Era il 2021 quando la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni parlava del collettivo di fabbrica della Gkn. In quei giorni, il tribunale del lavoro di Firenze aveva accolto il ricorso contro il licenziamento collettivo dei 422 operai dello stabilimento di Campi Bisenzio, Firenze, lasciati a casa da un giorno all’altro dal fondo d’investimento Melrose attraverso un’email. “Bene la sentenza del tribunale del lavoro di Firenze sul caso Gkn”, aveva detto in quell’occasione Meloni. “Difendere l’economia reale e il lavoro, combattere le delocalizzazioni selvagge delle multinazionali e impedire che casi simili si possano ripetere continueranno ad essere priorità di Fratelli d’Italia”, aveva aggiunto.

Sono passati due anni. Nel frattempo, Giorgia Meloni è approdata alla guida del governo e ha cambiato la denominazione del ministero dello sviluppo economico, che ora si chiama ministero delle imprese e del made in Italy. Tuttavia, niente è servito a risollevare le sorti del tessuto produttivo del paese. Al contrario, la situazione è sempre più preoccupante. In un’intervista di qualche giorno fa la sottosegretaria Fausta Bergamotto ha addirittura screditato il piano di reindustrializzazione e ha chiamato fuori il governo.

In questi due anni, ben tre esecutivi si sono avvicendati al governo. Nessuno ha saputo dare risposte agli operai della piana fiorentina, né impegnarsi per una vera transizione ecologica nel settore automobilistico. L’ex ministro del Movimento 5 stelle Roberto Cingolani l’aveva descritta come un “bagno di sangue”, suggerendo che la riduzione dell’impatto ambientale del nostro sistema produttivo avrebbe prodotto una perdita significativa di posti di lavoro, anzitutto nell’industria automobilistica. La decisione di chiudere lo stabilimento di Campi Bisenzio era l’antesignano di un destino pronto a colpire l’intero settore.

Poco tempo dopo, una procedura di licenziamento simile è stata annunciata alla Gianetti Ruote a Ceriano Laghetto, Monza, che ha licenziato 152 dipendenti, sempre per email; alla Bosch a Bari, che nel 2022 ha annunciato settecento licenziamenti in cinque anni; e nello stabilimento Marelli di Crevalcore, Bologna, che a settembre ha delineato la chiusura della fabbrica di componentistica. La logica è sempre la stessa, “chiusura e spezzatino”, come l’hanno definita gli economisti della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa Giovanni Dosi, Andrea Roventini e Maria Enrica Virgillito: “spacchettare” le imprese per darle in pasto ai migliori offerenti.

La logica dello spezzatino
Una logica che nell’agosto 2021 dominava anche gli 87 tavoli di crisi aziendale sul tavolo del ministero dello sviluppo economico, che coinvolgevano circa centomila lavoratori. Secondo gli economisti del Sant’Anna, i licenziamenti di massa sono una scelta politica. Delocalizzazione e privatizzazioni sono vantaggiose per i privati ma costose per le casse dello stato, perché richiedono ammortizzatori sociali per gli operai. Ma a farne le spese sono anche i territori, perché queste operazioni lasciano dietro di sé un deserto produttivo in cui proliferano disoccupazione e crisi sociali. Ma la transizione ecologica nel settore automobilistico non deve essere un bagno di sangue. Non deve sostenere le fantasie di speculazione di aziende e fondi d’investimento: puo’ dotarsi di misure d’intervento statale per creare alternative percorribili.

Proprio per questo si è costituito un gruppo di ricerca interdisciplinare a cui partecipano anche gli economisti del Sant’Anna. L’obiettivo è aiutare il collettivo di fabbrica della Gkn a elaborare un “piano multilivello per la stabilità occupazionale e la reindustrializzazione del sito di Campi Bisenzio”, pubblicato sui Quaderni della fondazione Feltrinelli. Come si legge nel rapporto, il gruppo ha voluto elaborare il piano di reindustrializzazione seguendo le traiettorie di sviluppo sostenibile previste da organizzazioni internazionali come il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico ( Ipcc) e l’International energy agency.

Il cuore del progetto, coerente con il Pnrr, è la mobilità sostenibile e la produzione di energia pulita, a partire da una prospettiva sinergica di sviluppo economico e sociale, in cui innovazione tecnologica e alta formazione vanno di pari passo con la tutela del territorio e delle comunità. Questa proposta rappresenta un’alternativa concreta a una strada certa di deindustrializzazione e declino validata da Artes 4.0, uno dei centri di competenza attivati nel 2018 dal ministero dello sviluppo con il piano nazionale Industria 4.0 e incaricati di promuovere il trasferimento tecnologico nel tessuto produttivo, collegando università e aziende.

Uscire dall’immobilismo
Purtroppo questo progetto non è mai stato discusso né al ministero né nelle istituzioni regionali, nonostante sia stato presentato ai diretti interessati. Da più di due anni il collettivo di fabbrica della Gkn chiede alla politica di uscire da decenni di immobilismo. Per gli operai, che lo scorso 9 luglio hanno celebrato due anni di assemblea permanente, questa necessità si è fatta ancora più urgente dopo l’acquisizione dello stabilimento da parte dell’imprenditore Francesco Borgomeo, il cui arrivo nel dicembre 2021 ha segnato l’inizio di una fase di limbo fatta di inedia, attese e tavoli di trattativa disertati.

