Poco più 1,4 miliardi: è questa la cifra toccata dall’otto per mille nel 2016 (dichiarazioni dei redditi del 2017) e ripartita tra stato e confessioni religiose, tra le quali la parte del leone la fa di gran lunga la chiesa cattolica. La contabilità su larga scala ha i suoi tempi: questi dati sono stati infatti pubblicati nel rendiconto del 2020. Si tratta di un flusso di denaro che, tra destinatari laici e religiosi, finisce per alimentare attività molto diverse tra loro: progetti di cooperazione e aiuto nel sud del mondo, ristrutturazione di beni culturali e di edilizia di culto, sostegno economico per i sacerdoti, assistenza ai migranti e ai rifugiati, corridoi umanitari per i profughi, spese per i tribunali ecclesiastici.
Il meccanismo è stato introdotto quasi quarant’anni fa. Infatti, in seguito alla revisione del concordato tra stato e chiesa del 1984, firmato da Bettino Craxi come capo del governo e dal cardinale Agostino Casaroli in qualità di segretario di stato vaticano, fu stabilito che una quota pari all’otto per mille del gettito complessivo dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (irpef) fosse destinata “in parte, a scopi di interesse sociale o di carattere umanitario a diretta gestione statale e in parte a scopi di carattere religioso a diretta gestione della chiesa cattolica. La scelta relativa all’effettiva destinazione viene effettuata dai contribuenti all’atto della presentazione della dichiarazione annuale dei redditi”, come ricorda un recente dossier del senato dedicato alla rendicontazione dell’otto per mille per il 2020. Il calcolo non viene fatto sul totale del singolo reddito, ma sul gettito dell’irpef: non si tratta quindi di una tassa. La parte destinata alla chiesa comprende una quota di interventi caritativi e solidali da sviluppare sia sul territorio nazionale sia nei paesi poveri.
Attribuzione proporzionale
Per quel che riguarda il sostentamento del clero, il sistema dell’otto per mille ha sostituito l’assegno di congrua, cioè lo stipendio pagato dallo stato ai sacerdoti. La normativa varata poi nel 1985 ha permesso ai cittadini italiani di decidere se finanziare o meno la chiesa cattolica: un principio che ha modernizzato il rapporto tra stato e chiesa secondo un criterio di laicità, di separazione e collaborazione tra le due componenti.
Tuttavia la legge contiene un “accorgimento” che, con il tempo, ha determinato uno squilibrio fortissimo: nel caso infatti in cui un contribuente non esprima una determinata scelta sull’otto per mille, la sua quota viene attribuita in proporzione alle scelte espresse complessivamente da tutti gli altri. Si pensi che per il 2016 solo il 42 per cento degli italiani ha indicato un’opzione precisa per la destinazione dell’otto per mille tra stato e confessioni religiose: circa il 58 per cento dell’intero ammontare è stato quindi assegnato in base alla volontà espressa da una minoranza dei contribuenti. Di quel 42 per cento, quelli che hanno firmato a favore della Conferenza episcopale italiana (Cei) sono la grande maggioranza: il 79 per cento (il 14 per cento invece in favore dello stato), che tradotto in cifre vuol dire circa 1,14 miliardi di euro. Una bella somma che permette alla chiesa, anno dopo anno, di restare in piedi.
I dati relativi alle ripartizioni per il 2021 sono molto simili. Va tuttavia segnalato che, sul lungo periodo, le indicazioni in favore della chiesa cattolica sono in calo: nel 2004 infatti toccavano l’89 per cento.
Successivamente all’intesa con la Cei, sono stati sottoscritti altri accordi simili con diverse confessioni religiose: l’Unione italiana delle chiese cristiane avventiste del settimo giorno, le Assemblee di dio in Italia, l’Unione delle chiese metodiste e valdesi, la chiesa evangelica luterana in Italia, l’Unione delle comunità ebraiche italiane, l’Unione cristiana evangelica battista, la Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia ed esarcato per l’Europa meridionale, la chiesa apostolica in Italia, l’Unione buddista italiana, l’Istituto buddista italiano Soka Gakkai e l’Unione induista italiana. I soldi raccolti da queste confessioni sono usati per finalità culturali e religiose, di impegno umanitario, sociale e filantropico, si mescolano e si articolano in vario modo con diverse priorità. In questo contesto va segnalato il ruolo svolto dalla piccola chiesa Valdese, che è diventata una destinataria di un certo peso dell’otto per mille: nel 2016 è stata scelta dal 3,16 per cento dei contribuenti per un valore di poco meno di 42 milioni di euro. La chiesa valdese investe tutti i fondi raccolti in progetti di utilità sociale, senza pregiudizi di sorta: immigrati, disabilità, contrasto alla discriminazione di genere, promozione dei diritti umani ed educazione allo sviluppo sostenibile, sono solo alcuni dei capitoli di spesa.
