Questo articolo è uscito il 2 aprile 2022 a pagina 12 del numero 21 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.
Esclusione degli atleti olimpici e paralimpici dalle competizioni, estromissione delle squadre di club da vari tornei, cancellazione delle manifestazioni come il gran premio di Formula 1 di Sochi o la finale di Champions League di calcio a San Pietroburgo. E poi la fuga degli sponsor che hanno rescisso i contratti.
Le pesanti sanzioni sportive – imposte dalla comunità internazionale alla Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina – raccontano come spesso lo sport sia la prosecuzione della politica con altri mezzi. E, se di questo legame aveva già scritto a proposito dei Giochi olimpici antichi lo storico ateniese Tucidide (460–399 circa a.C.), tutto emerge in maniera ancora più evidente con la modernità. La storia dello sport italiano ne è un ottimo esempio.
Basta pensare al calcio, lo sport oggi più praticato nel paese, con oltre un milione e 300mila tesserati, 12mila società e 62mila squadre diffuse sul territorio. È il fascismo a renderlo uno strumento funzionale alla propria ideologia. Certo, a pallone si giocava anche prima, ma è Benito Mussolini, grazie all’opera del gerarca fascista Leandro Arpinati, a partire dalla Carta di Viareggio del 1926, a istituire il primo campionato nazionale, a rendere gli atleti professionisti, a istituire il calciomercato e a promulgare la prima legge per la costruzione di nuovi impianti. E se il fascismo a livello popolare sostituisce l’associazionismo cattolico nell’organizzare l’attività fisica e il tempo libero dei cittadini con una capillare diffusione di campi e strutture, a livello economico impone la fusione delle diverse squadre delle grandi città per avere un unico club di riferimento cittadino in un unico stadio.
La nazionale in camicia nera
Così, durante il fascismo il calcio diventa un formidabile strumento di propaganda. La nazionale maschile italiana, allenata da Vittorio Pozzo e sulla quale il regime fa un notevole investimento politico ed economico, vince i Mondiali del 1934 e del 1938, un mese prima della promulgazione delle leggi razziali, oltre alle Olimpiadi di Berlino del 1936. E lo fa sfoggiando divise nere, aquile imperiali e saluti romani.
Se per Vladimir Ilič Lenin il più importante strumento di propaganda era il cinema, per Benito Mussolini è il calcio. Tuttavia, lo sport può diventare politica non solo come emanazione dell’ideologia dominante ma anche come costruzione di contropotere.
L’immagine di Bruno Neri, calciatore della Fiorentina che durante la partita di inaugurazione del nuovo stadio di Firenze nel 1931 è l’unico a tenere le braccia lungo i fianchi per non fare il saluto romano, ha la stessa potenza sovversiva del pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos sul podio delle Olimpiadi messicane del 1968.
Nel 1943 Bruno Neri diventa partigiano col nome di battaglia Berni. Morirà l’anno dopo in uno scontro a fuoco con i nazifascisti. Non è l’unico calciatore a imbracciare il fucile e salire in montagna: il terzino della Comense Michele Moretti, con il nome di battaglia Pietro Gatti, il 28 aprile 1945 fa parte del gruppo protagonista dell’esecuzione di Mussolini, insieme a Walter Audisio e Aldo Lampredi.
Simbolo della Resistenza sono anche le biciclette, con le eroiche staffette partigiane, ragazzi e ragazze che macinano chilometri e sfidano la morte per consegnare armi, documenti e messaggi. Tra loro ci sono anche affermati campioni come Vittorio Ortelli, Alfredo Martini, Enzo Sacchi e Gino Bartali. Quest’ultimo aveva già vinto due Giri d’Italia e un Tour de France prima di fare la spola tra Cortona e Assisi, durante la guerra, per trasportare materiale utile a salvare centinaia di ebrei e altri perseguitati.
Il rapporto tra ciclismo e fascismo è però meno lineare di quello che il regime costruisce con il calcio. Se la bicicletta è immortalata come simbolo di modernità dai futuristi e decantata nelle loro poesie, sono rarissime le fotografie del duce in bicicletta. Accade perché il ciclismo, da un lato, è uno sport di massa, dichiaratamente proletario, e come tale è promosso e sovvenzionato dal regime perché produce consenso, ma, dall’altro, è vissuto con sospetto perché, svolgendosi in spazi aperti e su lunghe distanze, è meno controllabile rispetto alle arene in cui si gioca a pallone.
Il gigante che piace a Mussolini
Anche controllare il pugilato, altro sport che la dittatura utilizza come formidabile strumento di propaganda, è facile. Gli esempi più noti sono due.
Il primo è quello di Primo Carnera, il gigante buono che, come il calciatore Giuseppe Meazza, è scelto personalmente da Benito Mussolini come simbolo della nuova Italia virile e fascista. Sfruttato dal regime ben oltre la sua volontà, Carnera è costretto a disputare e vincere diversi incontri davanti a una folla entusiasta e dichiaratamente fascista, sempre alla presenza in prima fila del duce.
