Può capitare che anche all’interno di un cartellone ricco e variegato come quello del 66º festival dei Due Mondi di Spoleto il pubblico possa trovare un filo da seguire, un senso, anche molto tenue e volatile, che leghi uno spettacolo all’altro. Non importa che in scena vada teatro d’opera o di prosa, una performance di danza contemporanea o un concerto di musica da camera: a volte capita che un tema o una suggestione ci accompagnino da un teatro all’altro, da una chiesa all’altra di questa antica città umbra che, dal 1958, per un mese si trasforma in un grande laboratorio teatrale.
Quest’anno il filo da seguire sembra essere quello del rapporto tra esseri umani e natura, fin dal primo giorno in cui un improvviso acquazzone ha costretto gli organizzatori a cancellare il tradizionale concerto inaugurale in piazza del Duomo. Peccato perché il programma era notevole: l’orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia diretta dal maestro ceco Jakub Hrůša avrebbe eseguito musiche di Leoš Janáček; in particolare una suite estrapolata dall’opera La piccola volpe astuta, uno dei capolavori del teatro musicale del novecento, di cui a Spoleto si ricorda un’edizione memorabile nel 1998, con la regia di Roman Terleckyj e i costumi di David Hughes.
La pioggia ha cominciato a cadere proprio mentre il pubblico stava prendendo posto nella piazza. Mentre ci sedevamo e scrutavamo il cielo preoccupati, gli orchestrali si affrettavano a salvare i propri strumenti: arpa e percussioni venivano coperti da teli impermeabili mentre violini e violoncelli venivano frettolosamente riportati al coperto. Alla fine anche le volpi della favola in musica di Janáček se ne sono rimaste all’asciutto nelle loro tane e il concerto è stato cancellato.
Il risveglio degli animali
La natura e la musica si sono risvegliate la mattina dopo, quando il piccolo concerto di mezzogiorno nell’auditorium della Stella ha portato in scena altri animali. I musicisti della Budapest Festival orchestra, l’orchestra residente della manifestazione insieme a quella di Santa Cecilia, hanno in programma un ciclo di concerti di musica da camera intitolato Music animalia, con pezzi che raccontano la natura e il mondo animale. Il vero concerto inaugurale di questa edizione del festival dei Due Mondi è stata una suite trascritta per ensemble da camera di Petruška, balletto di Igor Stravinskij del 1911, e una brillante lettura del Carnevale degli animali di Camille Saint-Saëns, scritto per la settimana grassa del 1886. Petruška in particolare, con la sua trascrizione per sestetto, è riuscita a rendere in modo vivido tutti i colori della grande orchestra. Vedere al lavoro così da vicino i musicisti, vederli anche divertirsi, alle prese con pezzi di straordinario virtuosismo come questi, è forse il modo migliore per far partire il festival.
Il tema della natura, del verde e della foresta torna nel Pelléas et Mélisande di Claude Debussy in scena al Teatro Nuovo. L’opera, che debuttò a Parigi nel 1902, è una favola simbolista in musica, molto moderna soprattutto per la naturalezza del canto e per la misteriosa bellezza della musica che sembra sempre tesa alla ricerca, non tanto di una descrizione di un mondo o di un insieme di personaggi, quanto delle segrete corrispondenze tra natura e animo umano. È un’opera sognante, trasparente, in cui la musica più che raccontare una storia, suggerisce stati d’animo, premonizioni e sogni a occhi aperti.
Debussy era allo stesso tempo antiverista e antiwagneriano e cercava un linguaggio nuovo per il teatro musicale, un linguaggio libero da orpelli e da tradizioni antiquate, basato esclusivamente sulla libertà della musica e che non necessariamente doveva descrivere ma solo esistere in una sfera a sé di bellezza e di mistero. A Spoleto il direttore ungherese Iván Fischer, proprio per sottolineare la centralità della musica di Debussy, ha deciso anche di curare la regia teatrale. Una scelta davvero poco usuale che pochissimi direttori in passato hanno avuto il coraggio di compiere.