Il piano di reindustrializzazione dell’imprenditore, che emblematicamente chiama “QF Spa” la nuova Gkn (“Qf” sta per “Quattro f”: fiducia nel futuro della fabbrica a Firenze), presto è disatteso. Come ha ricostruito la testata di giornalismo investigativo Irpimedia, le promesse fatte da Borgomeo – tra cui investimenti per ottanta milioni di euro, “produzioni customizzate nel settore della mobilità elettrica”, e trasformazione dello stabilimento in un “cuore molto importante di ricerca e sviluppo”, “perché siamo riusciti a convincere i grandi player industriali” – dopo pochi mesi si dissolvono nel nulla.

Nel febbraio 2023, dopo un anno di tavoli di trattativa disertati da Borgomeo e mesi senza stipendio, l’azienda è messa in liquidazione. Bisognerebbe chiedersi come mai un progetto industriale mai nato possa essere stato annunciato con tale fanfara anche se privo di investitori. Fatto sta che, anche in questo caso, i lavoratori non sono stati con le mani in mano e hanno costruito un’alternativa.

I progetti
Pur continuando a chiedere l’intervento pubblico, nel marzo 2023 il collettivo di fabbrica e il gruppo di ricerca interdisciplinare hanno fatto partire la campagna di raccolta fondi per il progetto Gkn for future, che ha raccolto 175mila euro in poco più di un mese. Nei mesi precedenti era stato aperto il dialogo con una start up italo-tedesca interessata a sviluppare in Italia la produzione di pannelli fotovoltaici e batterie di nuova generazione in materiale organico, per essere competitivi sul mercato e lontani dallo sfruttamento del sud globale per reperire le terre rare fondamentali per queste tecnologie.

Oltre a questa iniziativa, c’è il progetto cargo-bike per un mezzo di trasporto ideale in grado di ripensare la logistica leggera nelle nostre città congestionate e mettersi al servizio delle nuove realtà dei servizi di consegna etici. Dal punto di vista dell’assetto proprietario, la fabbrica pubblica e socialmente integrata a cui aspirano le lavoratrici e i lavoratori dello stabilimento di Campi Bisenzio ha assunto la forma di una cooperativa, con prevalente attività mutualistica, partecipata da coloro che l’hanno difesa: una realtà ecosostenibile in cui il primo azionista è il territorio e le sue reti solidali.

Lo consente la legge Marcora del 1985, che facilita la creazione di nuove cooperative da parte di lavoratrici e lavoratori di aziende in crisi o soggette a liquidazione, con lo scopo preciso di consentirgli di non arrendersi alla disoccupazione e di non ricorrere agli ammortizzatori sociali, che rappresentano un costo per lo stato. Le imprese recuperate dai lavoratori sono un win-win, scrivono Paola De Micheli, Stefano Imbruglia e Antonio Misiani in Se chiudi, ti compro (Guerini e Associati 2017). La legge Marcora, del resto, è uno strumento efficace di politica attiva, capace di “evitare il rischio di inaridimento industriale” e “di favorire la ripartenza del capitalismo di territorio italiano” senza ricorrere ad ammortizzatori sociali.

In questo caso, la legge consentirebbe allo stabilimento di Campi Bisenzio di diventare un polo della mobilità sostenibile e della logistica decarbonizzata, e libererebbe lo stato dall’onere dei sussidi e dell’assistenzialismo. Per questo il collettivo di fabbrica ha istituito la campagna per l’azionariato popolare “100x10.000”, che punta a raccogliere un milione di euro entro la fine dell’anno per consentire ai singoli e alle organizzazioni che lo desiderano di diventare parte integrante di questo progetto e di contribuire alla piena attuazione del piano industriale. Al posto del bagno di sangue fatto di licenziamenti e disoccupazione a cui sembrano destinati i territori che per decenni hanno lavorato nel settore automobilistico, l’alleanza tra la lotta operaia, i movimenti ambientalisti e il mondo della ricerca è riuscita a progettare e, entro certi limiti, perfino a trovare i finanziamenti necessari per restituire una prospettiva di sviluppo sostenibile ai territori coinvolti.

È per questo che sorprende, in questo contesto, l’intervista di Bergamotto. Tocca alla regione reindustrializzare, dice la sottosegretaria, facendosi portavoce del governo. Il governo intervenga e non scarichi questa vertenza sul territorio, replica il presidente della regione Toscana, Eugenio Giani. Sembrerebbe una brutta partita di ping pong, ma è una nuova e tragica pagina di deresponsabilizzazione politica nella quale le istituzioni affermano che occuparsi di lavoro e di reindustrializzazione è responsabilità d’altri.

È chiaro che siamo a un punto di svolta. Mentre Borgomeo rompe il silenzio e annuncia l’imminente riapertura dei licenziamenti per l’ex Gkn, bisogna decidere se lo stabilimento sarà l’ennesima vittima di una lunga tradizione d’immobilismo istituzionale o meno. Le alternative sono due: lasciare che l’inedia del governo condanni un’altra area alla disoccupazione e alla crisi sociale, com’è successo già troppe volte. O sostenere il collettivo di fabbrica nel suo tentativo di difendere l’economia reale e il lavoro dalle delocalizzazioni selvagge. Lo scopo che, a parole, si era preposta l’attuale presidente del consiglio. E che può ancora essere realizzato, per dare un futuro diverso al territorio e a tutti noi.

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