Ogni volta che torna a Taranto, Fabio Rizzi si ritaglia del tempo per girare tra i vicoli del centro storico. Un tempo in quelle strade si faceva di eroina, ora sono trent’anni che ha smesso e prova ad aiutare i tossicodipendenti. Con la sua bicicletta raggiunge una ventina di persone al giorno, cerca di entrarci in confidenza, fa discorsi sulla prevenzione, distribuisce siringhe nuove e il naloxone, un farmaco antagonista che blocca gli effetti degli oppiacei e salva dall’overdose.
Rizzi, che ha cinquant’anni, offre un servizio informale di riduzione del danno in una città dove qualcosa di simile non è mai esistito, a dispetto delle direttive nazionali. “Un tempo la strada la vivevo come tossicodipendente, oggi come operatore informale. Prima mi fermavano per arrestarmi, adesso per chiedermi aiuto”.
Senza strategia nazionale
La riduzione del danno è un insieme di politiche e servizi volti a ridurre le conseguenze negative del consumo di droghe. In Italia i primi progetti sul tema sono partiti negli anni novanta, con screening delle malattie, distribuzione di siringhe, drug checking (analisi delle droghe) e drop-in (strutture di accoglienza a bassa soglia). L’Italia è stata tra i primi paesi al mondo a rendere il naloxone un farmaco obbligatorio da banco. Nel 2017 la riduzione del danno è entrata tra i Livelli essenziali di assistenza (Lea) nazionali. Eppure oggi le cose non vanno troppo bene.
“C’è un paradosso italiano sui servizi di riduzione del danno. Per anni sono stati tra i migliori del mondo ma con il tempo sono emerse problematicità perché non sono mai stati inclusi nei piani d’azione nazionali sulle droghe. Se si lavora bene nei territori, ma manca una politica nazionale, si fa un centesimo di quello che si potrebbe fare”, spiega Susanna Ronconi di Forum droghe.
I decessi per overdose in Italia sono crollati da più di mille nel 1999 a 293 nel 2021, ma non basta. Lo scorso ottobre l’Onu ha bacchettato l’Italia per insufficiente disponibilità di programmi di riduzione del danno, a novembre Harm reduction international ha evidenziato criticità in termini di copertura territoriale, assenza di stanze del consumo, chiusura dei drop-in e scarsa reperibilità del naloxone. Per quanto riguarda il farmaco, è bastato fare un test a Milano per averne conferma: su una dozzina di farmacie visitate, solo due ce l’avevano.
Territori scoperti
Secondo una ricerca realizzata da Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca), Rete italiana della riduzione del danno (Itardd), Coordinamento italiano case alloggio hiv/aids e Arcigay, in Italia i servizi di riduzione del danno e limitazione dei rischi sono 152. Sono concentrati perlopiù al centronord, mentre il sud è quasi o completamente scoperto. Capitano poi servizi etichettati come riduzione del danno, ma che nel concreto rifiutano di offrire prestazioni essenziali come la distribuzione di siringhe.
In Puglia il problema è di lunga data. “La riduzione del danno a Taranto non è mai arrivata. Ci si è sempre aiutati tra tossicodipendenti”, spiega Fabio Rizzi. I consumatori locali erano riusciti a far installare un distributore di siringhe, poi il prefetto lo ha fatto togliere. Oggi l’unico accenno di riduzione del danno lo offre Rizzi, che vive a Roma e compare in Puglia saltuariamente. “Me ne vado in bicicletta dove so che la gente si fa”, spiega. “Faccio due chiacchiere, li faccio ridere”. Rizzi raccomanda di non gettare le siringhe a terra, distribuisce opuscoli che si stampa da sé e offre materiale sanitario raccolto da associazioni che operano altrove. “Dopo un po’ i consumatori mi danno ascolto. Serve però un vero servizio di riduzione del danno in città”.
