Quando sono uscito dall’autostrada alle due del pomeriggio fuori c’erano quaranta gradi. Mi sono diretto verso Calitri, mentre la strada si faceva più in salita. In lontananza svettavano delle enormi pale eoliche, mentre intorno a me le colline irpine erano gialle per l’arsura. Di fronte a me, un camion trasportava lentamente delle balle di paglia. A un certo punto ha quasi sbandato, e qualche filo di paglia mi è entrato nella macchina dal finestrino aperto.
Non ero ancora arrivato a Calitri, il paesino campano abbarbicato sulle colline che ospita lo Sponz Fest, ma avevo già capito perché Vinicio Capossela considera questi luoghi, dei quali sono originari i suoi genitori, il suo Far west. Queste campagne bruciate dal sole sarebbero state perfette per il set di un film di Sergio Leone (anche il padre del regista, del resto, aveva origini irpine).
Era il 25 agosto, il penultimo giorno dello Sponz Fest, una manifestazione fondata dieci anni fa dallo stesso Capossela e che dal 20 al 27 agosto ha portato almeno 35mila persone a Calitri, un paese svuotato dallo spopolamento ma che conserva un fascino antico tra le sue case pericolanti. Il cantautore è il direttore artistico dell’evento, ma sarebbe riduttivo definire il suo ruolo in questo modo: Capossela è lo Sponz Fest (sponz viene dal dialetto “sponzare”, che significa bagnarsi, in questo caso di sudore dopo il ballo indiavolato).
Lo trovavi ovunque in quei giorni, anche agli eventi più piccoli. Ogni tanto spuntava in mezzo al pubblico con un mezzo sorriso sulle labbra e l’aria pensierosa. Faceva ospitate ai concerti degli altri, introduceva qualche dibattito abbracciando calorosamente i relatori, si aggirava per il backstage parlando con Franco Bassi, amico di lunga data e responsabile della parte organizzativa.
Un gesto d’amore
Del resto lo Sponz Fest somiglia in tutto e per tutto a Capossela. Esprime il suo caos creativo, la sua capacità di sorprendere e improvvisare. A volte c’era qualche piccolo ritardo nella scaletta, ma non importava, perché in Irpinia s’impara subito che il tempo è dilatato. Il festival esprime soprattutto la sua curiosità onnivora, la capacità di coniugare alto e basso, di fare cultura senza rinunciare all’intrattenimento puro.
In quale altra manifestazione può capitare di ascoltare una conversazione sui viaggi per mare e sulla luna insieme agli scrittori Fabio Genovesi (autore del romanzo Oro puro, ispirato alla scoperta dell’America) ed Ermanno Cavazzoni (autore del Poema dei lunatici, a cui Federico Fellini si ispirò per il suo ultimo film, scritto con lo stesso Cavazzoni, La voce della luna) su un colle di fronte a un tramonto infuocato, mentre in lontananza svettava il paese di Cairano, ai piedi di una trebbiatrice volante?
Lo Sponz Fest, fin dalla sua prima edizione, è un gesto d’amore nei confronti delle aree interne, quelle lontane dalle grandi città, quelle che ospitano i paesi “felicemente inoperosi”, come li ha definiti il poeta Franco Arminio (che è nato e vive a Bisaccia, a venti minuti di macchina da Calitri). In queste zone dell’Italia, secondo Openpolis, è previsto il maggior calo dei residenti entro il 2030. E invece Capossela ci ha fatto un festival, un evento che sarebbe difficile da immaginare, se non esistesse, che sfida molti luoghi comuni sulla musica dal vivo nel nostro paese, e che ha creato con il suo pubblico un rapporto affettivo.
Lo Sponz Fest si svolge in vari comuni dell’Alta Irpinia, ma il suo epicentro come detto è Calitri. È qui che si tiene la maggior parte degli eventi. Quest’anno il tema della manifestazione era “Come li pacci”, come i pazzi, che è anche il titolo di un libro appena pubblicato da Baldini + Castoldi e che racconta proprio la storia dello Sponz. “Come li pacci” era inteso nella duplice accezione di pazzia dissipatrice della festa, ma anche di riflessione sul disagio mentale, tema affrontato soprattutto dal Padiglione Irpinia curato da Mariangela Capossela, la sorella del cantautore.
Questo luogo mentale più che fisico, così chiamato in omaggio allo psichiatra campano Sergio Piro, ha dato spazio a incontri sulla psichiatria e la cura in senso ampio. “Come li pacci è l’espressione paesana per dire di chi non sta a senno, di chi non trova dimora, di chi esce fuori di sé, di chi si agita di qua e di là, di chi le sbandate gli fanno la rotta”, ha spiegato Capossela.
Atmosfere western
Il culmine dell’evento è stato il concerto finale del 26 agosto a Montecanto, in aperta campagna, su un pratone ricoperto di paglia che ricordava di nuovo atmosfere western. È lì che Capossela ha fatto portare la trebbiatrice volante (opera d’arte dell’amico e artista Dum Dum), ma soprattutto è lì che le ultime due sere ha messo in scena un baccanale musicale apparentemente senza fine, ospitato da tre palchi (uno grande, due più piccoli in stile liberty) che si accendevano a rotazione.