Dopo la conquista del titolo mondiale dei pesi massimi a New York nel 1933, Mussolini lo fa affacciare al suo fianco, in rigorosa camicia nera, al balcone di piazza Venezia. Ma poi la sua carriera sportiva comincia a declinare e il regime, che da subito aveva proibito ai giornali di pubblicare foto di Carnera sconfitto o al tappeto, lo cancella dalla sua campagna ideologica.
Chi invece dalla propaganda del regime non è mai stato considerato, anzi è stato tenuto così ben nascosto che la sua storia è stata riscoperta solo diversi decenni dopo, è Leone Jacovacci. Nonostante il fatto che nel 1928 riesca a diventare campione italiano dei pesi medi e dei mediomassimi, resta praticamente uno sconosciuto. E anche la sua carriera è ostacolata. Tutto questo perché Leone Jacovacci è mulatto, e quindi non rispetta i canoni della razza italica fiera e pura che vuole il regime, e che invece Carnera impersona alla perfezione, almeno fino a quando vince.
L’intreccio tra sport e politica però non si esaurisce con la caduta della dittatura. Nel dopoguerra, gli sportivi sono arma di propaganda del potere anche nelle democrazie. In Italia, intorno a campioni del ciclismo come Fausto Coppi e Gino Bartali si costruisce un romanzo popolare che li racconta come Peppone e Don Camillo, anche se l’appartenenza comunista di Coppi è molto meno certa della fede cattolica di Bartali. Ma la vittoria di Bartali al Tour de France del 1948, e in particolare l’epica impresa in solitaria nella tappa del Galibier dove conquista la maglia gialla simbolo del primato, distraggono in parte il paese e aiutano a evitare che in Italia scoppi la rivoluzione dopo l’attentato a Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano.
È però il calcio, ancora una volta, a essere la plastica dimostrazione di come lo sport sia la prosecuzione della politica con altri mezzi. Nell’Italia inondata dai soldi del Piano Marshall, e che vuole dimenticare il suo passato fascista e coloniale per proporsi come vergine potenza industriale, si crea un clima in cui gli imprenditori sono portati ad acquistare i club delle loro città.
Mezzo secolo prima che Silvio Berlusconi utilizzi il Milan per la sua “discesa in campo”, è l’armatore monarchico Achille Lauro a riempire di campioni il Napoli per costruire la sua carriera politica che lo porta a diventare prima sindaco della città campana e poi deputato e senatore.
L’intreccio tra sport e politica però non si esaurisce con la caduta della dittatura. Nel dopoguerra, gli sportivi sono arma di propaganda del potere anche nelle democrazie. In Italia, intorno a campioni del ciclismo come Fausto Coppi e Gino Bartali si costruisce un romanzo popolare che li racconta come Peppone e Don Camillo, anche se l’appartenenza comunista di Coppi è molto meno certa della fede cattolica di Bartali. Ma la vittoria di Bartali al Tour de France del 1948, e in particolare l’epica impresa in solitaria nella tappa del Galibier dove conquista la maglia gialla simbolo del primato, distraggono in parte il paese e aiutano a evitare che in Italia scoppi la rivoluzione dopo l’attentato a Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano.
È però il calcio, ancora una volta, a essere la plastica dimostrazione di come lo sport sia la prosecuzione della politica con altri mezzi. Nell’Italia inondata dai soldi del Piano Marshall, e che vuole dimenticare il suo passato fascista e coloniale per proporsi come vergine potenza industriale, si crea un clima in cui gli imprenditori sono portati ad acquistare i club delle loro città.
Mezzo secolo prima che Silvio Berlusconi utilizzi il Milan per la sua “discesa in campo”, è l’armatore monarchico Achille Lauro a riempire di campioni il Napoli per costruire la sua carriera politica che lo porta a diventare prima sindaco della città campana e poi deputato e senatore.
L’invenzione di Forza Italia
La famiglia Agnelli dopo il Partito nazionale fascista non si legherà esplicitamente ad alcun partito, ma è in un certo senso politica anche la scelta della Juventus di puntare, negli anni settanta, sui migliori giocatori espressione delle regioni meridionali, quelle da cui provengono molti degli operai che lavorano nelle fabbriche della Fiat.
Sfruttati nelle catene di montaggio, gli emigranti proletari trovavano ogni domenica un loro conterraneo vincente nel quale potersi identificare. “Panem et circenses”, scriveva Giovenale nelle Satire, ma spesso il “circenses” serve più del “panem” a evitare rivolte e rivendicazioni.