Anche la Sicilia ha lo stesso problema. A Palermo c’erano un drop-in e un’unità mobile, poi hanno chiuso per scarsità di fondi. “La regione non ha recepito le prescrizioni nazionali”, spiega Massimo Castiglia di Sos Ballarò. Oggi in città resiste un gruppo di autoaiuto, tutto il resto è sulle spalle dei sei dipendenti dei Servizi per le dipendenze patologiche (Serd) che di fronte a un’utenza di duemila persone riescono a malapena a distribuire il metadone. Le persone che usano droga sono abbandonate a se stesse, prive di punti di riferimento. Castiglia racconta di una donna che cercava crack per la figlia nel quartiere dell’Albergheria, l’aveva convinta a stare a casa in cambio della droga invece che dormire in strada. “Questi vuoti istituzionali causano situazioni devastanti”, conclude. A novembre si è tenuto un corteo di protesta dopo la morte per overdose di due ragazzi.
Il modello Torino
A Torino le cose vanno storicamente bene sul tema della riduzione del danno. Qui nel 2019 è stata firmata la prima delibera regionale italiana che recepisce le prescrizioni nazionali sui Lea. Nel 1997 è nato il primo drop-in italiano. Nella vicina Collegno è sorta la prima e finora unica cosa che più somiglia a una stanza del consumo in Italia, uno spazio autogestito dalle persone che usano droga di fianco al drop-in Punto Fermo.
Torino è stata anche la prima città italiana a offrire un servizio stabile di drug checking, che già avveniva informalmente al Lab57 di Bologna. Lo sportello torinese, dove è disponibile anche il materiale di Chemical sisters, un collettivo che fa riduzione del danno con focus su donne e persone non binarie, è gestito dal Progetto Neutravel, una partnership tra settore pubblico e privato sociale.
Lo spazio apre al pubblico ogni venerdì sera ed è pieno di materiale informativo sulle droghe e i rischi delle miscelazioni. Su una scrivania è posato uno spettrometro Raman, uno strumento da quasi 40mila euro che identifica in pochi secondi la composizione delle sostanze. A maneggiarlo c’è un chimico. Il consumatore pone la sua bustina davanti all’obiettivo del macchinario, che in pochi secondi dà il risultato. “Chi scopre di avere in mano qualcosa che non si aspettava decide di non assumerla nel 60-70 per cento dei casi”, spiega Elisa Fornero, coordinatrice di Neutravel per la cooperativa sociale Alice onlus. “Quando invece il test conferma le aspettative c’è comunque fino a un 15 per cento dei casi che sceglie di non assumere la sostanza in seguito all’attività di counseling”.
Torino è anche la città dove si è affermato il peer support. “Negli anni novanta è successa una cosa clamorosa in città: le Asl hanno assunto persone con un trascorso di tossicodipendenza così da mettere a frutto la loro esperienza diretta con il mondo del consumo e la loro conoscenza delle reti territoriali”, spiega Alessio Guidotti di Itanpud – Network italiano delle persone che usano droghe. Si è innescato così un processo di empowerment e inclusione di consumatori e consumatrici. “Queste persone hanno cambiato la loro storia di consumo diventando figure educative professionali”.
Eppure anche il modello Torino scricchiola. Il drop-in Punto Fermo ha chiuso temporaneamente alla fine del 2020 per assenza di fondi. Il servizio di pronta assistenza per tossicodipendenti dell’Asl ha subìto la stessa sorte. Anche Neutravel non ha garanzie economiche di poter continuare il suo lavoro, dal momento che i finanziamenti regionali hanno scadenza biennale e questa incognita perenne limita la progettualità.
Al boschetto di Rogoredo
Pure Milano vive alti e bassi. Al drop-in di Fondazione Somaschi un operatore, un’educatrice sociale e diversi tirocinanti devono affrontare un massiccio via vai di persone. Tra queste c’è Laura, 40 anni, che vive in un edificio occupato e si muove nella struttura con una ritualità casalinga. Entra e scarica in un contenitore apposito le sue siringhe usate. Poi si palesa all’accettazione, prenota la doccia per il giorno dopo, ritira un pacco nuovo di aghi, lacci e disinfettanti, prende qualche biscotto e sparisce in strada. Altre persone chiacchierano nell’area chill out, qualcuno sonnecchia sul divano con la televisione in sottofondo.
