Forse Mario Lodi è diventato un maestro elementare capace ancora di stupirci perché quel mestiere, da giovane, non lo voleva fare. Attivissimo a Piadena, il paese padano in cui era nato, e febbrilmente impegnato in politica e nel promuovere iniziative culturali, quando entrò in classe per la prima volta ne sortì avvilito e frustrato. L’Italia era appena uscita dalla guerra e dal ventennio fascista, e la scuola conservava ancora tutti i tratti autoritari di quel regime.
Lui era un vulcano di idee, ricorda la moglie Fiorella. Sapeva stimolare entusiasmo e interesse per la lettura e la conoscenza, animando esperienze di teatro con i contadini del suo paese.
In quegli anni del primo dopoguerra, sulle orme di Gianni Bosio e del gruppo di socialisti che facevano capo alla rivista Mondo operaio, comprese il valore del canto come memoria preziosa del mondo rurale. Partecipò alla fondazione del Gruppo padano per la ricerca dei documenti e dell’espressività popolare e cominciò ad animare iniziative di raccolta di storie e canti, messi anche in scena in spettacoli teatrali come Bella ciao e Ci ragiono e canto, diretto da Dario Fo nel 1966.
Il valore dell’oralità come miniera di ricchezze culturali sottovalutate lo coltiva con passione tanto che, quando si troverà a intervistare l’anziano Agostino con i bambini della sua classe, annoterà che “non c’è libro suggestivo ed eloquente come la vita di un uomo che racconta la sua vita”.
È dunque con la profonda convinzione che ai più fragili ed esclusi vada data piena voce che entra nella scuola il giovane maestro. E quando si trova di fronte ragazzi “fermi come statue, coi cervelli inerti, che spesso non restituiscono nemmeno il sorriso”, s’interroga e riflette sul perché fuori non siano così.
Li osservo quando escono sulla strada: oltrepassata la soglia è un libero volo, le bocche mute parlano e gridano: sono felici. (…) C’è in loro una aggressività ricca di fantasia, un linguaggio scarno ma incisivo, e una felicità motoria.
Teniamola presente questa “felicità motoria”, troppe volte frustrata nella scuola ancora oggi, perché non c’è movimento di pensiero di bambine e bambini che non si alimenti grandemente dai movimenti del corpo, dagli spazi che si attraversano, dagli scambi che nascono nell’operare insieme cambiando continuamente le posizioni reciproche.
Proprio affrontando di petto questo contrasto tra la vita e la scuola, Lodi comincia a configurare la sua idea di educazione.
Distruggere la prigione, mettere al centro della scuola il bambino, liberarlo da ogni paura, dare motivazione e felicità al suo lavoro, creare intorno a lui una comunità di compagni che non gli siano antagonisti, dare importanza alla sua vita e ai sentimenti più alti che dentro gli si svilupperanno, questo è il dovere di un maestro, della scuola, di una buona società.
Nell’elaborare questo radicale rovesciamento per lui è fondamentale l’incontro, nel 1955, con le compagne e i compagni del Movimento di cooperazione educativa (Mce), che da quattro anni si riuniscono, sperimentano e tessono collegamenti e corrispondenze per reagire all’immobilismo della scuola.
In quel contesto il maestro di Piadena si forma e coglie le potenzialità del trasformare la classe in una comunità capace “non soltanto di istruire, ma anche e soprattutto di educare, formando un cittadino capace di inserirsi nella società col diritto di esporre le proprie idee e col dovere di ascoltare le opinioni degli altri”.
Non si dà comunità senza ascolto reciproco. Mario Lodi ne è convinto e sente l’ascolto come un dovere, sperimentando il dialogo come processo quotidiano necessario per portare ogni bambina e bambino ad accorgersi e a sentire che i propri pensieri hanno valore conoscitivo e piena dignità di essere espressi.
La chiacchierata che apre ogni mattinata mette in luce una ricca vena di esperienze, un ‘sottosuolo’ con filoni più o meno abbondanti e preziosi che resterebbero sepolti se la conversazione non vi scavasse dentro di continuo. Senza questo attingere alla sorgente vitale tutto diventerebbe arido.
E poiché il mondo concreto dei bambini è legato alle vicende umane e alla natura, il filo che lega le successive scoperte è il filo coerente della vita. Nasce a poco a poco la vista della mente in un mondo che è fitto di segni slegati. Questi segni la conversazione accosta, lega, rimescola, disgiunge, in un caleidoscopio logico che inquadra l’episodico in una visione dinamica della realtà.
Pur proponendo frequentemente pittura, musica e teatro, Lodi ha grande fiducia nelle parole condivise e considera la conversazione come la più efficace scuola di democrazia.