Non è un caso che siano pochissimi i calciatori a rendere esplicite le loro posizioni politiche. Paolo Sollier, negli anni settanta calciatore del Perugia e militante della sinistra extraparlamentare in Avanguardia Operaia, racconta come da sempre schierarsi nello sport italiano possa far perdere tutele e privilegi e, dato che uno sportivo ha una carriera remunerativa ma molto breve, nessuno ha intenzione di metterla a rischio.
Chi decide invece di rischiare, e facendolo entra nella storia, sono Adriano Panatta e Paolo Bertolucci. Il 18 dicembre 1976 i due tennisti scendono in campo per giocare e vincere la Coppa Davis indossando a loro rischio una maglietta rossa fiammante nell’impianto dell’Estadio Nacional di Santiago del Cile, accanto allo stadio dove il regime del sanguinario dittatore Augusto Pinochet rinchiude, tortura e ammazza i suoi oppositori.
Gli anni ottanta e novanta sono senza dubbio gli anni di Silvio Berlusconi, leader politico e proprietario della squadra di calcio del Milan. L’ex presidente del consiglio non è certamente il primo a battere la strada della commistione tra calcio e politica che, come si è visto, è un fenomeno con alle spalle almeno un secolo di vita, ma sublima questa mescolanza arrivando a chiamare Forza Italia il partito politico da lui fondato.
Non soltanto trionfi e coppe, ma anche il calciomercato viene utilizzato come strumento di propaganda dal leader del centrodestra, a partire dai grandi acquisti fatti dal Milan durante la campagna elettorale, come quelli di George Weah, Roberto Baggio, Rui Costa e Alessandro Nesta. E non è ancora tutto.
Dino Zoff, il commissario tecnico della nazionale giunta al secondo posto agli Europei disputati nel 2000 in Belgio e Paesi Bassi, si dimette anche in seguito all’accusa di Berlusconi di non avere organizzato una marcatura a uomo sul francese Zinedine Zidane nella finale, mentre nel 2003, in diretta da Bruno Vespa, il leader di Forza Italia mostra gli schemi dei calci d’angolo disegnati da lui e grazie ai quali, a suo dire, il Milan allenato da Carlo Ancelotti avrebbe battuto la Juventus nella finale di Champions League.
Gelli, Videla e l’arbitro Gonella
Sono però lontani i tempi in cui il calcio poteva essere usato in maniera sfacciata dalle dittature, come accadde durante i Mondiali disputati in Argentina nel 1978, in cui anche l’Italia ebbe un ruolo. Il giorno della finale tra Argentina e Olanda in tribuna autorità - come, tra gli altri, hanno scritto Avvenire e il manifesto - ci sarebbe stato anche un signore allora poco noto, ma destinato in breve a diventare protagonista delle cronache italiane su stragi e misteri di stato: Licio Gelli, venerabile maestro della loggia massonica P2, e tramite tra industriali, banche italiane e la dittatura sudamericana di Jorge Videla. In campo, invece, quella notte a Buenos Aires c’è Sergio Gonella, il cui arbitraggio verrà giudicato da molti osservatori come molto favorevole alla squadra di casa.
La commistione tra sport e politica, almeno nelle democrazie occidentali, oggi non può essere ancora così sfacciata. E così la lotta si è spostata altrove, spesso in seno alle federazioni, dove si gestisce il potere, incidendo però sulle competizioni e sulla vita degli atleti.
Il 6 agosto 2012 il marciatore italiano Alex Schwazer, già campione olimpico della marcia sui 50 chilometri a Pechino 2008, viene trovato positivo all’eritropoietina durante le Olimpiadi di Londra. Scontata la squalifica, l’atleta torna ad allenarsi con Sandro Donati, medico e preparatore tra i più noti accusatori del sistema doping in Italia, ma viene nuovamente squalificato alla vigilia della marcia di Rio 2016 perché trovato nuovamente positivo, nonostante si proclami innocente. La vicenda ha un seguito giudiziario che si conclude con l’archiviazione del procedimento a suo carico da parte della giustizia ordinaria che però non è stata accettata dalla giustizia sportiva internazionale.
Con il caso Schwazer siamo oramai in piena globalizzazione. E se lo sport è da sempre un movimento transnazionale che non conosce confini, anche la commistione tra sport e politica non può più essere ricondotta alle vicende di un singolo paese. L’immagine della nazionale di calcio maschile che agli Europei poi vinti del 2021 non si inginocchia in segno di solidarietà con le proteste del movimento Black lives matter fa il giro del mondo, non è più una notizia locale funzionale alla propaganda a uso interno.
E il caso della campionessa di pallavolo Paola Egonu, criticata in Italia per avere rivendicato il suo essere donna, nera e bisessuale, deve necessariamente essere messo in relazione con le rivendicazioni di razza e genere che altri atleti e altre atlete fanno altrove con meno problemi, raccontando così un paese ancora in parte bigotto.
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