“La parola è quella cosa che ti distingue dagli animali”, dice quasi sottovoce Cesare (il nome è di fantasia), vissuto per più di vent’anni in regime speciale di carcere duro, previsto dall’articolo 41 bis. È seduto in una piccola sala dell’università Statale di Milano, a cui può accedere per motivi di studio. Parla lentamente e sceglie ogni termine con molta cura. Al chiasso del chiostro universitario preferisce una piccola stanza, che chiama “il suo rifugio”, perché dopo anni di isolamento i troppi rumori, l’ampiezza degli spazi e le tante persone che camminano per i corridoi ancora lo disorientano. Ha poco più di cinquant’anni, un profilo esile e una certa eleganza nei movimenti. “Nel silenzio di una cella molti sensi rimangono addormentati, in tutti questi anni i libri sono stati l’unica alternativa concreta alla follia”. Oggi è iscritto all’università, alla sua pena non c’è un termine, ma lo studio gli ha permesso di uscire dai due metri quadrati in cui ha vissuto per tutti questi anni, prima con la mente e poi con il corpo.
“Non posso dire di sperare di uscire, ma posso almeno sperare di trascorrere una bella giornata, di godere di un po’ di bellezza”. Ottenere quei libri non è stato semplice, è entrato in carcere poco più che ventenne e si è diplomato da autodidatta, senza poter usufruire di lezioni o di altri aiuti: “Sono siciliano, la realtà sociale da cui arrivo è quella dei margini. In terza media i professori mi dissero che non dovevo azzardarmi a iscrivermi alle superiori. Appena sono entrato nel mondo reale mi sono perso, sono arrivato a fare molto del male”. A interrompere il suo isolamento è stato Stefano Simonetta, professore di filosofia medievale della Statale che dal 2015 porta avanti in tre carceri di Milano un programma di tutoraggio in cui ogni detenuto viene affiancato da uno studente che lo supporta nello studio.
Nel 2021 erano 127 gli studenti in carcere iscritti alla Statale, primo ateneo in Italia per numero di detenuti iscritti (nell’anno accademico 2021-2022 sono 1.246 in totale, secondo la Conferenza nazionale universitaria poli penitenziari): “Oggi, dopo anni di battaglie, ogni settimana tengo lezione in carcere con cinquanta persone, la metà degli studenti sono interni e l’altra metà esterni”, dice il professor Simonetta. “Eppure l’istruzione non dovrebbe essere una missione, ma un diritto. Spesso le direzioni carcerarie ci vedono come delle anime belle a cui prima o poi passerà la voglia. Solo che a noi la voglia non passa”, racconta sorridente. “Abbiamo incontrato persone che dopo decenni di detenzione e isolamento non avevano mai avuto l’occasione di incontrare qualcuno della società civile”, gli fa eco la tutor Chiara Dell’Oca. “All’inizio molti erano diffidenti e riuscivano a malapena a parlare. Una volta un detenuto che stavo accompagnando all’università continuava a inciampare e mi confessò di non riuscire più a camminare in uno spazio diverso da quello dritto e definito dei corridoi del carcere. Con il tempo hanno imparato ad aprirsi, ma soprattutto hanno ripreso a sorridere. Il cambiamento è stato sconvolgente”.
Solo nella memoria
Simonetta è stato uno dei primi a riuscire a entrare nella casa di reclusione di Opera, in alta sicurezza, con un cospicuo numero di studenti. Per i detenuti è stato uno dei primi veri contatti umani con l’esterno. “L’arrivo dei ragazzi da fuori è stato un modo per vedere oltre il muro, lo hanno reso poroso”, racconta Vincenzo (il nome è di fantasia), ex 41 bis, in carcere per reati di mafia da oltre vent’anni. “In loro ho rivisto me da giovane, mentre entravo qui dentro, nell’età in cui avrei potuto fare scelte diverse”. Lo studio per molti è un ritorno alle origini, a un tempo che esiste solo nella memoria, prima di commettere i reati che li hanno condotti in carcere: “Mi sono iscritto ad agraria, perché da ragazzino lavoravo nella ristorazione, in un certo senso l’ho fatto per allungare lo sguardo. Quando per vent’anni oltre le inferriate vedi solo altre pareti, la vista si riduce e allora ho cercato di arrivarci con la fantasia là fuori”.
Vincenzo parla anche del futuro, del suo sogno di lavorare in un’azienda agricola o in un agriturismo. Ma con l’ergastolo ostativo quel “diritto alla speranza” codificato dalla Corte europea dei diritti umani, in Italia è di fatto negato dall’impossibilità di uscire. L’articolo 27 della costituzione parla di pene che “devono tendere alla rieducazione del condannato”. In questo senso, l’istruzione non dovrebbe essere considerata un privilegio, ma un diritto da garantire a tutti i detenuti. Eppure ad accedere all’istruzione è ancora una minoranza. A confermarlo sono i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria presentati il 20 giugno nella relazione al parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.