Il seme dell’intolleranza
Consapevole di quanto le discriminazioni scavino i loro solchi non solo nella società, ma anche nel microcosmo di una classe, quando chi pensa diversamente viene isolato e ferito, ecco come reagisce alla fine degli anni sessanta di fronte a sua figlia Cosetta che, in seconda elementare, per i compagni ha la colpa di non credere all’inferno.
In un capitolo tra i più densi e problematici di Il paese sbagliato, intitolato “Ballata dell’inferno”, racconta come sua figlia sia arrivata più volte al pianto a casa e a scuola, a causa di prese di posizioni aggressive e intransigenti di molte sue compagne e compagni.
Di fronte al continuo accerchiamento, che rinnova la sofferenza di Cosetta, ecco cosa annota rapidamente nel suo diario il maestro, “nel giro di un secondo”.
Scantonare con una risposta evasiva o ambigua no, è venir meno al principio di discutere ogni cosa. La bambina rifiuta l’inferno per la paura di andarci, ma se essa fosse di religione diversa da quella cattolica che farei in questo momento, educatore in una scuola aperta tutti? La lascerei alla mercé di una minoranza che la umilia o difenderei con lei la libertà e la dignità della persona? E poi: che senso ha liberare i bambini dal timore del voto e dell’autorità a scuola se nel profondo di essi restano i grandi timori su cui è fondato un malinteso senso religioso? Se spunta il seme dell’intolleranza l’educatore non può lasciarlo crescere, deve trovare un linguaggio adatto per sviluppare il ragionamento come antidoto al germe pericoloso che divide gli uomini e che è all’origine di persecuzioni, guerre, tensioni all’interno delle famiglie, incomunicabilità fra gruppi sociali. Il ragionamento dovrà portare a un atteggiamento umano, di comprensione degli altri, di rispetto verso qualsiasi opinione o fede diversa dalla nostra.
Questa fiducia nel dialogo, nel ragionamento, nella parola pacata capace di scoraggiare ogni intransigenza, è la stella polare che orienta ogni sua scelta.
E c’è una pratica, elaborata nel Movimento di cooperazione educativa, che più di ogni altra incarna lo spirito del suo insegnare la democrazia praticando la democrazia: la scrittura collettiva.
Si tratta di un’attività complessa che porta ogni bambina e ogni bambino a scrivere un testo a partire da una questione aperta o da una domanda. Si ritagliano poi le diverse frasi, si organizzano in mucchietti divisi per argomenti, si leggono tutte le proposte. Si scelgono dunque le più efficaci e si dà avvio a un lungo processo di composizione che porta a una prima stesura del testo collettivo. Sulla lavagna divisa in due si scrive infine a sinistra il testo e a destra le correzioni e i miglioramenti che tutto il gruppo è chiamato a proporre.
Il più straordinario esito di questa tecnica fu opera dei ragazzi di Barbiana, che nel 1967 pubblicarono la famosa Lettera a una professoressa.
La scrittura collettiva comporta capacità di mediazione e il saper contenere l’istintivo desiderio di imporre il proprio punto di vista
Don Milani aveva incontrato Lodi nell’estate del 1963 e in due giorni di fitti colloqui il priore volle sapere come lavorasse e cosa fosse il Movimento di cooperazione educativa, a lui sconosciuto. Lo incuriosì molto la pratica della corrispondenza scolastica e della scrittura collettiva.
Ricordando quell’incontro anni dopo, Lodi scrive:
Certi l’hanno dipinto come un uomo orgoglioso che non accetta consigli; io ho provato il contrario. Non so però se la svolta che ha operato nel suo metodo d’insegnamento sia dipesa dai discorsi che abbiamo fatto e dai libri del Mce che ha letto, o se era già maturata in lui l’esigenza di dare un aspetto nuovo, sul piano metodologico, al suo insegnamento. Dal giorno in cui mi aveva fatto quelle dichiarazioni… alla lettera che ci spedì a novembre una svolta c’è stata, ed è stata meditata. Quella lettera in cui parla di come i suoi ragazzi hanno scritto ai miei, è veramente un documento ad altissimo livello. Qualcuno l’ha paragonata a certe lezioni del Pestalozzi.
L’influenza che quell’incontro ebbe nell’imprimere una svolta al modo di lavorare sulla scrittura nella scuola di Barbiana è documentata in un libro curato da Francesco Tonucci e Cosetta Lodi: L’arte dello scrivere (pubblicato dalla Casa delle arti e del gioco, fondata da Lodi). Un libro prezioso e attuale che mostra quanto possa rivelarsi efficace l’intreccio tra l’orale e lo scritto a tutte le età.