Ma il grosso della partita la giocano ovviamente la chiesa cattolica e lo stato. Con un paio di differenze di non poco conto: la Cei infatti investe molto sulla campagna promozionale in favore dell’otto per mille, autentico asset strategico per la sua sopravvivenza finanziaria. Lo stato, al contrario, non pubblicizza le iniziative sostenute dalla propria quota di donazioni, in parte per non disturbare troppo i vescovi. Quasi sempre però i fondi raccolti dallo stato sono stati utilizzati per la copertura di spesa di varie leggi o per interventi di risparmio degli enti dello stato, comprese diverse revisioni della spesa, che nulla avevano a che vedere con le finalità stabilite per l’otto per mille. Eppure la normativa indica obiettivi ben precisi: sono infatti previsti interventi straordinari per la fame nel mondo, le calamità naturali, l’assistenza ai rifugiati e ai minori stranieri non accompagnati, la conservazione dei beni culturali e la ristrutturazione degli edifici scolastici. Inoltre, il 20 per cento della quota di otto per mille dello stato finanzia l’Agenzia per la cooperazione allo sviluppo.
Il disinteresse dei governi
In una relazione dedicata alla questione, nel 2018, la corte dei conti segnalava che “in violazione dei princìpi di buon andamento, efficienza ed efficacia della pubblica amministrazione, lo stato continua a mostrare disinteresse per la quota di propria competenza, cosa che ha determinato, nel corso del tempo, la drastica riduzione dei contribuenti a suo favore, dando l’impressione che l’istituto sia finalizzato – più che a perseguire lo scopo dichiarato – a fare da apparente contrappeso al sistema di finanziamento diretto delle confessioni”.
Nella relazione si legge inoltre: “Risulta pertanto frustrato l’intento di fornire una valida alternativa ai cittadini che, non volendo finanziare una confessione, aspirino, comunque, a destinare una parte dell’imposta sul reddito a finalità sociali e umanitarie. Infatti, nonostante le sollecitazioni della corte, è continuata l’assenza di iniziative promozionali, da parte dello stato, circa le proprie attività, risultando l’unico competitore che non sensibilizza l’opinione pubblica sulle proprie realizzazioni”.
A ciò si aggiunge una valutazione più generale della corte, per la quale risulta “contrario ai princìpi di correttezza che la destinazione prescelta dai contribuenti non venga rispettata, tanto più che ciò accade solo per coloro che hanno indicato lo stato e non per gli optanti per il contributo alle confessioni, le cui determinazioni non vengono toccate. Ne discende una disparità di trattamento tra contribuenti”. Il problema è stato affrontato con una legge del 2016 che ha introdotto il divieto di utilizzare le risorse derivanti dalla quota dell’otto per mille devoluta allo stato per la copertura finanziaria delle leggi. Il provvedimento non comprende però le decurtazioni stabilite in precedenza che avevano carattere permanente, mentre i tagli di spesa hanno continuato a incidere sull’ammontare complessivo dei fondi. In concreto, nel rendiconto del 2020 la quota spettante allo stato superava i 203 milioni di euro, ma quella effettivamente usata per le finalità sociali e culturali previste non arrivava a 50 milioni a causa dei vari dirottamenti di risorse in altre direzioni.
Controllo pubblico
Ma la corte dei conti, a più riprese, ha segnalato anche che la quota destinata alla chiesa è cresciuta in modo sproporzionato grazie al meccanismo che regola la ripartizione dei fondi: “In un contesto di generalizzata riduzione delle spese sociali a causa della congiuntura economica, le contribuzioni a favore delle confessioni continuano, in controtendenza, a incrementarsi, avendo da tempo superato ampiamente il miliardo di euro all’anno, senza che lo stato abbia provveduto ad attivare le procedure di revisione di un sistema sempre più gravoso per l’erario”. E in effetti la cifra che va alla chiesa cattolica è stabilmente intorno al miliardo di euro per ogni anno fiscale.
Secondo quanto si legge nel rendiconto della Cei per il 2021 appena pubblicato, su un totale di 1,136 miliardi di euro derivanti dall’otto per mille, 420 milioni sono stati destinati alla spese per gli stipendi degli oltre 30mila preti che operano nelle diocesi italiane, 253 milioni per gli interventi caritativi in Italia e nel mondo e 363 milioni per esigenze di culto e pastorali. Quest’ultima voce comprende, oltre all’edilizia di culto, molte altre iniziative e istituzioni, tra le quali per esempio i tribunali ecclesiastici (fatto questo, contestato dalla corte dei conti), attività formative per religiosi, catechisti, insegnanti di religione, nonché eventi e attività promossi dalla Cei.
Mille rivoli che hanno spinto la stessa Cei ad annunciare di voler ridefinire i criteri di ripartizione e rendicontazione interna delle spese, per “evitare assegnazioni generalizzate e dare alle diocesi la regia delle richieste e degli impieghi, coinvolgendole in un percorso di responsabilizzazione rispetto a un uso sempre più efficace e mirato dei fondi”. In effetti, in un quadro di trasparenza amministrativa e di coerenza con la normativa, la questione del controllo pubblico dell’uso delle risorse da parte della chiesa e delle altre confessioni religiose resta aperta.
La legge 222 del 1985 sull’otto per mille ha stabilito che la quota devoluta allo stato italiano venga destinata a scopi di interesse sociale o di carattere umanitario. Ma nel 2020, dei 203 milioni di euro spettanti allo stato in base alle scelte dei contribuenti, solo 42 milioni sono stati ripartiti tra le cinque categorie d’intervento previste dalla legge (fame nel mondo, conservazione dei beni culturali, calamità naturali, edilizia scolastica e assistenza ai rifugiati e minori stranieri). Più di 137 milioni di euro sono stati utilizzati per la copertura di spesa di varie leggi o per interventi di risparmio di enti statali, e 12 milioni sono stati assegnati all’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it