“Negli ultimi quindici anni ci sono stati progressi miseri. È vero che nell’anno accademico 2021-2022 le persone iscritte all’università sono state 1.246, con un aumento di oltre duecento unità rispetto all’anno precedente, ma dobbiamo considerare che sono poco più del 2 per cento su una popolazione carceraria di oltre 54mila detenuti e un alto tasso di analfabetismo. Su questo le disuguaglianze in carcere sono enormi”, spiega Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Oltre la metà dei detenuti (25.171) non ha dichiarato un titolo di studio e della restante metà più di 16mila sono fermi alla licenza media inferiore. “I numeri sono molto simili a quindici anni fa, sia nel tasso di laureati sia nella percentuale di analfabetismo, questo significa che in carcere la situazione non si è evoluta di un passo”, aggiunge Palma. Anche nel carcere di Bollate a Milano, nato nel 2000 come istituto a custodia attenuata per i detenuti comuni, con un’attenzione speciale all’aspetto rieducativo della pena, la percentuale di iscritti a un percorso d’istruzione è molto bassa.
Julian Dosti, albanese nato nel 1978, è stato il primo detenuto di Bollate a iscriversi alla Statale per studiare filosofia. Passeggia nell’ateneo come se fosse di casa e a ogni passo qualcuno si ferma per salutarlo. “Sono un punto di riferimento qui”, dice fiero, “ho fatto amicizia con tutti”. Arrivato in Italia nel 2002, ha avuto difficoltà a ottenere i documenti. Ha quindi cominciato a lavorare in nero, per poi passare al piccolo spaccio. In breve tempo si è ritrovato coinvolto in traffici internazionali. È stato in carcere più volte, ma la pena più lunga l’ha ricevuta per l’omicidio di un connazionale nel 2007. Ora sta scontando l’ultimo periodo tra casa e lavoro. “Non facevo il criminale perché ero costretto, in un certo senso mi piaceva. Ero quasi orgoglioso di stare in carcere con i pezzi grossi”, racconta. “Col tempo, guardando quei volti ogni giorno, ho cominciato a non riconoscermi più. Vedevo uomini stanchi e deboli, quasi mi intenerivano, e anch’io stavo diventando così. Ho capito che dovevo studiare, trovare un modo per uscire dalla cella, alla fine sono i libri che mi hanno fatto prigioniero. Ho preso il diploma, poi un giorno un amico mi ha regalato l’Apologia di Socrate”.
Pochi corsi
Dopo quella lettura Julian ha scelto di cambiare: “Quel libro parla di un uomo che accetta la legge, che accetta la sentenza, ma che preferisce morire piuttosto che perdere la dignità. È allora che ho pensato che dovevo studiare filosofia e lo scorso anno mi sono laureato”. Oggi lavora per una compagnia assicurativa ma vorrebbe trovare un impiego nel sociale. “Il percorso scolastico e quello lavorativo in carcere spesso non si parlano”, spiega. La formazione professionale nelle carceri è molto complicata , talvolta entra in conflitto con i percorsi di studio per il sovrapporsi degli orari e non sempre si concretizza in esperienze spendibili all’esterno. “C’è la tendenza all’infantilizzazione del detenuto, spesso si propongono corsi di cucito, di falegnameria o magari giochi. Se si vuole pensare al loro reinserimento nella società bisogna preoccuparsi di come usciranno e di cosa andranno a fare. Sono adulti che hanno capacità ed esperienze”, dice Alberto Martinelli, fino a pochi mesi fa professore delle superiori a Opera.
Complice la pandemia, dal 2019 al 2020 i corsi professionalizzanti sono passati da 203 a 92, come riporta il rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone. E anche le iscrizioni sono calate: nel 1990 la percentuale di iscritti ai corsi era intorno al 7,75 per cento della popolazione detenuta, nel 2020 si è arrivati all’1,41 per cento, il picco più basso mai raggiunto. Nel primo semestre del 2021 sono stati 148 i corsi attivati e solo 100 quelli terminati. Si tratta in media di meno di un corso professionale per istituto. La pandemia ha comportato anche l’interruzione di ogni tipo di attività extrascolastica, dal teatro allo sport. La scuola è andata avanti con enorme fatica e gli insegnanti per mesi non sono riusciti ad avere contatti con i detenuti. Durante la prima ondata, su 38.520 ore di lezione da svolgere all’interno degli istituti penitenziari ne sono state erogate solo 1.410. A gennaio 2021, quando ormai in tutta Italia la didattica a distanza era una realtà diffusa, la scuola in carcere non era ancora ripresa. “Prima che mi arrestassero avevo preso una laurea triennale in economia e stavo per finire la magistrale in giurisprudenza”, dice Salvatore, 51 anni, ex agente di polizia locale, in cella per omicidio. “Sono entrato in carcere nel 2015 e sono arrivato a Bollate nel 2018, lì ho ricominciato gli studi, ma durante la pandemia è stato impossibile proseguire”, racconta. “Sono stato da una parte e dall’altra della barricata, quando ero operatore di polizia pensavo che fosse giusto che chi sbagliava pagasse marcendo in prigione. Poi ho compreso il dolore di questa esperienza e l’importanza di un percorso di rieducazione. Se tieni un essere umano chiuso in una gabbia per trent’anni senza far nulla, quando uscirà tornerà a mordere”.
