Alla fine del 1943 Leone Ginzburg, incrociando Sandro Pertini in un corridoio di Regina Coeli dove era stato incarcerato dai nazisti, nonostante avesse volto e labbra tumefatte in seguito a un violento interrogatorio, riuscì a dire al futuro presidente della repubblica: “Guai a noi se domani non sapremo dimenticare le nostre sofferenze, guai se nella nostra condanna investiremo tutto il popolo tedesco”.
Ginzburg non vide la fine della guerra, perché morirà nel febbraio del 1944 in seguito alle torture subite in quel carcere.
Ciò che colpisce di questa testimonianza è la preoccupazione per il futuro manifestata dal grande intellettuale ebreo italo-russo, nato a Odessa.
Il fondatore della casa editrice Einaudi, che giovanissimo aveva già tradotto Anna Karenina, sapeva bene che ogni libertà sorge dalla capacità di distinguere e che le peggiori atrocità nascono dall’esaltazione di concetti arbitrari come quello della purezza della razza. Proprio per questo, nel momento più buio della sua vita, riuscì a rivolgere il suo sguardo al dopo, alle relazioni che si sarebbero instaurate tra le popolazioni una volta finita la guerra.
Più volte è accaduto nella storia che negli anni più cupi drammatici abbiano preso forma idee lungimiranti.
Fu così nel pieno della seconda guerra mondiale per la redazione del manifesto Per un’Europa libera e unita, concepito da Ernesto Rossi e Altiero Spinelli nel 1941 mentre erano confinati dal regime fascista nell’isola di Ventotene.
E lo fu con il Discorso sulle quattro libertà di cui ogni persona nel mondo dovrebbe godere, pronunciato da Franklin Delano Roosvelt nel gennaio del 1941, che anticipava alcuni princìpi che sono a fondamento della Dichiarazione universale dei diritti umani, sottoscritta nel 1948 grazie al grande impegno di Eleanor Roosvelt per la sua redazione.
Una proposta di pace
Più recentemente fu al culmine della guerra che insanguinò i Balcani negli anni novanta, provocando oltre duecentomila morti e il ritorno di episodi di pulizia etnica nel nostro continente, che Alexander Langer, il politico verde e pacifista più acuto e sensibile che abbia avuto il nostro paese, elaborò una proposta articolata: la creazione di Corpi civili di pace europei, compiendo lo sforzo di dare concretezza a idee straordinariamente visionarie e radicali.
Nei mesi più cruenti di quel conflitto Langer si preoccupava del dopo, della lunga scia di odio e delle fratture profonde che quella guerra avrebbe lasciato dietro di sé.
Ricordo il suo instancabile impegno nel mettere in comunicazione coloro che da diversi fronti si opponevano a ogni idea di separazione etnica da consacrare con le armi.
La proposta dei Corpi civili di pace ipotizza che l’Europa, per la sua storia, abbia il dovere politico ed etico di lavorare a una svolta radicale di pensiero
Nato in una terra di confine contesa, Langer aveva tratto dalla storia del Süd Tirol-Alto Adige la consapevolezza delle conseguenze a cui porta inesorabilmente ogni rivendicazione di purezza etnica, in terre dove le vicende della storia hanno portato culture e popoli diversi a convivere.
Credo sia di grande importanza tornare ora a quella proposta, in un momento in cui in Italia si discute di un aumento considerevole delle spese militari, partendo dalla sciagurata considerazione che l’unica possibilità per difendersi e mantenere la pace consista in un maggiore acquisto di armi e nell’aumento di uomini da addestrare alla guerra.
Un antiesercito europeo
La proposta dei Corpi civili di pace ipotizza al contrario che, per costruire condizioni di pace durature, sia necessario progettare e dare vita a una sorta di antiesercito e che l’Europa, per la sua storia, abbia il dovere politico ed etico di lavorare a una svolta radicale di pensiero, capace di proporre nuove strade per una efficace prevenzione dei conflitti e per prendersi cura e sanare le conseguenze di lungo periodo delle guerre.
Ecco alcuni passaggi della proposta che Alexander Langer elaborò e sottopose all’attenzione pubblica nell’estate del 1995, al terzo anno del lungo assedio di Sarajevo e pochi giorni prima della pulizia etnica perpetrata dalle truppe serbo bosniache nella città di Srebrenica, che Langer non arrivò a vedere.
“Il corpo civile di pace agirà portando messaggi da una comunità all’altra. Faciliterà il dialogo all’interno della comunità al fine di far diminuire la densità della disputa. Proverà a rimuovere l’incomprensione, a promuovere i contatti nella locale società civile. (…) Promuoverà l’educazione e la comunicazione tra le comunità. Combatterà contro i pregiudizi e l’odio. (…) Sfrutterà al massimo le capacità di coloro che nella comunità non sono implicati nel conflitto (gli anziani, le donne, i bambini).”