L’orchestra tra le piante
Fischer, tanto per cominciare, toglie l’orchestra dalla tradizionale buca e la mette al centro della scena. Nascosti tra le frasche della impenetrabile foresta descritta nel libretto dell’opera, gli orchestrali, coperti da un saio che li trasforma in mistici spiriti della natura, siedono ai loro strumenti. Lo stesso Fischer indossa un mantello ricoperto da foglioline, un po’ Papageno e un po’ druido di Astérix. I personaggi dell’opera, la sognante Mélisande dalla lunga treccia rossa (il soprano Patricia Petibon), l’innamorato Pelléas (il tenore Bernard Richter), il geloso Golaud (il baritono Tassis Christoyannis) e il piccolo Yniold (il soprano bambino Oliver Michael), sono costretti a muoversi su anguste piattaforme mobili ricoperte da decorazioni in ferro battuto e da edere e piante rampicanti.
C’è poco spazio per una vera e propria azione teatrale e i cantanti, più che attori, sembrano altri strumenti dell’orchestra. L’intenzione di Fischer è chiara ed è anche affascinante: il mondo di Pelléas et Melisande è creato dalla musica, anzi è proprio un’emanazione della musica stessa, un barbaglio, un sogno, un’allucinazione. E il suono della Budapest Festival orchestra è impeccabile: musicalmente questo Pelléas scorre felice e senza inciampi, è pieno di colori e di sottili sfumature ed è un vero piacere ascoltarlo.
Questa fiducia assoluta nella musica di Debussy però s’incrina ogni volta che i cantanti cercano di recitare: la scena in cui Mélisande scioglie la lunga treccia per offrirla alle labbra adoranti di Pelléas è trattata in modo troppo letterale; quando Golaud affronta Pelléas e lo uccide c’è un momento un po’ grottesco di teatro verista, quanto di più lontano dalle intenzioni di Debussy, e la scena finale, quella della morte di Mélisande, è affollata come un vagone di metropolitana all’ora di punta.
Forse Fischer doveva avere il coraggio di arrivare fino in fondo e proporre l’opera in forma semiscenica: la mancanza di una vera regia teatrale in più di un punto rischiava d’incrinare anche la sua cristallina visione musicale. Alla fine, quando la musica scorre indisturbata, anche quella scenografia un po’ naïf, quasi da produzione televisiva cecoslovacca degli anni settanta, ha qualcosa di commovente e a suo modo bellissimo. Ma se cominciano a succedere troppe cose, se gli artisti si affannano a raccontare una storia che quasi non c’è, si finisce per tradire sia la musica sia il teatro. Per fortuna, uscendo dal Nuovo, si ha la sensazione che Debussy abbia vinto e che l’Iván Fischer direttore abbia avuto la meglio sul suo doppio regista.
Un dramma della mediocrità
Le foreste e i boschi sono evocati anche nello Zio Vanja di Anton Čechov, la seconda produzione spoletina del regista Leonardo Lidi dedicata al drammaturgo russo dopo il Gabbiano del 2020. I personaggi di questo dramma sulla frustrazione, l’immobilità e l’infelicità della provincia russa vivono in campagna ma sono costretti al chiuso, in uno spazio grigio e angusto, obbligati a calpestarsi, a respirarsi addosso, a convivere come bestie in gabbia.
Sono tutti vestiti in modo genericamente demodé, uno stille anni sessanta frusto e vecchio, come certi personaggi di Almodóvar. Le donne portano parrucche cotonate e polverose e abitini in fibre sintetiche colorate, gli uomini sono stropicciati, sciatti e sudaticci. Tutti fumano, bevono e sembrano parlare da soli fissando un punto lontano anche quando dialogano tra loro. L’incomunicabilità è totale, l’infelicità è un pozzo che si fa sempre più nero e profondo mano a mano che l’azione sulla scena diventa più farsesca e concitata.