Ritorno alla vita
Il terzo ateneo con il maggior numero di iscritti (80 studenti) in carcere è l’università di Roma Tre, dove studia anche Alessandro, appassionato di ingegneria informatica e uscito dal carcere di Rebibbia appena trentenne, poco prima della pandemia. Per lui il ritorno alla vita è stato possibile, la sua era una condanna di tre anni, ma racconta che avere una pena breve gli ha reso gli studi ancora più complicati. “Spesso se non hai una condanna definitiva lunga, c’è la tendenza a non investire su di te. Ma io sono entrato a 27 anni e per me tre anni sono stati tanti. Fortunatamente ho avuto la possibilità di studiare, di conoscere professori come lo scrittore Edoardo Albinati che ha catturato la mia attenzione, però ci sono moltissimi casi di esclusi dal diritto allo studio per questa ragione della temporaneità della pena”. Una tendenza confermata dal garante Mauro Palma: “I detenuti sono continuamente mobili, hanno pene di pochi anni, oppure sono trasferiti molte volte e spesso quando cambiano istituto la garanzia del percorso di formazione non è mantenuta, ci vogliono mesi per riattivarla. Poi c’è il tema di chi va ai domiciliari o di chi vuole continuare a studiare anche una volta uscito, lì i detenuti sono lasciati a loro stessi”.
“Quando sono uscita avrei voluto iscrivermi all’università, avevo preso da poco il diploma, una soddisfazione enorme per me, ma dovevo pagare le tasse universitarie”, racconta Laura, ex detenuta del carcere di Rebibbia, mentre fuma una sigaretta davanti a un piccolo bar di San Giovanni a Roma, non troppo lontano da dove vive. “Fatico a trovare un lavoro e quindi mi sono adattata. Non voglio ricascare nella droga a costo di fare la dog sitter in nero per tutta la vita”. Laura ha più di cinquant’anni, ma ha ancora voglia di studiare. È seduta e sorseggia una bibita fresca mentre aspetta la sua ex insegnante Barbara Battista, che arriva dopo pochi minuti. Racconta che la lettura l’ha aiutata a uscire dai periodi più difficili della sua vita, sin da quando è stata mandata in collegio all’età di undici anni: “Passavo le ore in biblioteca e sognavo attraverso le storie che leggevo, mi facevano sentire meno sola. Quando sono uscita ero come una bambina, ho iniziato a innamorarmi delle persone sbagliate, sono caduta nella droga e ne sono uscita del tutto quando sono entrata in carcere dopo quella sera”.
La sera che ha cambiato la sua vita risale al 2013, quando in una colluttazione dentro casa ha ucciso l’ex compagno, che l’aveva maltrattata per oltre dodici anni. “In prigione ho deciso che qualcosa doveva cambiare, ho un figlio giovane, volevo dargli una madre diversa”, racconta. “Anche io volevo riuscire a guardarmi di nuovo allo specchio e ad avere un’autostima. Ho pensato di tornare in quel luogo pieno di libri che da piccola mi aveva fatto sentire bene, passavo ogni momento che potevo nella biblioteca del carcere. Lì un’altra donna mi ha aiutato a ricominciare gli studi”. La sua ex insegnante la guarda con orgoglio: “Le donne di Rebibbia hanno delle capacità enormi, la scuola dovrebbe essere la priorità per tutte loro”. Barbara è anche una sindacalista e durante la pandemia si è battuta per non veder ridurre l’organico degli insegnanti. Con il sistema attuale il personale è calibrato in base al numero degli scrutinati annuali, ma l’emergenza sanitaria li ha estremamente ridotti. Dopo giorni di sciopero è riuscita a ottenere il mantenimento delle classi senza che ci fossero tagli. “Mi fa soffrire, però, vedere che quando escono anche le più volenterose e costanti non riescono a reinserirsi”, dice Barbara abbassando lo sguardo. “A Ba’ nun te preoccupa’”, le dice la sua ex studente, “io mo cammino a testa alta”.
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