldo, con i suoi miraggi al neon che sfarfallano nella nebbia.
Lo scultore lombardo Francesco Somaini (1926-2005), a cui Milano dedica una mostra diffusa tra Palazzo Reale, Museo del Novecento e Fondazione Somaini, aveva un’idea molto simile della sua città. Dopo aver esordito alla fine degli anni quaranta come scultore (il suo percorso è ben ricostruito nei lavori esposti a Palazzo Reale) su una vena inizialmente surrealista e poi sempre più materica e tendente all’informale, comincia ad aprirsi ad altre discipline, soprattutto l’architettura e l’urbanistica.
È il mito umanistico e rinascimentale dell’integrazione tra le arti che per Francesco Somaini “archiscultore” diventa un ripensamento immaginifico e radicale dello spazio della città. Il pensiero dell’artista va ben oltre alla scultura, ai suoi materiali e alla sua realizzazione ma investe tutto lo spazio circostante: le opere per lo spazio pubblico pensate da Somaini interagiscono pesantemente con il tessuto urbano e umano che le circondano.
La scultura per Somaini è un gesto artistico e quindi, in una società capitalistica basata sulla razionalità del profitto, necessariamente sovversivo. L’opera, anche quando è commemorativa o monumentale, non deve essere graziosa o consolatoria, deve occupare lo spazio, definirlo, renderlo inutilizzabile da chi vorrebbe domarlo o monetizzarlo. L’arte non deve rendere facile la vita ai cittadini, deve creare ostacoli, inceppare i ritmi inarrestabili della città-fabbrica.
Una delle grandi preoccupazioni di Somaini, ed erano temi che affrontava con amici architetti come Ico Parisi e Luigi Caccia Dominioni, artisti come Lucio Fontana e scrittori come Giorgio Bassani, era quello del rapporto tra natura e città. Somaini non vedeva i parchi pubblici come ritagli di verde addomesticato ma immaginava, dentro alle città, zone di natura esuberante, incontrollata che, in una lotta quotidiana col cemento, reclamava i suoi spazi.
Nei progetti delle Spine verdi, immaginava cunei di vegetazione selvaggia che s’inserivano tra i palazzi, edifici-montagna che si ricoprivano di vegetazione e di rampicanti. La sua visone di “bosco verticale” era molto più radicale, libera (e difficilmente realizzabile nella pratica) di quella che vediamo oggi a Milano. In alcuni fotomontaggi del 1980 vediamo serpeggianti isole di verde che attraversano i quartieri e le case popolari squarciando idealmente qualunque piano regolatore o qualunque idea moderna o produttiva di città.
I fotomontaggi in mostra alla Fondazione Somaini in corso di Porta Vigentina mostrano un uso assolutamente personale di una tecnica nata dalle avanguardie storiche e affinata dalla pop art. Il fotomontaggio per Somaini diventa un modo per trasformare gli spazi urbani e immaginare un scultura talmente monumentale e immensa da mangiarsi, come Godzilla, l’intera città.
Nella Sfinge di Manhattan (1974) Somaini immagina un edificio-scultura che sembra il carapace di un qualche gigantesco organismo vivente modellato dal vento e dagli elementi. Un fossile affascinante e terribile incastrato tra i grattacieli di vetro di New York. In Farfalla della solitudine (1974) vede una scultura-legamento verticale, altissima, che unisce le due Torri Gemelle: è una vulva fatta di tessuto biologico pietrificato, qualcosa di vivente che connette l’acciaio e il metallo delle torri con la terra e con la natura.
Tra i progetti che Somaini ha immaginato per Milano c’è un ingresso “infernale” della metropolitana in mezzo a piazza Duomo. Una sorta di Guggenheim al contrario, una scalinata a imbuto che dalle superficie scende, anello dopo anello, nelle viscere della città, come l’inferno di Dante.
Un’ossessione per il sottosuolo, per la vita segreta e ctonia delle città moderne si vede anche nella sua visione dei Navigli: Somaini immaginava le vie acquatiche sotterranee di Milano come un sistema venoso, pulsante, che scorreva sotto la pelle dell’asfalto e del cemento.
Anche per un un monumento a Mazzini, disegnato nel 1969, prevedeva una grande apertura a caverna, quasi la mascella di un mostruoso animale primordiale pietrificato milioni di anni prima.
Anche su tecniche diversissime come i cartoni per i mosaici (per uffici o condomini privati) la visione di Somaini del rapporto conflittuale tra natura e modernità, tra biologico e artificiale, appare nitida e senza compromessi. Il disegno del 1964 per l’atrio di un edificio in via Ippolito Nievo, per esempio, ricorda gli intrecci di spine e di rovi di certe crocifissioni di Graham Sutherland, mentre i disegni del 1958 per l’ingresso carrabile di un edificio in corso Italia liberano motivi astratti semicircolari che sembrano le correnti e i mulinelli di un fiume.
In un momento di grandi, pubblicizzate e spesso discutibili trasformazioni della città una mostra a Milano dedicata a una visione così radicale della scultura e degli spazi urbani non può che essere uno spunto di riflessione.
Somaini e Milano
Milano, Museo del Novecento, Palazzo Reale, Fondazione Francesco Somaini
Fino all’11 settembre 2022
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