Il bosco demaniale, meta di gite di piacere o di incontri amorosi mai realizzati, è sempre là fuori, evocato nelle tirate ambientaliste di Astrov o nelle chiacchiere casuali degli altri personaggi. In una scena memorabile di questo Zio Vanja Astrov mostra alla bella e giovane Elena mappe e disegni del territorio com’era un tempo. Noi vediamo proiettati sulla parete dei grotteschi disegni di bambini, un’art brut esilarante e terribile allo stesso tempo mentre Astrov stentoreo fa la sua predica a Elena che in mente ha tutt’altro. “Abbiamo a che fare con un degrado dovuto a una lotta troppo pesante per la sopravvivenza”, declama il dottore: “È un degrado che deriva dall’inerzia, dall’ignoranza, dalla più completa mancanza di consapevolezza, quando l’uomo infreddolito, affamato, ammalato, per salvare quel che gli resta della vita, per proteggere i suoi figli, istintivamente, inconsciamente si attacca a tutto ciò che può saziare la sua fame, per riscaldarsi; distrugge tutto, senza pensare al domani… Quasi tutto è stato distrutto, ma in cambio nulla è stato creato”.
È un discorso ambientalista che sembra scritto oggi, e non nel 1898 dello Zio Vanja. E come buona parte dei discorsi ambientalisti di oggi trova ad accoglierlo orecchie poco interessate. Elena è assente perché ha cose più importanti da chiedere al dottore: vuole sapere se è innamorato della brutta Sonja, la sua figliastra, e lui dal canto suo sa bene che ogni discorso e ogni azione sono inutili nella Russia passiva, fatalista e sonnolenta di fine ottocento. È tutta in questa scena la contemporaneità di Zio Vanja che Lidi riesce così acutamente a catturare: la completa ininfluenza dei personaggi che, ciascuno a modo suo, sanno di non contare nulla. Nessuno di loro è in grado di agire sul mondo, di lasciare un segno, nel bene o nel male.
Non c’è nessun suicidio nello Zio Vanja, tutti sono costretti a trascinarsi vivi fino alla fine, sia chi parte da quella angusta casa di campagna sia chi resta, coscienti della propria inutilità. Quando Sonja nel suo rassegnato, terribile monologo finale dice: “Dobbiamo continuare a vivere. Vivremo una lunga serie di giorni, di interminabili sere, sopporteremo pazientemente le prove che ci toccheranno” fa una riflessione che vale per tutti gli altri personaggi del dramma e anche per noi che sediamo al teatro Caio Melisso di Spoleto, convinti di aver fatto la nostra parte di pubblico attento e colto. Nel monologo di Sonja resta sospeso un dubbio metateatrale che Leonardo Lidi lascia fluttuare nell’aria anche per noi e forse per se stesso: ha ancora senso affannarsi a fare teatro oggi? Se sì qual è il senso di quello che facciamo sia come artisti sia come pubblico?
La danza dell’amicizia
In questo primo fine settimana del festival abbiamo assistito anche al ritorno sulla scena come danzatore del coreografo francese Benjamin Millepied, ex primo ballerino del New York city ballet, accompagnato dal pianista Alexandre Tharaud. Al Teatro Romano i due artisti hanno portato in scena Unstill life, una nuova creazione basata sulla loro lunga amicizia, uno spettacolo drammaturgicamente non privo di sbavature e di piccole affettazioni, ma assolutamente onesto e commovente nelle sue intenzioni e nella sua esecuzione.
Entrambi gli artisti, il pianista e il danzatore, riflettono sulla fisicità del loro lavoro e sulle difficoltà di invecchiare continuando a svolgerlo. Soprattutto Millepied è meraviglioso quando riesce a rendere in scena i movimenti del suo corpo di uomo quarantaseienne, alla ricerca di un’espressività nuova che non viva come costrizioni ma come possibilità le condizioni fisiche che non sono più quelle dei vent’anni. Indimenticabile è stato il pas de deux in cui il ballerino e il pianista, al suono di un vecchio 33 giri, danzano insieme come dicendosi: fammi vedere come fai, ora provo anche io, vediamo come va… Una riflessione danzata e molto umana sull’amicizia, sulla solidarietà tra le persone e sul sostegno reciproco.
Il festival dei Due Mondi continua a Spoleto fino al 9 luglio.
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