“La gente all’inizio passa furtivamente, giusto per le siringhe. Con il tempo si crea fiducia e chiedono anche il resto, così da poter assumere le sostanze in modo più sicuro”, spiega Edoardo D’Alfonso, responsabile del centro. “Noi chiediamo di raccontarci come si fanno, per capire se c’è qualcosa che non va, cosa c’è di rischioso. Serve per diffondere le buone pratiche”. Fino a qualche tempo fa il drop-in era aperto sei giorni su sette, ora hanno stretto le maglie perché gli stanziamenti della regione Lombardia non coprono le spese. Il centro ha dovuto chiudere durante tutto il periodo natalizio, privando gli utenti dell’unico drop-in cittadino.
Quella non che chiude mai è l’unità mobile di Rogoredo, gestita da Croce Rossa, Agenzie di tutela della salute (Ats) Milano e organizzazioni del territorio. Il boschetto limitrofo non è più il tempio dello spaccio come un tempo, ma il movimento di consumatori è ancora importante. “Oggi l’utente medio è un uomo tra i 25 e 45 anni ma la quota di donne è in crescita. Quanto alle droghe, si fa sempre più uso di cocaina”, spiega un operatore, mentre un uomo sull’uscio del camper reclama due boccette di acqua per il naso. Gli operatori offrono anche screening per l’hiv, naloxone, siringhe e carta stagnola. Il supporto arriva fino all’accompagnamento fisico nei Serd o nei dormitori.
Il progetto va avanti da anni ma ha subìto un calo nel personale. Come spiegano gli operatori, le risorse stanziate al livello regionale sono state indirizzate su altri servizi legati alle tossicodipendenze e questo ha ridotto la disponibilità economica. L’unità mobile di Rogoredo resta comunque un modello, capace di superare i due principali ostacoli sulla strada dei servizi di riduzione del danno: la creazione di percorsi integrati tra le varie realtà associative, che spesso hanno visioni differenti, e il costante scontro politico locale sul tema.
Nelle carceri
Le carceri sono i luoghi dove, al di là della terapia di metadone, i servizi di riduzione del danno in Italia non riescono ad arrivare. “In paesi come la Germania le siringhe sono distribuite anche in cella”, spiega Susanna Ronconi di Forum droghe. “Servirebbe una rivoluzione culturale per una cosa simile in Italia, significa essere pragmatici. In carcere ci si droga, con decine di persone che si passano la stessa siringa o si creano siringhe di fortuna. Distribuire nuovi presidi non significa ignorare l’ingresso della droga in carcere ma mettere la salute come priorità”.
Un primo cambiamento sta avvenendo nel carcere di Bergamo, dove dopo un periodo di sperimentazione partirà all’inizio del 2023 il progetto Esci in sicurezza, nato dalla collaborazione con l’azienda sociosanitaria territoriale Papa Giovanni XXIII e la cooperativa di Bessimo. I detenuti fragili dal punto di vista delle tossicodipendenze ricevono un kit alla scarcerazione, che varia in base alla loro storia di consumo: oppiacei, cocaina, alcol e cannabinoidi. All’interno materiale informativo, il piano terapeutico personale, siringhe, presidi per lo sniffo, profilattici e naloxone.
“La ricaduta nell’abuso di sostanze per chi esce da strutture protette, in particolare quelle penitenziarie, è uno dei maggiori fattori di rischio per le overdose”, sottolinea Elisabetta Bussi Roncalini, responsabile del Serd del carcere. I tossicodipendenti durante la carcerazione vedono ridursi la loro tolleranza agli oppiacei, inoltre il trattamento a base di metadone costituisce uno scudo dall’overdose. Una volta fuori si trovano più scoperti e fragili in caso di nuovi consumi. “L’obiettivo è fare prevenzione dall’overdose da oppiacei, dalle patologie infettive correlate all’uso in vena o inalazione di sostanze psicotrope e dalla trasmissione delle malattie sessuali, oltre che accompagnare ai servizi sanitari”, continua Bussi Roncalini. “Noi effettuiamo uno screening che ci permette di identificare i soggetti a rischio e preparare kit personalizzati da consegnare all’uscita. Le cose si complicano quando la scarcerazione è improvvisa”. Nella fase pilota del progetto è stato raggiunto circa il 10 per cento dei bisognosi, ora si punta ad ampliare la platea.
