C’è una sottile differenza tra il Vogliamo tutto di Nanni Balestrini e il We want it all dello spettacolo di danza con cui Emio Greco, Pieter Scholten e la compagnia Ick Dans Amsterdam hanno aperto, l’8 e il 9 settembre, l’ultima edizione del Romaeuropa Festival.
Non a caso Vogliamo tutto di Balestrini, nella recente edizione inglese di Verso Books, è stato tradotto We want everything, mentre We want it all, lo spiega lo stesso Greco, è ispirato al ritornello che Freddie Mercury canta in I want it all, una delle ultime hit dei Queen uscita nel 1989. Se Vogliamo tutto di Balestrini nel 1969 è una rivendicazione collettiva di cosa ci si vuole prendere (o riprendere) dalla società capitalistica, l’I want it all del Freddie Mercury del 1989, oggi, suona come l’urlo di un uomo solo e affamato di vita che vuole divorare tutto quello che ha intorno in un estremo impulso di sopravvivenza.
Mercury infatti era già malato quando la incise e non riuscì mai ad eseguire il pezzo dal vivo con i Queen. Nel titolo del loro nuovo spettacolo, Greco e Scholten declinano alla prima persona plurale il vitalismo di Freddie Mercury e lo traducono in un tour de force da 70 minuti in cui i corpi dei danzatori e delle danzatrici della compagnia Ick Dans Amsterdam e dei giovani della compagnia junior Ick Next ripercorrono 27 anni di creazioni del duo.
We want it all è uno spettacolo antologico che mette in fila i finali di dodici dei sessanta spettacoli che la compagnia ha creato dal 1995 a oggi. Suggerendo l’affascinante idea che ogni finale può essere l’inizio di qualcosa di nuovo affidato all’intelligenza collettiva di una compagnia di danzatori e danzatrici di età diverse.
Il vero tessuto connettivo dello spettacolo è stata l’energia e la presenza fisica dei danzatori e delle danzatrici
L’aspetto più interessante dell’operazione, oltre al virtuosismo e all’eccezionale energia che si scatenano in scena, è quello di mettere l’accento sulla trasmissione. Ovvero su quel momento, all’interno di una compagnia di danza, del passaggio del testimone dai danzatori e dalle danzatrici che hanno creato un pezzo ai performer più giovani che devono imparare coreografie, movimenti, tempi e intenzioni del pezzo per poterlo traghettare nel futuro.
Il tentativo di Greco e Scholten, che hanno meditato su questo spettacolo-capsula del tempo nei mesi della pandemia, è quello di far rivivere i loro lavori del passato cercando un filo che possa unirli. Un filo di Arianna che dal passato possa condurli nel futuro.
La missione riesce solo in parte: nonostante le intenzioni si vede che We want it all è un patchwork composto di tante parti diverse. Troppo spesso si intravedono le cuciture: i passaggi da un quadro all’altro sono annunciati da tuoni o esplosioni che si susseguono in modo un po’ meccanico. A tenere insieme le cose alcuni elementi scenici (una grande bandiera bianca che sventola) e soprattutto la magnetica presenza di Emio Greco che, quando non danza, sembra sorvegliare come un gran sacerdote lo svolgimento di un rito.
Anche l’estrema varietà musicale, che va dalla dance tardi anni ottanta di Taylor Dayne al rock industriale di Marilyn Manson, passando per Bach, per lo swing di Louis Prima e per la colonna sonora di Eraserhead di David Lynch, rischia di essere un’arma a doppio taglio.
Se, da una parte, la presenza di pezzi pop così riconoscibili crea un immediato coinvolgimento del pubblico, quasi da festival musicale, dall’altra rischia di legare i vari momenti dello spettacolo a un’estetica troppo circoscritta nel tempo.
Tell it to my heart di Taylor Dayne, per esempio, apre in maniera assolutamente sorprendente lo spettacolo: è un classico hi-energy che dalle discoteche gay americane degli anni ottanta ha finito per diventare un successo pop in tutto il mondo. È una canzone che, con il suo ritmo ipercinetico e l’esagitata vocalità da soul diva, non può non ricordare l’altra grande pandemia che abbiamo vissuto: quella dell’hiv. E il ricorrere a tanto rock anni novanta e a tanto post-grunge, lega le varie parti dello spettacolo a un’estetica e a un sentire troppo nitidamente legati a quell’epoca.
Anche alcuni costumi, un po’ Burning man e un po’ vaudeville post apocalittico, ci riportano irrimediabilmente agli anni novanta. Se l’intenzione era trasportare i lavori della compagnia nel futuro, forse i richiami estetici al passato sono troppo evidenti, almeno per chi c’era e per chi quel passato lo ha vissuto.
Il vero tessuto connettivo dello spettacolo, alla fine, è stata l’energia e la presenza fisica dei danzatori e delle danzatrici. Corpi molto diversi tra loro, sbrigliati in un rapinoso susseguirsi di quadri che, essendo tutti dei finali, sono tutti l’apice di qualcosa di cui non viviamo lo sviluppo ma solo il climax. Il dialogo tra veterani e giovani è la vera ricchezza di uno spettacolo che non poteva aprire in modo più elettrizzante la trentasettesima edizione del Romaeuropa Festival che andrà avanti fino al 20 novembre.
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