Il modo migliore per dirlo
“Il lavoro di questi ultimi tre giorni”, scrive Milani a Lodi nell’autunno del 1963,
è stato entusiasmante per me e per i ragazzi. Straordinaria la possibilità, in questa fase, dei più piccoli di trovare qualche volta soluzioni migliori dei grandi. Pochissima incertezza: in genere la soluzione migliore s’impone molto evidentemente alla preferenza di tutti. Infatti, ormai che s’era stabilito cosa volevamo dire, non restava che trovare il modo migliore di dirlo e su questo in genere non c’era molto da discutere.
Esiste oggettivamente una soluzione che è migliore delle altre.
In questa fase si possono studiare insieme tutti i problemi dell’arte dello scrivere: completare e semplificare. Finir di cercare quel che non si è ancora detto, cercare di dire col minimo di mezzi. Cercare di indovinare la reazione del lettore, eliminare le ripetizioni, le cacofonie, gli attributi e le relative, i periodi troppo lunghi, ridomandandosi all’infinito se un dato concetto è vero, se è nel suo giusto valore gerarchico, se è essenziale, se il destinatario avrà gli elementi per comprenderlo, se provocherà malintesi.
A questo punto c’è venuto fatto di cercare di eliminare anche le frasi che suonano troppo vanitose. Ma ci siamo poi imposti di non farlo. L’arte dello scrivere consiste nel riuscire a esprimere compiutamente quello che siamo e che pensiamo, non nel mascherarci in migliori di noi stessi.
Così don Lorenzo Milani ricorda i primi esperimenti di scrittura collettiva fatti a Barbiana e noi sappiamo che, solo quattro anni dopo, quella “tecnica piccina” produsse, in nove mesi di intenso lavoro, una Lettera capace di smascherare e denunciare in modo inequivocabile la scuola di classe.
La forza dirompente di quel testo non stava solo nelle parole fendenti, nate dall’incontro tra la raffinata cultura borghese del priore e la rabbia di figli di analfabeti esclusi dalla scuola. Nella Lettera il mezzo era il messaggio o, meglio, nel modo in cui era stato forgiato il mezzo c’era la forza di un messaggio che colpì la sensibilità e la coscienza di tanti alla vigilia del sessantotto.
Mi piace ricordare quanto quell’incontro tra due maestri fu generativo perché sono convinto che le innovazioni educative più profonde nascano dalla cooperazione, dallo scambio di materiali e metodi, da narrazioni condivise.
Roberta Passoni, una maestra umbra del Mce che pratica da anni la scrittura collettiva, alla fine di ogni composizione chiede a tutte le bambine e i bambini di firmare il testo condiviso, per sottolineare e dare valore al grande sforzo necessario ad accogliere i suggerimenti degli altri, rinunciando talvolta alle proprie proposte. La scrittura collettiva comporta capacità di mediazione e il saper contenere l’istintivo desiderio di imporre il proprio punto di vista. Un vero e proprio allenamento alla democrazia, a cui è necessario dedicare tempo, molto tempo.
Quattro anni fa cinque istituti comprensivi della provincia di Terni hanno avviato una collaborazione che ha coinvolto decine di insegnanti, per alimentare e diffondere questa pratica. Otto gruppi di dodici classi sono arrivati così a comporre libri in cui ciascun capitolo era scritto da una classe, con la tecnica della scrittura collettiva. È interessante che questo progetto sia partito nel 2018, in occasione dei settant’anni della Dichiarazione universale dei diritti umani. Quella Dichiarazione, infatti, è anch’essa un testo collettivo, come del resto la nostra costituzione.
E quale modo migliore di incontrare un testo collettivo, scritto per fondare una convivenza civile rispettosa delle diversità, che quella di avvicinarlo esplorando il metodo con cui è stato redatto?
Ho voluto fare questo esempio perché il peggior modo di ricordare Mario Lodi sta nel relegarlo in una sorta di archeologia pedagogica, tanto affascinante quanto inattuale e inattuabile.
E invece Lodi ha ancora molto da insegnare a chi voglia leggere i suoi diari didattici, che contribuirono grandemente a rinnovare la scuola elementare cinquant’anni fa, quando fu inaugurato il tempo pieno purtroppo solo in un terzo delle scuole, per la maledizione italiana di lasciare le riforme a metà.
C’è speranza se questo accade al Vho (ora ristampato da Laterza) e Il paese sbagliato (ristampato da Einaudi) narrano in modo esemplare una didattica rigorosa ed esigente e insieme appassionata e divertente. Una preziosa miniera per chi creda nella scuola della costituzione, capace di offrire dignità e ascolto a ogni espressione infantile.
In un momento in cui si discute che forma dare all’educazione civica, tornare a quell’esperienza allarga il respiro a chi concorda con Lodi che, “se siamo capaci di liberare il bambino, spezziamo dentro di noi anche altre catene”.
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