Si partiva alle sette di sera e si finiva alle cinque del mattino. Dopo gli Skiantos, Nino Frassica e tanti altri il 25 agosto, la serata finale ha visto Capossela nella veste di mattatore: ha portato sul palco una serie di ospiti d’eccezione e ha trasformato lo Sponz in una chiassosa festa di paese a uso e consumo di cinquemila spettatori arrivati da varie parti d’Italia.
Ad aprire la serata ci ha pensato il cantautore texano Micah P.Hinson, ormai adottato dal festival, che si è esibito in un set intimo ed è apparso in forma come non lo era da tempo per presentare l’ultimo album I lie to you. E poi è cominciata l’epopea caposselliana: il cantautore si è presentato sul palco alle dieci insieme alla sua band, nella quale spiccano i due chitarristi “Asso” Stefana e Antonio Gramentieri (un nuovo ingresso di qualità) e il tamburellista Peppe Leone.
Per quasi un’ora l’artista ha presentato i brani del suo ultimo album Tredici canzoni urgenti, uscito a maggio, un disco che non è eccessivo definire politico (“Con la Meloni si va dalla parte del torto”, ha detto introducendo uno dei brani). Da lì la serata è stata un crescendo. Prima è salita sul palco Margherita Vicario, che ha duettato con il cantautore nel brano La cattiva educazione, dedicato al tema del femminicidio, e poi ha conquistato il pubblico con Abauè (Morte di un trap boy).
Poi è arrivato Samuele Bersani, che dopo la delicata Il mostro ha cantato l’immancabile Giudizi universali, prima di unirsi a Capossela per Billy Budd, brano estratto da Marinai, profeti e balene.
Disorientati dall’abbondanza
Finito il primo set, Capossela ha lanciato il grido di battaglia della serata: “faciti rota”, che potremmo tradurre con “giratevi”, un invito a rivolgersi verso gli altri palchi più piccoli preso in prestito da Antonio Infantino, figura storica della musica folk meridionale. E così, come disorientati dall’abbondanza, siamo stati investiti dal tango di Daniel Melingo prima, dal folk indiavolato della Banda della Posta insieme all’attore Paolo Rossi poi, al quale si è unito il padrone di casa per cantare versioni spassose di Che cossè l’amor, Al veglione (un brano ispirato a una festa di capodanno vissuta durante l’infanzia al ristorante Da Ciccillo, che si trova nel vicino paese di Andretta) e Marina di Rocco Granata.
È stato forse il momento più divertente della serata. E poi, dopo un altro “faciti rota”, Capossela è tornato sul palco principale per un set di brani folk estratti dal suo disco Canzoni della cupa, dove a un certo punto Knockin on heaven’s door di Bob Dylan si è fusa con Nachecici innescando l’ennesimo ballo collettivo.
E poi ecco i Fan Fath Al, un quintetto di ragazzi specializzati nella fanfara balcanica in salsa italiana, tra una Bella ciao e una Fischia il vento, che in seguito hanno accompagnato il cantautore in Zampanò e Solo mia, in un altro dei momenti più intensi. Il finale è arrivato con L’Uomo vivo (inno alla gioia), uno dei pezzi più popolari ai concerti di Capossela, prima dei ringraziamenti di rito. Ma il pubblico, evidentemente, non ne aveva abbastanza. E alle 4.36 il cantautore e la band sono stati praticamente trascinati sul palco dai cori degli spettatori, che chiedevano Il ballo di San Vito, suonata in una versione quasi psichedelica da un Capossela esausto ma soddisfatto.
Capita di fare poche esperienze come lo Sponz Fest, in Italia e non solo. Un evento così, in un posto lontano dai grandi circuiti, con quell’atmosfera, è davvero merce rara. E lo si vede anche dai dettagli: il prezzo dei biglietti per le date di venerdì era inferiore ai 30 euro (e il resto non si pagava), l’acqua per gli spettatori è gratis (prendano nota i promoter di tanti grandi eventi, per favore), ai chioschi si trovano cose buone da mangiare e non costano uno sproposito. Si fanno poche code, e si ha spazio per muoversi, ballare, ma anche per sdraiarsi e fare un pisolino volendo. Il direttore artistico, nonché principale intrattenitore, è lì, in mezzo alle persone (non è retorica, è proprio così), e a 57 anni partecipa con l’entusiasmo di un ragazzino.
Si dice che questa edizione dello Sponz Fest potrebbe essere stata l’ultima, ma lo si diceva anche gli anni scorsi. Sono convinto che non sarà così, anche perché sarebbe davvero un peccato. Un evento del genere va preservato, incoraggiato. E soprattutto vissuto in prima persona, se si può. ◆
Vinicio Capossela sarà al festival di Internazionale a Ferrara sabato 30 settembre per presentare il suo nuovo libro Come li pacci.
Ascolta anche:
I viaggi di Vinicio Capossela. L’intervista al cantautore di Giovanni Ansaldo per le puntate speciali estive del podcast di Internazionale Il Mondo.
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