La stretta del governo Meloni
Nell’estate del 2021 vicino Viterbo si è tenuto un free party con migliaia di persone. In loco c’erano anche équipe professionali per la riduzione del danno, che hanno stilato un bilancio finale di 116 emergenze affrontate. Lo stesso avviene nella maggior parte di eventi simili in Italia e questi interventi, oltre che garantire i diritti di assistenza sanciti dalla legge del 2017, permettono di abbassare i rischi per i servizi di sanità pubblica e per la collettività.
Fare riduzione del danno ai free party potrebbe però diventare sempre più difficile. Gli operatori sociosanitari solitamente li raggiungono grazie al passaparola, ma la nuova stretta del governo Meloni dopo il “rave di Modena” rischia di produrre ulteriore isolamento. Il testo del decreto legge prevede per questi raduni la reclusione da tre a sei anni e pene pecuniarie, colpendo esplicitamente “l’inosservanza delle norme in materia di sostanze stupefacenti”.
Questo ha fatto alzare la voce a diverse associazioni della società civile. “Il decreto rischia di incentivare l’organizzazione di eventi sempre più nascosti e irraggiungibili, e quindi molto più difficili da gestire attraverso gli interventi di riduzione del danno e tutela della salute pubblica”, scrivono in una lettera. A dicembre in varie città italiane sono state organizzate street parade di protesta contro il decreto. A Torino a chiudere la fila di carri di Ivreatronic e altri collettivi c’era il furgone di Neutravel riconvertito in area chill out mobile, mentre diversi operatori distribuivano materiale sanitario e di prevenzione. Questo ha facilitato la gestione di alcune emergenze legate all’uso delle sostanze.
Il futuro però è grigio. La deputata Maria Teresa Bellucci, responsabile del dipartimento dipendenze di Fratelli d’Italia, ha detto che “la riduzione del danno è fine a se stessa: io ti aiuto a drogarti in maniera tale che tu non muoia”. E ha criticato il nuovo Piano di azione nazionale dipendenze (Pand), frutto della Conferenza nazionale di Genova del 2021 che ha riunito dopo 12 anni centinaia di addetti al settore: “Il piano si basa su un concetto di normalizzazione dell’uso delle droghe”. Il governo ha maldigerito proprio le linee guida sulla riduzione del danno, come la sperimentazione delle stanze del consumo (l’Italia è l’unico paese europeo dove non esistono).
“Quelli a cui stiamo assistendo sono segnali preoccupanti”, chiosa Pino Di Pino di Itardd. “Se l’approccio del governo al fenomeno dell’uso delle droghe è quello della devianza e della criminalizzazione e della droga zero come unico obiettivo, è chiaro che lo spazio per le innovazioni nel campo della riduzione del danno è poco”. L’iter di adozione del Pand è stato bloccato, intanto il governo ha affidato le deleghe sulla droga al sottosegretario Alfredo Mantovano, proibizionista convinto.
“La vita di una persona che usa droga nei territori in cui non c’è riduzione del danno è fatta di isolamento perché la riduzione del danno ha come primo obiettivo quello di istituire connessioni tra un sistema che si prende cura delle persone e le persone che usano droghe in quanto soggetti fortemente stigmatizzati e marginalizzati”. L’assenza di questi servizi crea una spirale di conflitto sociale. “Al contrario, una realtà che offre spazi dove iniettarsi, materiale pulito, infermieri, persone con cui parlare, è una realtà che permette di esercitare appieno il diritto di cittadinanza. E questo può essere lo stimolo migliore per cambiare”, continua Di Pino. “La riduzione del danno è certamente un insieme di prestazioni, ma è anche e soprattutto una prospettiva diversa, pragmatica e rispettosa dei diritti umani, con cui guardare le persone che usano droghe”.
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