Ragionando su quali professionalità dovessero essere formate per un tale compito Langer proponeva di “sviluppare qualità di alto livello, necessarie per gli individui che partecipano al corpo di pace: tolleranza, resistenza alla provocazione, educazione alla nonviolenza, marcata personalità, esperienza nel dialogo, propensione alla democrazia, conoscenza delle lingue, cultura, apertura mentale, capacità all’ascolto, intelligenza, capacità di sopravvivere in situazioni precarie, pazienza, non troppi problemi psicologici personali”, concludendo che coloro che saranno accettati per far parte del corpo di pace “apparterranno alle persone più dotate della società.”
L’idea che le migliori intelligenze e sensibilità del nostro continente possano trovare un luogo di ricerca e sperimentazione operativa per imparare a rimuovere una delle principali cause che alimentano le guerre, mi sembra una prospettiva da prendere in considerazione e intorno a cui lavorare molto seriamente.
L’antiesercito di Langer potrebbe cominciare a prendere vita come una sorta di scuola di alto profilo, dove studiare e mettere in pratica i presupposti e le condizioni dell’arte del convivere, più che mai necessaria oggi.
Potrebbe partire dalle esperienze positive di tante organizzazioni non governative che operano in molteplici campi in supporto alla popolazione civile, ma con l’ambizione di divenire un corpo permanente capace di intervento, sostenuto all’inizio da alcuni stati e dalla comunità europea, a partire dall’Italia.
Prevenire i conflitti
Riguardo alla necessità di una formazione efficace e coerente Langer sottolineava che “il successo e il fallimento saranno anche determinati dal grado di addestramento delle persone del Corpo di pace. Programmi di addestramento prepareranno ciascun partecipante alla sua missione. Allo stesso tempo gli educatori dovrebbero avere la possibilità di essere tirocinanti in missioni per acquistare esperienza sul campo. L’addestramento includerà la crescita della forza e della mentalità personale, ma anche cose pratiche come la lingua, la storia, le religioni, le tradizioni e la sensibilità delle regioni dove si va a operare.”
Poi, con la capacità di guardare con realismo a ciò che accade e può accadere, Langer aggiungeva: “Un’operazione del Corpo di pace può fallire e nessuno si dovrebbe vergognare ad ammetterlo (…). Finché non c’è alcuna soluzione politica, il Corpo di pace non può veramente partire. È essenziale che la cooperazione delle autorità locali e delle comunità sia promossa da una politica internazionale di premio (e non da punizioni/sanzioni). Poiché la povertà, il sottosviluppo economico e la mancanza di sovrastrutture quasi sempre sono parte di qualsiasi conflitto, la preparazione a vivere insieme, a ristabilire il dialogo politico e i valori umani, a fermare i combattimenti e la violenza dovrebbero essere premiati da un immediato sostegno internazionale economico-finanziario a beneficio di tutte le comunità e regioni interessate. Troppo spesso ci si è dimenticati che la pace deve essere visibile per essere creduta. Ma se è resa visibile, la pace troverà molti sostenitori in ogni popolazione.”
Fa impressione leggere la lucidità di queste considerazioni, scritte prima delle “operazioni militari” occidentali in Afghanistan e in Iraq, i cui esiti sono stati disastrosi anche per l’incapacità di rendere “visibile e credibile” la pace, e prima delle guerre scatenate da Putin in Cecenia e Georgia o degli interventi della Russia e della Turchia in Siria e di ambedue gli schieramenti in Libia.
Ragionando sugli oltre sette anni di guerra nelle regioni del Donbass, che hanno preparato il terreno all’invasione dell’Ucraina, constatiamo ancora una volta quanto i conflitti siano spesso anticipati da scontri interetnici, alimentati da narrazioni guerrafondaie di poteri interessati a frantumare e fare esplodere convivenze pacifiche stratificatesi negli anni e talvolta nei secoli.
Ricordo numerose testimonianze di ragazze e ragazzi di Sarajevo, che raccontavano come prima dello scoppio della guerra in quella città, esattamente trent’anni fa, nessuno di loro si era mai considerato musulmano o serbo.
La prospettiva di mobilitarsi per chiedere di convertire parte delle spese militari previste in investimenti per i Corpi civili di pace appare certamente utopica e lontana nelle settimane in cui assistiamo alle stragi di civili commesse dall’esercito russo e alla coraggiosa resistenza del popolo ucraino.
È più che mai necessaria oggi la piena solidarietà con le vittime, possibile solo ascoltando le richieste di sostegno alla resistenza.
Tuttavia, se non vogliamo rimanere imprigionati nella sola logica della guerra e desideriamo coltivare pensieri capaci di andare oltre la tragedia presente, come suggeriva Leone Ginzburg, dobbiamo prendere in seria considerazione la proposta di Alexander Langer. La costituzione di Corpi civili di pace potrebbe, infatti, mobilitare energie e passioni di una generazione a cui stiamo consegnando un mondo attraversato da disuguaglianze crescenti, focolai di guerra mal gestiti e fratture profonde, che rischiano di approfondirsi sempre più sottraendo speranza al futuro.
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